Domenica 29 agosto 2021, Martirio di San Giovanni Battista
EDITORIALE
MARINA MONTESANO
GOOD MORNING, AFGHANISTAN!
Con questo articolo si apre un breve ciclo di tre interventi dedicati al disastroso ritiro degli occidentali dall’Afghanistan: partiamo con un’analisi di quanto sta avvenendo in questi giorni per poi andare a ritroso, nelle prossime due puntate, fino alle origini del conflitto.
Il parallelo fra la rotta statunitense in Afghanistan, alla quale abbiamo assistito in queste ultime due settimane, e la catastrofica fuga dal Vietnam nel 1975 è stato tracciato da più parti. Ci sono le immagini degli elicotteri in volo su Saigon e Kabul, così simili, che sono apparse su molti social, ma al di là di un’immagine che può essere anche soltanto fortunata nel momento in cui viene colta, ben altri sono gli elementi da prendere in considerazione. Cominciamo dal collasso dell’esercito regolare, vero allora come oggi; poi l’affollarsi disperato di quanti, occidentali ma soprattutto locali, a ragione timorosi di essere associati dai vincitori (ieri i Vietcong e il Vietnam del Nord, oggi i Talebani) ai vinti in fuga, si addensano intorno all’aeroporto sperando di essere trasportati altrove. Simili anche le cause scatenanti dei conflitti, per l’Afghanistan gli attentati dell’11 settembre 2001, per il Vietnam l’incidente nella Baia del Tonchino del 2 agosto 1964, un attacco nordvietnamita a una nave statunitense per giustificare il casus belli dell’attacco al Vietnam del Nord senza la formale dichiarazione di guerra (assente anche nei confronti dell’Afghanistan), una messinscena secondo rivelazioni della stessa CIA nel 1982. Possiamo anche ricordare la creazione in entrambi i casi di una sorta di ‘nemico metafisico’ dell’Occidente: il comunismo in Vietnam, l’estremismo islamico in Afghanistan, per cui entrambi i conflitti non erano e non sono stati presentati come guerre di occupazione, ma come una lotta per una buona causa, addirittura una lotta di liberazione. Infine dobbiamo menzionare la tradizionale destrezza in guerra dei due popoli aggrediti: invitti gli afghani dai tempi (se non proprio di Alessandro Magno, come in fondo si potrebbe sostenere) quanto meno del Great Game, quando Kipling consigliava ai soldati inglesi feriti di tirarsi un colpo in testa piuttosto che di farsi prendere dalle donne afghane; e certamente i vietnamiti, non soltanto per la batosta inflitta ai francesi a Dien Bien Phu nel 1954, ma andando molto indietro nel tempo, perché erano stati fra i pochi in grado di resistere ai mongoli di Kublai Khan alla fine del Duecento, impiegando già allora tecniche da Vietcong: apparentemente ritiratisi nelle foreste e sulle montagne, in realtà sempre pronti a colpire il nemico finché questo, sfinito, non decideva di mollare.
Ci sono anche le differenze, e non sono poche. In primo luogo, la copertura mediatica degli avvenimenti, peraltro legata al modo di combattere sul terreno. Alla fine degli anni ’60, la guerra del Vietnam era la questione più divisiva in America, centrale nelle elezioni presidenziali del 1968 e del 1972. Fu la ragione per cui il presidente Lyndon B. Johnson non cercò la rielezione. All’inizio degli anni ’70, il coinvolgimento americano in Vietnam non era più sostenibile per nessuna amministrazione statunitense: con una forza parzialmente coscritta, 58.000 morti e 153.000 feriti americani, l’opinione pubblica statunitense non avrebbe più tollerato il coinvolgimento in Vietnam, che proprio per queste ragioni era seguito da cronisti e onnipresente nel dibattito pubblico. In Afghanistan, dopo l’iniziale interesse per il conflitto, nessuno se ne è più curato, sebbene sul terreno le cose non è che andassero tanto bene. Però i soldati occidentali ormai sono tutti professionisti, molti sono addirittura contractors che non dipendono direttamente dal governo, ma appartengono a ditte in subappalto; la guerra in larga parte si fa dal cielo e persino, negli ultimi anni, con i droni, e le perdite sono state relativamente poche: 2500 circa soldati americani in vent’anni, più alcune centinaia fra gli altri paesi; 457 dal Regno Unito; 159 canadesi; 88 francesi; 54 italiani, e così via. Per contro, 71 mila civili afghani sono morti come conseguenza diretta della guerra; conteggiando insieme combattenti e civili morti direttamente per la guerra e indirettamente per fame e malattie, questi venti anni di guerra hanno causato 241 mila vittime afghane e milioni di rifugiati, in genere approdati in Pakistan e in Iran. Molte fra le vittime civili si sono avute dal 2013, quando la politica dei bombardamenti, incrementata dal governo di Obama per evitare morti fra i militari occidentali, ha avuto conseguenze drammatiche sul terreno. La disparità fra vittime locali e vittime occidentali ha fatto sì che il conflitto afghano sia sparito dai monitor delle società occidentali, peraltro già più abituate oggi a disinteressarsi del resto del mondo di quanto non avvenisse fra anni ’60 e ’70: oggi mancano movimenti giovanili di massa, la musica socialmente è sparita, si va meno al cinema, i reporters sul terreno sono pochi e si attendono le veline governative. Quindi niente marce, canzoni e film per l’Afghanistan. Di fatto i Vietcong, sebbene non rifuggissero da metodi sbrigativi, potevano essere percepiti almeno da una parte della società occidentale con una certa simpatia; oggi ‘talebano’ è diventato un aggettivo spregiativo, e nessuno né a destra né a sinistra ammetterebbe mai pubblicamente di avere qualche simpatia per i Talebani. Eppure, almeno la prodezza militare andrebbe loro riconosciuta, visti i risultati.
