Minima Cardiniana 343/2

Domenica 12 settembre 2021
Solennità del Santissimo Nome di Maria

ANNIVERSARI, EQUIVOCI, PROPAGANDA SOTTOCULTURALE
FRANCO CARDINI
L’ISLAM E NOI. A PROPOSITO DI UN VECCHIO EQUIVOCO
L’Afghanistan è stato per secoli un civilissimo e fortunato paese dove le due grandi culture ellenistica e indiana si sono incontrate e dove l’Islam ha saputo impiantare venerabili centri di cultura e di potere. Nell’Ottocento ha avuto la sfortuna di diventare il centro nodale del Great Game tra gli opposti imperialismi russo e britannico, ma i fieri montanari afghani – i più fieri e coraggiosi guerrieri del mondo – hanno saputo tenere a bada tanto lo czar quanto Sua Maestà Britannica. Fra Otto e Novecento, una dinastia regia illuminata ha potuto addirittura scrivere pagine politiche e diplomatiche importanti: rinvio a quanto ne hanno scritto due valorosi contemporaneisti, Di Rienzo e Fabei.
Poi è cominciato il caos. Sul principio, tutto sembrava una festa hippy. Tra Anni Sessanta e Anni Settanta si andava a Kabul con il Magic Bus che portava a Kabul e poi a Katmandu: si cercava lo “sballo”, il volo sulla fata Cannabis Indica dalle ali iridate, il tuffo tra i campi fioriti del papavero da cui si trae l’oppio. Quindi, ai primi degli Anni Settanta, la fine del sogno: un saggio e tollerante sovrano rovesciato, l’arrivo al potere di militari avidi e isterici, l’esperimento socialista sostenuto da un ‘Unione Sovietica ormai sclerotica, la guerra civile e poi il malaugurato “regime” instaurato con l’alibi della lotta contro il terrorismo e la caccia a Bin Laden, l’avida e maldestra occupazione americana con i suoi governi-fantoccio collaborazionisti e corrotti, il cinismo delle lobbies multinazionali e l’utopia idiota della “esportazione della democrazia” accompagnata dalla rapina sistematica.
Che con queste premesse il paese tendesse a svuotarsi è il minimo che gli potesse capitare. Per due decenni ci siamo abituati alla tragedia afghana che non ci toccava: gli afghani cercavano di scappare in ogni modo, i droni americani distruggevano vigliaccamente i villaggi di montagna facendo crescere la nuvola dell’odio e del desiderio di quella vendetta che, nel codice religioso e morale degli afghani, è moralmente parlando un dovere. La gente scappava e noi fingevamo di non vedere: oggi, dinanzi a un nuovo sussulto di quell’esodo a causa del contraccolpo della guerra civile, fingiamo si tratti di qualcosa di nuovo e ne addossiamo tutte le colpe ai talibani.
Il “piccolo” equivoco talibano s’innasta d’altronde, per noi, sul “grande” equivoco musulmano. Mi spiego meglio.
Fino a quasi mezzo secolo fa, nel cosiddetto “nostro Occidente” il problema costituito dall’Islam non esisteva. Tutto sembrava chiaro. Si tratta di una religione appartenente al medesimo ceppo (monoteistico e “abramitico”) di ebraismo e cristianesimo, che ha desunto molti caratteri dalle due “religioni sorelle” ma che, caratterizzata da una sua robusta semplicità e da un forte impulso all’espansione e alla conquista, si è diffusa in circa tre secoli – dal VII all’XI – in gran parte dell’Asia e dell’Africa settentrionale nonché nell’area orientale d’ Europa. Entrata in seguito in crisi nonostante lo sviluppo di una notevole cultura e alcuni revivals importanti – quali la costituzione tra XIV e XX secolo dell’impero turco ottomano – aveva dovuto inseguito adattarsi a un mondo sempre più subordinato all’egemonia politica, militare, tecnologica ed economica dell’Occidente fino a ridursi ad alcuni paesi oggetto dell’espansione coloniale europea che solo lentamente e faticosamente avevano intrapreso un loro processo di modernizzazione. In un mondo come quello del Novecento, caratterizzato da una laicizzazione progressiva (il cosiddetto “processo di secolarizzazione”), l’Islam appariva sempre più come qualcosa di arcaico e di residuale, isolato magari in una sorta di romantico folklore. Dune, minareti, palme, cammelli…
Quello che apparve come un suo brusco risveglio si verificò prima quasi insensibilmente: qualche brandello di modernizzazione qua e là (alcuni pensatori “occidentalizzanti” soprattutto in Egitto e in India sullo scorcio tra XIX e XX secolo, Mustafa Kemal in Turchia, Reza Shah in Iran, Nasser e il “socialismo arabo” tra Egitto e Occidente), la crescente attenzione per la “questione palestinese” al margine della storia dello stato d’Israele (ma i palestinesi erano in parte cristiani) e così via.
