Domenica 22 agosto 2021, San Fabrizio
MIKE BALLINI
UN BREVE RICORDO DI PADRE MASSIMILIANO MARIA KOLBE
Quando Franco Cardini mi ha chiesto se avrei voluto scrivere un ricordo di Padre Kolbe per l’ormai mitico appuntamento della Minima Cardiniana, ho dapprima riletto bene. Poi ho riletto meglio. Giunto alla conclusione che, sì, il Cardini mi aveva chiesto un contributo per il suo Blog, mi sono cimentato in questo breve ricordo che state leggendo.
Cosa può legare la figura di un padre francescano a chi vi scrive? In apparenza poco: sono un laico, agnostico, poco pratico delle “cose di chiesa”. Eppure quella di Kolbe è una storia di sacrificio, di donazione estrema, che merita assolutamente di essere non solo raccontata, ma ricordata. Ed è nella passione per la Storia che ho incontrato questa figura, per la quale nutro un profondo senso di rispetto, che va oltre le differenze religiose.
Rajmund Kolbe nacque l’8 gennaio1894 a Zduńska Wola, Polonia, in una famiglia fortemente cristiana di modeste finanze.
Già da bambino dimostrò primi segni della vocazione religiosa: ebbe infatti una importante apparizione della Madonna che gli porgeva una corona di gigli, simbolo di verginità, e una di rose rosse, simbolo del martirio.
In questa visione si riconoscono i tre importanti pilastri della sua vita: la verginità come dedizione alla vita di Chiesa, la Madonna alla quale dedicherà la sua attività pastorale ed infine l’eroico martirio che porrà fine alla sua vita.
A 16 anni, entrato nel noviziato francescano, prese il nome di Massimiliano. Successivamente fu inviato a Roma, primo passo di un lungo cammino, ed aggiunse come secondo nome quello di Maria.
Fu infatti in questo periodo di formazione che approfondì la sua devozione per la Vergine all’interno della tradizione e devozione mariana della Famiglia francescana e dei Frati Minori Conventuali.
In questo orizzonte fondò, nel 1917, la “Milizia di Maria Immacolata” con lo scopo di sviluppare l’attività missionaria e apostolica francescana attraverso il culto mariano.
Nonostante fosse affetto da tubercolosi, iniziò una intensa attività con la Milizia, che lo portò dapprima nella nativa Polonia, dove a Varsavia eresse “La Città dell’Immacolata” il suo primo convento, poi in Giappone dove edificò “Il Giardino dell’Immacolata” a Nagasaki, poi in India ed infine di nuovo in Polonia.
Era il 1939 quando, in settembre, i tedeschi deportarono gli ormai pochi frati rimasti nel convento di Varsavia, tra cui Kolbe, nel campo di concentramento tedesco di Amtitz.
Liberato pochi mesi dopo, fecero ritorno alla Città dell’Immacolata in cui diedero rifugio a oltre 3500 persone, di cui 1500 ebrei.
Successivamente, rifiutatosi di prendere la cittadinanza tedesca (l’unico modo per salvarsi dalla deportazione) fu internato nel campo di concentramento di Auschwitz, con il numero di matricola 16670.
Se già queste azioni di aiuto al prossimo, di sacrificio in nome dell’amore universale non fossero abbastanza, è qui che si apre la fase finale della sua vita che ne consacra la figura di eroe martire: all’interno del blocco 14 del campo, un prigioniero addetto alla mietitura dei campi tentò e riuscì in una disperata fuga.
Per rappresaglia, secondo quelle che erano le regole del campo, dieci prigionieri vennero destinati al cosiddetto bunker della fame nel Blocco 13, condannati a morire di fame.
Tra di loro vi era Franciszek Gajowniczek, padre di famiglia e militare nell’esercito polacco.
Padre Kolbe si offrì di andare a morire nel bunker al posto suo, dichiarando di essere un sacerdote cattolico.
Qui padre Kolbe riuscì a trasformare l’agonia disperata dei rinchiusi nel bunker in un momento di preghiera comune. Per quattordici giorni offrì un ultimo momento di sollievo e speranza alle voci che via via diminuivano di numero e di intensità a causa della mancanza di cibo.
Il 14 agosto 1941 le SS decisero di uccidere i quattro sopravvissuti, tra cui Kolbe, con una iniezione letale di fenolo.
Le sue ultime parole, mentre tendeva il braccio al capoblocco incaricato per porre fine alla sua vita, furono “Lei non ha capito nulla della vita… l’odio non serve a niente… Solo l’amore crea! Ave Maria”.
Sono passati esattamente 80 anni da quel giorno.
Nel ricordo della morte di padre Massimiliano Maria Kolbe, ciò che colpisce è il sacrificio supremo che lo ha visto donare la sua vita per salvare quella di un altro essere umano, compiere un gesto il cui esito era tristemente scontato, privarsi del bene più importante per salvare l’esistenza di un padre di famiglia.
Quando si parla di “gesto eroico” si intende proprio questo: porre in essere un’azione la cui conseguenza -ancor più del mero rischio- è conosciuta, al fine di salvare qualcosa di avulso da sé.
In questa descrizione, il martirio di padre Kolbe rientra perfettamente: ha donato ciò di più importante aveva al mondo, la propria vita, al fine di salvarne un’altra.
Anche negli ultimi giorni di vita, rinchiuso nel bunker insieme ad altri nove condannati, ha voluto dedicare la sua vita agli altri, al sollievo di chi, come lui, stava soffrendo una morte terribile.
Esempi come questi fanno venire i brividi, ci mettono di fronte delle figure che difficilmente si può esitare a chiamare giganti.
Forse le parole che meglio di altre spiegano perché la sua storia vada raccontata ed il suo sacrificio meriti di essere ricordato sono quelle di Giovanni Paolo II che nell’omelia della Messa di canonizzazione spiegò: “Massimiliano non morì, ma ‘diede la vita… per il fratello’”.