È chiaro che i vertici militari e civili, a partire dal presidente Joe Biden, che incarna entrambi, rifuggono come la peste questi paragoni. Quale presidente americano potrebbe desiderare di essere paragonato a quelli (Johnson, Nixon e Ford) della disfatta vietnamita? Così, fra luglio e agosto, sia Biden sia il segretario di Stato Antony Blinken hanno negato che il ritiro da Kabul sia simile a quello di Saigon, perché – secondo loro – gli Stati Uniti avrebbero completato la loro missione nel consegnare alla giustizia gli autori degli attacchi terroristici dell’11 settembre in Afghanistan: una posizione assai dubbia, dal momento che ufficialmente Bin Laden sarebbe stato eliminato nel 2011 e da quel momento sono passati dieci anni.
Di fatto, all’inizio dello scorso anno a Doha, l’ex presidente Trump aveva già stabilito i termini della fine dell’occupazione, negoziandoli con i Talebani: nell’accordo gli americani accettavano una riduzione iniziale delle truppe statunitensi in Afghanistan da 13.000 a 8.600 elementi entro 135 giorni (cioè entro luglio 2020), seguita da un ritiro completo entro 14 mesi (cioè entro il 1° maggio 2021), se i Talebani avessero mantenuto gli impegni a impedire ad al-Qaeda di operare nelle zone sotto il loro controllo e a continuare i colloqui con il governo afghano (no, dei diritti delle donne non pare si sia parlato…). Il segretario generale della NATO Jens Stoltenberg si era impegnato a ridurre il numero delle truppe NATO a 12.000 da circa 16.000 elementi. Il 10 marzo 2020, gli Stati Uniti avevano iniziato il ritiro di alcuni soldati, senonché il 1º luglio 2020 la commissione per i servizi armati della Camera degli Stati Uniti aveva votato a stragrande maggioranza a favore di un emendamento per limitare la capacità del presidente Trump di ritirare le truppe statunitensi dall’Afghanistan al di sotto delle 8.600 unità; il 20 gennaio 2021, all’insediamento di Biden, c’erano 2.500 soldati statunitensi ancora in Afghanistan. Il 14 aprile 2021, la nuova amministrazione dichiarava che gli Stati Uniti non avrebbero ritirato i soldati rimanenti entro il 1º maggio, ma entro l’11 settembre; infine, l’8 luglio Biden ha indicato una data definitiva nel 31 agosto. Da un memo emerso di recente, i Servizi americani a luglio avvisavano che il governo afghano non avrebbe retto, ma ancora ai primi di agosto la versione ufficiale diceva che i Talebani avrebbero impiegato almeno tre mesi per giungere a Kabul. Come si è visto, sono bastati pochi giorni.
Alcune considerazioni si impongono: la prima riguarda la totale assenza degli altri paesi della NATO a Doha e in generale in tutto questo processo; gli statunitensi hanno deciso e gli altri, volenti o nolenti, hanno dovuto seguire; persino i britannici hanno fatto la figura di servi di poco conto, incapaci di giocare un ruolo sia diplomatico (Biden non ha accolto le loro richieste di prolungare la presenza almeno di qualche giorno) sia operativo, perché senza americani tutti gli altri a partire da loro sono evidentemente incapaci di agire e assicurare un ponte aereo. Ancora, la fretta di andar via evidentemente dipende dalla consapevolezza di non poter reggere più la pressione talebana; dimostra anche lo scarso valore dell’intelligence, o quantomeno seri problemi di comunicazione, perché a lungo si è valutato di avere tempo, altrimenti non ci si sarebbe ridotti allo spettacolo indecente dell’aeroporto di Kabul; infine, se l’impegno talebano a Doha parlava dell’eliminazione del terrorismo dentro i confini del paese, l’attentato all’aeroporto e il riemergere dell’ISIS dimostra che non era/è vero; senza parlare dei previsti colloqui con il governo, spazzato via in un attimo.
Quello che avverrà adesso è difficile a dirsi, e non è oggetto di questo articolo: troppe sono le cose che non conosciamo. Certamente ci sono attori asiatici (la Turchia, il Qatar, la Russia, la Cina, forse persino il Pakistan) che hanno interesse a un Afghanistan pacificato, magari sotto la legge ferrea dei Talebani. Il suolo del paese, un tempo noto per le pietre preziose, è ricco soprattutto di terre rare e di elementi essenziali per le nuove tecnologie: ma la guerra finora ne ha impedito lo sfruttamento; persino i cinesi hanno investito e perso soldi in attività minerarie che di fatto non sono mai partite. Ma chissà, il futuro potrebbe essere differente. Ciò che invece dobbiamo chiederci, dinanzi agli eventi di questi giorni e alle considerazioni appena fatte, è piuttosto come sia stato possibile: secondo il New York Times, Washington ha speso 87 miliardi di dollari per addestrare ed equipaggiare le forze militari e di polizia afgane; 24 miliardi di dollari per lo sviluppo economico e 30 miliardi di dollari per programmi di ricostruzione; persino l’Italia da sola ha speso (buttato?) quasi 9 miliardi di euro. E tutto questo per sostituire i Talebani con i Talebani? Ne parleremo la prossima settimana.