Domenica 10 ottobre 2021, San Daniele
MA SARÀ COMUNISMO? CON UNA POSTILLA DEDICATA A PIETRANGELO BUTTAFUOCO, A VITTORIO SGARBI E A MONI OVADIA
PIETRANGELO BUTTAFUOCO
RACHELE MUSSOLINI E GUALTIERI, DUE EREDI SONO, MA È IL COMUNISMO FURBO CHE TIENE FAMIGLIA A ROMA
Anche Carlo Calenda, eroico portabandiera del libero mercato, il testimone della più intraprendente battaglia della modernità in una sfida in solitaria, adesso è già inghiottito dai “comunisti”.
Il fascismo di certo non c’è più ma il comunismo furbo del comparaggio di potere quello sì, altroché. Rachele Mussolini che prende tutti i voti a Roma – con buona pace del Corriere della Sera che se ne scandalizza – non sposta un bicchiere ma Gualtieri che arriva al Campidoglio, di una torta a doppio strato guarnita di Giubileo in arrivo e l’Expo da fare, sa che farsene, altroché.
Rachele può solo essere una nipote ma un Gualtieri cresciuto alla scuola di partito del Pci è un erede, e tutta quella furbizia della doppiezza ce l’ha nel suo corredo, altroché.
Il comunismo da temere non è certo quello genuino di Marco Rizzo ma quello furbo che comanda, quello dei magistrati compiacenti, sempre loro, ed è quello dei giornalisti di regime – sempre loro – nonché quello degli affaristi sempre pronti a farsi gli affari loro. Nella cupola loro, col comunismo furbo che sa sempre dove stare. Per stare al meglio a tavola.
E figurarsi cosa non stanno facendo per riconquistare Roma. Tiene famiglia il comunismo furbo del comparaggio e sa dove andare a prendersi il dovuto tributo. Il vero sondaggio è la sostanza di un calcolo facile.
Con tutti i dipendenti Rai che vivono a Roma, e coi loro parenti, con tutti quelli che lavorano nei ministeri, col parastato, con tutto il gregge di Santa Romana Chiesa, sempre grata al potere – e con tutti quelli che devono far carriera – altroché se non è solida la democrazia compiuta del comunismo implicito di tutto questo potere esplicito.
Una massa fabbricata in anni di egemonia stagna nell’automatismo. Con l’accorta assenza del popolo – presente solo nell’astensione sempre più forte – e nel riflesso condizionato poi, dei cosiddetti veri liberali, storicamente incapaci di alloggiare fuori dall’ombra rassicurante del comunismo fatto sistema.
Certo, non lo chiamano comunismo il loro comunismo, i comunisti.
Dicono sia progressismo, perfino riformismo, magari liberal-socialismo e di certo è la cuccia calda della sinistra, la botola in cui – e lo sanno benissimo – prima o poi andranno a rinchiudersi tutti, ma proprio tutti, senza eccezione alcuna. Come Carlo Calenda, eroico portabandiera del libero mercato, il testimone della più intraprendente battaglia della modernità in una sfida in solitaria, adesso già inghiottito dai comunisti in marcia verso il municipio, a confermare – nell’illusione di averli presi, i suoi nemici – il dettato di Vladimir Il’i Ul’janov: “Ci venderanno la corda con cui li impiccheremo”. Inghiottito, altroché. Preso al laccio.
(il Quotidiano del Sud, 8 ottobre 2021)
Caro Pietrangelo, solo una breve postilla (che magari preferirei trasformare in una lunga chiacchierata tra Fontana di Trevi e Bocca della Verità in un tranquillo dopocena autunnale). Una postilla che vorrei dedicare anche a un altro caro amico, Vittorio Sgarbi. Ci siamo visti fugacemente tutti e tre (“entrembi”, si direbbe…) la sera dell’8 scorso, a Ferrara: ma non c’è stato tempo di parlare e molti malintesi sono affiorati. Era presente un altro mio carissimo amico, “Moni” (Salomone) Ovadia, artista geniale, ebreo e comunista, con il quale più passa il tempo più mi trovo d’accordo. Io, cattolico tradizionalista che crede fermamente in papa Francesco e nelle sue due encicliche Laudato si’ e Fratelli tutti.
