Domenica 5 settembre 2021, San Giordano
UN’ITALIANA TRAVOLTA DALLA TRAGEDIA AFGHANA
LUIGI G. DE ANNA
RICORDO DI BARBARA DE ANNA
Il viaggio da Bangkok a Helsinki è lungo. Si dorme, si guarda un film, si segue sul display il progredire della rotta dell’aereo. Sembra quasi di ripercorrere la via della seta. E poi tutti quei nomi che compaiono, uno dopo l’altro, ad evocare letture, miti della gioventù, sogni, tragedie umane. Calcutta, l’Annapurna, Samarcanda, Kabul… Kabul del mio viaggio di un lontano 1975.
Era da poco caduta la monarchia, il nuovo regime di Daoud si avviava verso una improbabile socialistizzazione del Paese. Il viaggio verso l’Oriente di una generazione, la mia, che veniva dalla guerra del Vietnam, il nostro turning point epocale. L’Oriente aveva due facce, quella disperata della guerra indocinese, e quella gioiosa della Goa dei figli dei fiori. Dall’Afghanistan si passava perché tappa obbligata del magic bus, quell’incredibile autobus che da Istanbul, tra nubi di hashish, portava a Kathmandu. Dopo l’Iran affollato, moderno dello Scià, che guardava con entusiasmo all’America (non avrei mai immaginato che potesse avere luogo la rivoluzione khomeinista) si arrivava a Herat. Arrivammo di notte. Per entrare si doveva aprire la porta delle mura. Avevamo lasciato il nostro secolo. La mattina ci si svegliava al tintinno dei campanelli che ornavano i carretti trainati da asini. Gli afghani non sorridevano, piuttosto ci ignoravano, fieri, addirittura imponenti con quelle barbe nere da Mangiafuoco e con quelle bandoliere a tracolla, e pugnali, e quando si arrivava al Khyber Pass comparivano anche i fucili. Caldo, polvere, autobus traballanti con la scritta “non più di quaranta persone sul tetto”. Ma Kabul era un’oasi.
Chicken Street con i suoi alberghetti pieni di giovani occidentali, con i ristoranti che non servivano solo riso e montone. Un Paese che andava costruendo il proprio futuro. I mercanti, i bazar pieni, i cambiavalute con mazzi di banconote, le agenzie turistiche che organizzavano la visita a Bamian. I Buddha di Bamian non ci sono più, o quasi, distrutti dall’odio. La guerra arriverà improvvisa. A Chicken Street arrivarono i sovietici, e poi arriveranno gli americani. Kabul, rude ma gentile, diventerà un campo di battaglia.
L’aereo sorvola ora Kabul. Ieri è morta mia nipote, Barbara de Anna. Il 24 maggio era stata gravemente ferita in un attacco dei talebani al compound dove era acquartierata, in Shar-e-Naw. Dopo una violenta battaglia si sono contate le vittime: 4 morti e 14 feriti. Era una funzionaria dello IOM, l’International Organization for Migration. Aveva una lunga esperienza nel campo della cooperazione e in particolare dell’aiuto ai rifugiati. Aveva lavorato in Honduras, in Liberia, in Giordania, a Timor est, dove era stata coinvolta in uno scontro a fuoco. Nel 2002 Si era laureata in scienze politiche a Firenze. La sua vocazione era subito stata di partire. Il fascino dei Paesi esotici, ma anche il desiderio di fare qualcosa per dare un senso forte alla vita. Un uomo parte come volontario nelle missioni militari all’estero, una donna penserà piuttosto a riparare i danni che i fucili degli uomini, da qualunque parte stiano, hanno provocato. Aveva 38 anni. Aveva sacrificato a questa sua passione, o missione?, la sua vita privata.
Era arrivata in Afghanistan nell’aprile del 2010. Con base a Herat aveva contribuito al progetto di riportare a casa migliaia di profughi afghani fuggiti in Iran. Poi si era trasferita a Kabul. La sera del 24 maggio guardavo il TG1 della sera. L’annunciatrice comunicò la notizia di un attacco al compound dello IOM di Kabul. Disse che una italiana era rimasta gravemente ferita. Pensai: “meno male che Barbara è a Herat”. Invece non sapevo che da mesi si era trasferita nella capitale. La mattina seguente un’amica dall’Italia mi telefona per chiedermi se questa Barbara de Anna è mia parente. È strano apprendere così una tragedia che colpisce così da vicino. Il 21 giugno, nella campagna di Nakhom Sawan, internet funziona a tratti. La sera apro la pagina in rete di Repubblica. “Barbara De Anna è morta”. È strano apprendere così la notizia, come fosse qualcosa che non ci riguarda, una notizia come tante altre. Barbara era rimasta gravemente ferita nell’attacco. Non era riuscita a raggiungere in tempo il bunker preparato per i residenti. O forse si era attardata per aiutare qualcuno. Prima si fa esplodere un kamikaze, poi i colpi degli RPG, i razzi portati a spalla. Un proiettile colpisce la cucina, vicino la quale si trovava Barbara. La bombola di gas esplode. Una fiammata la investe. Il corpo resta gravemente ustionato per l’80%. La corsa all’ospedale di Emergency, poi a quello della base americana, poi il volo per la Germania, alla base statunitense di Landstuhl, e ancora poi il trasferimento nell’ospedale civile tedesco di Ludwigshafen, specializzato per la cura delle grandi ustioni. Per un mese, senza uscire dal coma, combatte per sopravvivere. Poi l’infezione, conseguenza quasi inevitabile delle ferite, e il cuore cede.
Sabato 29 giugno, a Reggello, dove mio fratello vive con la famiglia, ci sono stati i funerali.
Accompagnati da bei discorsi. Morire a Kabul. Perché? Una missione di pace che è semplicemente e soltanto guerra, contro un popolo fiero che ama la propria libertà. Ai danni della guerra riparano gli uomini e le donne della pace. E come i soldati, anche loro muoiono.
La sera del 21 giugno, chiuso il computer, ero andato con Nong, un amico che di giorno porta la pistola perché fa il poliziotto, a visitare il grande wat, il tempio buddhista sulla cima della collina di Nakhom Sawan. Lo sguardo si spinge lontano, il lago, i campi di riso allagati, il grande fiume. Acqua dappertutto. Fiume in thai si dice Mee nam, acqua madre. La madre che fertilizza e porta la vita. Quella vita che la guerra può portare via. È tardi, il tempio si è svuotato dei fedeli e dei visitatori. Da lontano giunge la litania in pali dei monaci. Per i buddhisti l’anima trasmigra. Chi muore, rinasce, fino a quando non avrà raggiunto la perfezione. In quel cielo che minaccia come ogni sera la densa pioggia del monsone, potrebbe ora volare l’anima bella di Barbara. Chissà come da lassù le deve sembrare quest’Asia fatta di acqua e di sangue.
(pubblicato originariamente su La Rondine, il giornale degli italiani in Finlandia, 1° luglio 2013)