Domenica 5 settembre 2021, San Giordano
EDITORIALE
Dopo l’articolo sulla débâcle della coalizione a guida americana in Afghanistan pubblicato la scorsa settimana (Minima Cardiniana 341/1 | Good morning Afghanistan! (francocardini.it)), ecco il secondo episodio dedicato alle ragioni della sconfitta.
MARINA MONTESANO
WINNING HEARTS AND MINDS
“La battaglia per vincere i cuori e le menti” è un’espressione nata in ambito coloniale, pare francese, poi adottata dall’impero britannico e da quello americano, sovente impiegata da Lyndon Johnson durante la guerra in Vietnam, riesumata per l’Afghanistan e l’Iraq negli anni ‘00. Il suo significato è chiaro anche solo intuitivamente: dopo aver conquistato e occupato un paese, si cerca di controllarne la popolazione attraverso la concessione di benefits, consci del fatto che controllarla solo militarmente sarà impossibile. Alla luce dei soldi spesi da tutte le forze occidentali che hanno operato in Afghanistan (arricchendo l’apparato industriale-militare a spese delle popolazioni civili e magari di qualche militare che ci muore o resta ferito), cosa non ha funzionato nella battaglia? Perché cuori e menti non sono stati vinti? E, più concretamente, perché la difesa del paese organizzata dall’esercito regolare afghano, lungamente preparato dagli americani e dai partner (chiamiamoli così per pietà: ascari sarebbe meglio, ma suona a sua volta coloniale) europei, non ha funzionato, e i talebani sono stati in grado di riprendersi il paese nel giro di qualche giorno?
Premetto di non avere tutte le risposte, bisognerebbe essere stati sul campo e avere un punto di vista “interno” che mi manca; allo stesso tempo, attraverso le pubblicazioni di chi ha studiato più da vicino la questione, nonché dall’aver seguito le poche notizie che trapelavano in questi anni, almeno un’idea penso di essermela fatta.
Due pubblicazioni chiave mi sembrano Mike Martin, An Intimate War. An Oral History of the Helmand Conflict 1978-2012, Oxford University Press 2014, e il recentissimo (uscito pochi giorni fa) e Adam Baczko, La guerre par le droit. Les tribunaux Taliban en Afghanistan, CNRS 2021. Il primo è scritto da un ex militare dell’esercito inglese a lungo in servizio nella regione dell’Helmand in Afghanistan, oggi saggista. È stato scritto molti anni prima del crollo di questi giorni, ma già inquadrava la situazione con chiarezza, spiegando il ritorno dei talebani dopo il ripiegamento seguito all’invasione. Di fatto, dice Martin, le somme versate dalla coalizione sono servite a creare un esercito interamente basato sulla potenza di fuoco e la tecnologia messa al servizio dagli alleati: quindi sul campo potevano vincere i mujahiddin, maggiormente legati al territorio nel quale combattevano, finché elicotteri e aerei forniti dagli USA e dagli altri intervenivano a ‘risolvere’ la situazione; certo, al prezzo di enormi perdite civili e distruzioni nei villaggi colpiti, ma si sa, questi sono considerati danni collaterali, che tuttavia nel tempo hanno fatto montare un odio forte nei confronti degli occidentali e dei loro alleati interni, tanto più che per i locali la vendetta, in caso di uccisione di un familiare, è un obbligo, non una scelta. Ancora, gli occidentali hanno creato un governo e una polizia corrotti, foraggiati e ingrassati con i soldi versati da noi; odiati nelle campagne e nei villaggi che non hanno avuto gli stessi benefici, anzi spesso si sono visti taglieggiare dai funzionari corrotti; racconta Martin che le taglie messe a disposizione per la cattura di talebani sono state usate per colpire rivali in un paese nel quale gli odi tribali sono profondi: dunque, se vuoi colpire il tuo nemico, lo denunci come talebano, te lo togli di torno e prendi anche un premio. Perché questo meccanismo è stato possibile? Perché gli occidentali non hanno fatto nessuno sforzo per entrare davvero in contatto con le culture locali (al plurale), che a loro paiono tutte uguali, e dunque non hanno mai davvero compreso i meccanismi che guidano quelle società, divenendo spesso, loro malgrado, pedine di giochi interni. A maggior ragione questo è vero per le campagne, nelle quali le jirga locali chiedevano che i soldi venissero impiegati per questioni utili: Martin racconta di una valle nella quale i contadini avrebbero desiderato finanziamenti per rimettere in sesto i canali sotterranei dei karetz (o qanat), una invenzione dell’agricoltura persiana diffusa dagli arabi dalla Cina alla Sicilia, permettono di irrigare e rendere fertili i terreni aridi; ma nessuno dava loro retta, perché gli occidentali preferivano seguire il governatore da loro nominato, che con quei soldi faceva invece progetti che portavano soldi nelle sue tasche. Senza parlare della mancanza di sicurezza del paese, stretto fra la guerra portata da fuori, le mille rivalità interne, le continue vessazioni contro una popolazione ormai non più difesa da nessuna forza.