Ricorderai com’è nata la nostra amicizia, quasi trent’anni fa. Ero appena entrato – un capriccio di Irene Pivetti – nel Consiglio di Amministrazione della RAI; ero un “cane sciolto” che però scriveva su “Il Sabato” ed era vicino a “Comunione e Liberazione” (quella di allora); in fondo mi si poteva definire grosso modo “di centrodestra”, per quanto andassi già maturando quel sia pur modesto patrimonio di convincimenti sociopolitici e socioculturali che mi consentono adesso da molti anni di definirmi irreversibilmente cattolico, socialista ed europeista. Su “Il Secolo d’Italia”, tracciasti una geniale, irresistibile caricatura delle mie posizioni di allora (ricordo l’aggettivo con cui mi definisti: “loffio”), fingendo in un tuo bellissimo articolo un’intervista con Achille Starace (che in Paradiso, assicuravi, gestisce un chiosco di gelati: e perché no, in fondo?). Poi ci siamo conosciuti (e reciprocamente letti, meglio). Poi c’è stato l’imporsi del problema islamico, con tutti i suoi tremendi malintesi; e l’11 settembre 2001; io ho coordinato il volume La Paura e l’arroganza edito da Laterza, dove da destra e da sinistra (da de Benoist a Noam Chomsky) si attaccava duramente la versione ufficiale del tragico evento (una versione mai dimostrata ma ormai eretta sul piedistallo delle Verità Incontrovertibili) e ho scritto un pamphlet dal titolo Astrea e i titani (edito ancora una volta da Laterza, che se ne è forse pentito) dedicato alle malefatte congiunte degli ultimi governi statunitensi – dall’alleanza “militare e industriale” già denunziata nel 1959 da Eisenhower in poi; ma anche da prima – e delle lobbies multinazionali. E tu, da musulmano sciita innamorato della tua Sicilia che un grande storico, Salvatore Tramontana, ha chiamato in un suo bel libro L’isola di Allah, ti rendesti conto che quel cattolico “loffio” – il quale intanto aveva già scritto Europa e Islam, esaltando tredici secoli di vita e di civiltà comune ingiustamente accusati di essere stati solo secoli di guerra e di reciproca violenza – era in realtà un buon fratello in Abramo. Ma la diversità delle nostre due rispettive radici magari anche familiari, siciliane e di destra le tue, toscane e socialiste le mie (tra il cattolicesimo di Domenico Giuliotti e la “fronda fascista di sinistra” di Berto Ricci), hanno continuato a contare. Tu parli con rabbia e con disprezzo del comunismo: anche di quello storico, e definisci “comunismo furbo” quel miscuglio di sinistrismo di comodo e di radicalismo chic da “Terrazza romana” che continua ad amministrare brandelli di potere e a gestire riviste e premi letterari. Io, che ho conosciuto benino quegli ambienti allorché – per libera e forse bislacca volontà di Irene Pivetti prima, di Walter Veltroni poi – ho vissuto otto anni della mia vita, tra 1994 e 2002, in una Roma che spesso mi portava in attici di lusso e in caffè à la mode a contatto con quel mondo, sono tornato a riconsiderare il Vero, Grande Comunismo (quello del quale ho vissuto l’agonìa a Mosca negli Anni Settanta), e mi rifiuto di paragonare la sua tragica nobiltà con quei rigurgiti di falsa cultura e di cattivo opportunismo politico. Penso al comunismo che per due volte, dopo il ’17-’21 e il ’41-’42, ha risollevato un paese grande come un continente da un’indicibile prostrazione e ne ha fatto una grande potenza mondiale prima di lasciarsi sopraffare dall’ondata propagandistica del consumismo occidentale che ne ha corroso e corrotto le basi.
E vengo a te, caro Vittorio. Era uno Sgarbi in gran forma, un affabulatore formidabile, quello che ho ascoltato la sera di venerdì 8 scorso a Ferrara in Sala Estense durante un improvvisato fuoriprogramma – inatteso, credo, perfino da te – alla fine di un pomeriggio di conferenze. Nessuno se lo aspettava. Ci hai sorpresi, prendendoci di contropiede. E ci hai proposto una versione dei rapporti fra Occidente e Islam vecchia di vent’anni, che ricalcava parola per parola le più deliranti e infondate tesi della cara, compianta Oriana Fallaci. Che tu ci creda o no, a quelle tesi sul complotto teso a islamizzare la nostra civiltà, non lo so e nemmeno m’interessa saperlo. Francamente, stentavo mentre ti ascoltavo a credere che nulla della montagna di tesi, d’ipotesi e di polemiche che da allora in poi per due decenni si sono accumulate al riguardo ti avesse sfiorato: e ho pensato a un altro dei tuoi trascinanti shows. Ma alla fine di tutto, quando ti ho salutato con un “Sei un gran casinaro!”, mi hai a tua volta stupito dicendoti sorpreso e persino un po’ amareggiato per una mia intervista a “Repubblica” nella quale non ho pettinato per il verso del pelo il partito di Giorgia Meloni. “L’ho fatta leggere a Giorgia”, mi hai avvertito; al che ho replicato che a lei l’avevo già inviata io. Ma quel che mi ha lasciato senza parole è stato il fatto che tu ti dichiarassi stupito del fatto che quelle cose – degne, osservavi, del comunista Moni Ovadia – le dicevo proprio io, “uno di centrodestra”. Caro Vittorio, sono deluso del fatto che tu non abbia mai letto una riga di quello che vado scrivendo fino dal 1991, dai tempi della prima guerra del Golfo, e con più intensità dal 2001, dopo l’aggressione americana all’Afghanistan. Io, “di centrodestra” non sono mai stato non dico nemmeno quando militavo nel MSI tra 1953 e 1965, ma neanche quando a cavallo degli Anni Novanta scrivevo sul “Sabato”. E non dubito affatto che – dal momento che più volte mi hai dimostrato la tua stima e la tua simpatia, da me entrambe apprezzate e ricambiate –, se vorrai spendere qualche quarto d’ora leggendo quel che ho scritto dai tempi di Scheletri nell’armadio a quelli di Astrea e i titani e oltre, mi giudicherai un comunista e un criptoconvertito all’Islam: come mi giudicano certi cattolici.
A Moni Ovadia non ho niente da aggiungere rispetto a quel che da tempo ci diciamo. Il solo e autentico Male Assoluto nel mondo è l’auri sacra fames che divora quelli che se ne ritengono padroni e che lasciano nella fame e nella disperazione miliardi di persone accumulando profitti e inquinando la terra. Hanno ragione papa Francesco e Noam Chomsky: e hai ragione anche tu. Francamente, mi riesce difficile immaginare un ebreo davvero ateo e stento a credere che tu ritenga davvero di esserlo. Ma, anche se fosse vero che davvero tu non credi in Lui, resta il fatto che Lui crede in te.