Poi, la scossa improvvisa: la “rivoluzione islamica” in Iran, la resistenza nazional-tribal-religiosa a un regime “laicista” in A e all’Unione sovietica che la sosteneva, l’islamizzazione della resistenza palestinese a Israele con la nascita del movimento di Hamas, la “rinascita musulmana” e i relativi episodi di guerra civile collegati anche alle più frequenti migrazioni tra Vicino Oriente e Balcani, l’imporsi di un nuovo “radicalismo religioso” che si convenne poi di definire “fondamentalismo” e infine “islamismo”, quasi “degenerazione ideologico-politica della religione musulmana. L’alba livida del nuovo millennio si annunziò l’11 settembre del 2001 con gli attentati di New York e di Washington e la scoperta del movimento integralista e terrorista musulmano di al-Qaeda; seguirono le due campagne militari egemonizzate dagli statunitensi – e, oggi lo sappiamo, entrambi infelici nei suoi esiti finali anche se vittoriose sulle prime – in Afghanistan e in Iraq, con la scoperta da parte nostra che l’Islam era in realtà un mondo molto complesso, lacerato dalla tensione interna tra i due gruppi confessionali dei sunniti e degli sciiti che si traduceva nell’inimicizia tra Arabia saudita (a sua volta però terra-madre di un “Islam eretico”, il cosiddetto wahhabismo) e Iran che con il regime dello ayatollah Khomeini sembrava aver voltato almeno politicamente e culturalmente le spalle al nostro mondo per quanto a livello tecnologico e scientifico si fosse dei suoi risultati appropriato. I fatti del 2011 in Libia e in Siria, la lunga guerra combattuta tra 2015 e 2017 circa nell’area tra Siria e Iraq in seguito alla nascita di un “califfato” islamico (l’ISIS, in arabo “Daesh”), che fu vinta provocando però la costituzione di due differenti coalizioni – una tra statunitensi e sauditi con l’appoggio d’Israele, l’altra fra russi e siriani fedeli al governo di al-Assad, con la complicazione delle contrastanti presenze turca e curda – furono accompagnati da alcuni talora drammatici episodi di terrorismo attribuito a gruppi estremistici musulmani non sempre con chiarezza individuabili e hanno condotto a due eventi ulteriori: la “svolta parafondamentalista del regime di Erdoğan in Turchia (che peraltro resta nell’alleanza NATO) e, infine, il ritiro delle truppe statunitensi con i relativi alleati sia dall’Iraq sia dall’Afghanistan che ha sancito il fallimento delle campagne militari nei due paesi iniziate fra 2001 e 2003 e dei regimi “democratici” e filo-occidentali alle quali esse avevano dato luogo. A Kabul, i talibani sostenuti principalmente dal Qatar sono rimasti padroni di una situazione peraltro ancora incerta mentre a Baghdad un governo “pro-occidentale”, stabilitosi all’indomani di una consultazione elettorale dall’incerto esito, appare alquanto malfermo.
A questo punto le nostre idee generali sull’Islam continuano a permanere incerte e confuse, anche se la prevalente convinzione in Occidente è che un varo e proprio franco rapporto con i paesi musulmani avverrà solo se, quando e nella misura in cui essi si saranno definitivamente occidentalizzati e democratizzati, abbandonando in particolare le loro tradizioni religioso-giuridiche che sanciscono l’inferiorità della donna e così via. Al tempo stesso, ci rendiamo conto che non esiste alcun cambiamento socioistituzionale e socioculturale che non si basi su un mutamento strutturale dell’assetto socioeconomico di un paese: e ci chiediamo a che punto siamo dinanzi a un Islam che si presenta nel complesso contraddittoriamente lacerato fra la ricchezza degli emirati gonfi di petrodollari e le loro avveniristiche possibilità tecnologiche e finanziarie da una parte, la situazione ancora arcaica e tribale di paesi come l’Afghanistan perennemente minacciati dalla fame e dalla guerra civile dall’altra, il permanere di stati per molti versi moderni ma caratterizzati – come la Turchia, l’Egitto, la Giordania, le repubbliche nordafricane – da sistemi politici autoritari o da una grande instabilità.