Insomma, un miscuglio di incompetenza e di cattiva fede, quella che porta a scegliere le vie più facili, che secondo Martin ha creato un nuovo movimento talebano legato al territorio e in grado di dare una risposta a questi problemi, in primo luogo a quello della sicurezza. E qui si colloca il libro di Baczko, un’analisi davvero senza scampo di come i talebani siano stati in grado di andare incontro alle comunità di villaggio ristabilendo l’ordine e il diritto, attraverso tribunali informali ed efficaci, privi di corruzione e a disposizione del popolo. Il diritto che applicano è il pasthunwali, il diritto consuetudinario che non è la sharia, ma con essa è perfettamente conciliabile, ed è comprensibile alle comunità che l’hanno prodotto e alle quali si rivolge. Comunità che per anni sono state escluse da qualsiasi forma di diritto, senza accesso ai tribunali del regime imposto dagli occidentali e buono soltanto per far valere i diritti del ceto dirigente. Se pensiamo ai soldi spesi in particolare dall’Italia, che si è occupata di riformare il diritto afghano, viene da piangere. Solo un aneddoto: alla fine del Settecento il giudice inglese Sir William Jones, che esercitava in India al servizio dell’impero britannico, approfondì la relazione del sanscrito con l’indoeuropeo (già osservata in precedenza) perché studiava il diritto consuetudinario narrato e poi redatto in quella lingua; tre secoli fa, in un impero che aveva come intento il dominio dell’India, mantenuto a lungo certo con la forza militare e il terrore, ma anche grazie a funzionari che cercavano di comprendere chi avevano di fronte. E oggi, dopo oltre un secolo di studi antropologici, di storia del diritto comparato, di varie scienze sociali, ci ritroviamo con europei e americani che pensano di elaborare un diritto loro e di presentarlo agli afghani, che dovrebbero anche esserne contenti. Poi naturalmente lo regalano a un ceto di funzionari corrotti e neppure si preoccupano di che fine abbia fatto, del suo impiego reale nella società alla quale dovrebbe servire. Invece, spiega il ricercatore francese, i talebani si muovevano di villaggio in villaggio, ascoltando le istanze e applicando un diritto conosciuto e riconosciuto da tutti; che è poi la base fondamentale del diritto, dal momento che per rispettare la legge o per infrangerla devi almeno conoscerla, cosa difficile se ti arriva da alcuni signori italiani.
Diciamo la verità: la battaglia per vincere i cuori e le menti c’è stata, e l’hanno vinta i talebani. In questi venti anni le bombe della coalizione sono cadute su tutti: bambini donne, uomini, di qualunque orientamento sessuale, spingendo milioni di afghani a trovare rifugio nei paesi vicini (ma non si affollavano all’aeroporto, dunque nessuno li filmava), uccidendo e spappolando arti nell’indifferenza generale di un mondo occidentale che si agita come il cane di Pavlov appena i media decidono di sventolare la bandiera dei diritti umani, e dunque siamo qui a preoccuparci delle donne dell’Afghanistan dopo che per vent’anni ce ne siamo bellamente fottuti. Forse sarebbe arrivato il momento di capire che i diritti umani non possono essere usati a nostro piacimento per dirigere l’opinione pubblica e farle versare lacrime lì dove serve: perché non soltanto è inutile, ma è anche controproducente; ormai buona parte del mondo extraoccidentale si rende conto benissimo come questa sia un’arma che viene utilizzata dai nostri governi per mascherare interventi militari in giro per il mondo o per imporre sanzioni mortifere, con il risultato di rendere totalmente vuoti concetti che in realtà un senso l’avrebbero. I diritti umani li abbiamo assassinati noi prima e meglio dei talebani, non rendendoci conto che dietro quell’espressione si cela il vecchio ‘fardello dell’uomo bianco’ di Kipling, il desiderio di dominio e il sentimento di superiorità che ci percorre oggi come in passato ogni volta che ci confrontiamo con gli Altri.