Il fatto è che ci riesce difficile raggiungere – anche per un’evidente inadeguatezza delle nostre classi politiche e die nostri media – una visione chiara e un’informazione obiettiva della realtà delle cose. L’Islam, anzitutto, non ci è affatto estraneo: le sue radici culturali stanno nel monoteismo abramitico da una parte ma anche nel passato ellenistico-romano dall’altra: è dall’Islam che attraverso le traduzioni dall’arabo è giunta a noialtri occidentali la scienza filosofica, naturalistica, matematica, astronomica e medica che ci ha permesso di sviluppare la Modernità, per quanto il carattere militare che noi abbiamo impresso alla nostra tecnologia ci abbia consentito di conquistare il mondo con le nostre navi e i nostri cannoni: e d’incorrere nel grave errore di prospettiva che ci ha fatto ritenere che quei mezzi fossero espressione di una superiorità anche culturale e spirituale tout court, che si è andata poi esprimendo attraverso l’elaborazione dei “Diritti dell’Uomo”, la democrazia nelle sue varie articolazioni e via discorrendo.
La realtà era e resta un’altra. La nostra potenza tecnologica, la nostra forza militare, la nostra organizzazione capitalistica e colonialista del mondo ci ha consentito sì di vincere: ma non di convincere. Oltretutto fra Settecento e Novecento, mentre c’illudevamo che la diffusione del cristianesimo ci soccorresse nel persuadere i popoli asiatici e africani (come avevamo fatto in America) della superiorità in senso globale della nostra cultura, quella stessa fede noi andavamo progressivamente abbandonandola sviluppando il “processo di secolarizzazione”. Ai popoli che avevamo conquistato non ci restava che offrire il nostro modello di uno sviluppo sociopolitico inadatto alle loro tradizioni e sostenuto da una morale che non era la loro e non era più nemmeno la nostra.
Questi nodi sono venuti al pettine mentre gli altri ci giudicavano. Limitandoci all’Islam, è dalla fine del Settecento che il mondo musulmano – che ci ha sempre conosciuto meglio id quanto noni non conoscessimo noi – ci studia e ci giudica: l’Islam è letteralmente pieno di studiosi e d’intellettuali che si sono interrogati su di noi, dal Maghreb all’Indonesia, e dei quali il nostro complesso di superiorità ci ha impedito perfino di accorgersi.
Oggi l’Islam è un complesso di 1.600.000.000 di persone che non dispone di un centro normativo religioso (non ha organizzazioni ecclesiali), ma ha scuole, università, organizzazioni intellettuali e umanitarie. È una pluralità insospettabilmente ricca di risorse, di potenzialità e per noi anche di pericoli che aspetta di essere riconosciuta alla pari, par quello che è. Ma noi continuiamo a dettargli l’agenda delle nostre priorità politiche e morali, come si è visto recentissimamente dalla maldestra risoluzione del Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite (passato con la significativa astensione di Russia e Cina) che subordina un dialogo fra noi e i nuovi ancor incerti poteri politica afghano all’accettazione, da parte loro, di un diktat che prevede scelte come quelle di “un’adeguata presenza femminile” nel nuovo Afghanistan, pretesa con perentorietà ma non precisata nella sua sostanza, nelle sue caratteristiche e nei suoi limiti.
La strada per intenderci è ancora lunga. E l’incomprensione non dipende se non in modesta misura dal mondo musulmano.
I popoli musulmani, e in particolare quelli arabi, hanno profondamente amato l’Occidente: dalla fine del Settecento ai primi dell’Ottocento si sono letteralmente innamorati di esso e della Modernità. Sono le reiterate illusioni e delusioni, i continui tradimenti che essi ritengono – a torto o a ragione – di aver subìto da parte sua, che alla fine hanno dato spazio sempre maggiore al cosiddetto fondamentalismo, all’interno del quale ha allignato la malapianta del terrorismo.
Ma il cosiddetto fondamentalismo, nato tra Egitto e Afghanistan negli Anni Venti e dilagato a partire degli Anni Ottanta sull’onda del successo della rivoluzione khomeinista in Iran, non è affatto quel che la stragrande maggioranza degli occidentali immagina. Non è un movimento unitario: anzi, è un coacervo di gruppi in violentissima lotta fra loro. E non è per nulla un movimento informato a una profonda e rigorosa spiritualità: al contrario, è una sorta di “modernismo islamico”, integralista nelle forme e ateizzante nella sostanza del suo messaggio che non è religioso bensì politico. Il fondamentalismo rivisita l’Islam secondo i cànoni metodologici del marx-leninismo: scopo del musulmano, secondo esso, non è l’adesione fiduciosa e profonda (islam, “fede-fiducia”, che ha la stessa radice della parola salam, “pace”) alla volontà di Dio, bensì la lotta contro il “Satana occidentale”. Se l’Islam conoscesse una disciplina ecclesiale, e quindi un’ortodossia, il fondamentalismo sarebbe qualificabile come un’eresia.
Ma l’Islam, appunto, non conosce né Chiese né dogmi: il fedele è libero dinanzi alla Parola di Dio e ai cinque arkan, ai Pilastri, ai precetti fondamentali, che egli interpreta alla luce del maestro e della confraternita che si sceglie (anche se la fondazione di stati organizzati all’occidentale ha obbligato questa libertà a adattarsi alla disciplina delle leggi statali). La stessa sharyyah, la legge coranica, fondata su un testo come il Corano – che non è propriamente normativo – ha un connotato fondamentalmente basato sulla consuetudine e sull’esperienza, quindi giurisprudenziale: e varia da popolo a popolo, subendo le differenze di tradizioni ancora anteriori alla sua formazione e da essa inglobate. È questa natura sperimentale dell’Islam che lo rende una fede flessibile, adattabile a tutte le culture e a tutte le forme di sapere. Ecco perché non esiste alcuna inimicizia storica effettiva tra Occidente e Islam, alcuna contraddizione strutturale tra Islam e modernità: e anzi la problematica relativa alla “modernizzazione dell’Islam” e alla “islamizzazione della modernità” è molto forte in tutti i paesi islamici.
La tesi dell’insanabile inimicizia tra Occidente e Islam è nata recentemente per colpa di alcuni cattivi teorici, come Samuel Hungtington col suo Clash of civilization, e non ha alcun fondamento né storico, né filosofico, né epistemologico. Purtroppo essa è condivisa da fondamentalisti tanto islamici quanto occidentali (sia laicisti, sia cattolici) e rischia davvero di rafforzare l’influenza dei gruppi terroristici nel mondo islamico. Per combatterli, al contrario, le strade sono solo due: una è senza dubbio quella d’individuare e colpire le loro centrali; l’altra è quella di rimuovere il più profondamente e rapidamente possibile il disagio, l’ingiustizia, la miseria, la sperequazione, insomma tutte le cause di malessere da cui nasce l’odio contro il mondo occidentale che fornisce al terrorismo i militanti, i complici e i sostenitori. Per ristabilire la pace nel mondo, occorre ristabilire prima un equilibrio fondato sul reciproco rispetto e la giustizia distributiva per quanto attiene i beni della terra: perché la pace senza giustizia è solo assenza di guerra che, prima o poi, precipita nel suo contrario. E non dimentichiamo che l’Afghanistan, abitato da gente fiera ma poverissima, è un paese che straripa di ricchezze da noi appetite: il petrolio, l’uranio, il litio, le “terre rare”. Non possiamo illuderci di mantenere a lungo la contraddizione fra una terra ricchissima e un popolo poverissimo: anche perché di essa ormai quel popolo, come altri, è divenuto cosciente. Non possiamo continuar a ritenere che il nostro modo politico, etico, economico di concepire la realtà sia la dimensione universalmente unica possibile di concepire la realtà e che tutti gli altri siano, per definizione, barbari o inferiori.
Riflettiamo su ciò. Altro che barbarie d’una religione primitiva. La barbarie sta altrove: e può essere postmoderna e tecnologicamente avanzata.