Domenica 31 ottobre 2021, San Quintino
REQUIEM PER L’EUROPA, SECONDO DE ANNA
Così parla De Anna. È un’opinione che rispetto.
LUIGI G. DE ANNA
EUROPA ADDIO
Non sono un politologo, e seguo poco e male quanto succede in Europa. Da cinquanta anni vivo all’estero. Si diventa “estranei”, anche a quanto sta attorno a noi. Ma da giovane no, credevo in quanto mio padre, e poi gli amici più anziani, mi avevano insegnato. Come Franco Cardini, l’estensore di questi Minima, anch’io non ho mai nascosto la mia appartenenza, totale. Altri, d’abitudine, col passare degli anni, ricordano ciò che furono, aggiungendo… sì, ma però… No, non ho nulla da rimproverarmi, con la sola precisazione che siamo figli e fratelli del nostro tempo e in quello viviamo, pensiamo ed agiamo.
Io ci credevo nell’Europa. Appartenevamo a un sodalizio (questo è il termine più appropriato, non un partito, o un’associazione, o un gruppo ideologico) che ebbe pochi anni di vita: “Giovane Europa”, fondato da Jean Thiriart. Oramai storia. Esiste anche una discreta bibliografia. Storia dell’Europa, che andava, dicevamo, da Brest a Bucarest. Ma col tempo allargammo i confini, e arrivammo, ad est, a Mosca e poi all’Eurasia, nome, oggi, della bella rivista del sodale Claudio Mutti. Una capitale: ad Aquisgrana. Una difesa comune, buttiamo la NATO nella spazzatura e con essa chi ancora l’ama. Un’alleanza di culture e interessi omogenei con Russia e Cina. Una mano stesa al mondo islamico e all’Africa.
Io oggi non sono più europeista. Non ci credo più. Ero perfino arrivato a dire (e me lo rimproverava l’altra sera in una sua lettera il sodale Marco Barsacchi) che l’Unione Europea è meglio di niente. Ma ora, visto il disastro che questa accozzaglia di servi dell’America, di banchieri affamati, di difensori di diritti umani in casa altrui, ha combinato, chiudo il libro della mia esperienza (militanza non lo è più da tempo) europeista.
E non saprei neanche più orientarmi tra i modelli d’Europa di tanto in tanto proposti: quella del carbone e dell’acciaio (altamente inquinante) degli anni Cinquanta, o quella delle patrie di memoria gaullista (stavamo peraltro con Vichy e l’Algeria francese), o quella di Maastricht, o confederata, o associata, o federata, o sovranista, o quant’altro la fertile fantasia dei politologi ha inventato.
Ero, e resto, per una totale integrazione. Ad ogni livello. Una moneta unica, un governo unico (quando era ancora vivo, avrei detto sotto la presidenza di Otto d’Asburgo), ministri di vari e differenti Paesi. Agli esteri un Orban, agli interni un (non una) Le Pen, alla difesa un generale italiano dei parà. Uno accanto all’altro. Via il sovranismo, le identità nazionali, abbiamo una e una sola identità: quella europea, formata, come un corpo umano, di tante parti differenti, ma tra loro tutte congruenti. L’una al servizio dell’altra.
Una delle poche cose intelligenti fatte a Bruxelles è stato dare dignità a tutte le lingue della Comunità, anche se per ragioni pratiche si può scegliere una lingua di lavoro. Mio figlio, in Finlandia, ha studiato a scuola 5 lingue.
E la nostra propria cultura? mi si dirà. Io amo le canzoni irlandesi come gli joiki dei sami, le nenie sicule che sanno di ricordi moreschi, e Puccini. Le culture continuano a sopravvivere nella molteplicità. L’unico veleno è quello che viene d’oltre Atlantico. Nel nostro continente l’Europa non ha mai ucciso nessuna cultura, l’America sì.
Forse perché ho vissuto per tanti anni all’estero, mi è facile convivere, lavorare, sognare, con chi non parla la mia lingua, e anche con chi non è del mio colore. “Che il Mediterraneo sia”, canta Eugenio Bennato. Questi flussi e riflussi della storia europea hanno arricchito il continente, da sempre.
Sono anche colonialista. Il colonialismo di una volta, che portava il medico e la scuola (purtroppo anche il missionario, ma non tutto era perfetto). Che portava l’Europa là dove esistevano altre, ammirevoli culture. Nell’eterna lotta per la sopravvivenza qualcuna moriva, qualcuna resisteva, qualcuna rifioriva.
Se fossi vissuto prima della guerra sarei andato a lavorare in colonia. Avrei portato il casco tropicale e la scatoletta di chinino. Mi sarei vestito di bianco.
Quando cammino per la strada polverosa che da Banphot Phisai, dalle parti di Nakhon sawan, mi porta al talaad, il mercato del villaggio vicino, ogni tanto mi fermo a guardare le risaie. Di un verde smeraldo. Non mi sento estraneo. Appartengo anche a questa terra. In Indocina si dice; “I vietnamiti piantano il riso, i khmer li stanno a guardare e i lao ascoltano il riso che cresce”. Anche un europeo può fermarsi ad ascoltare. Abbiamo ancora molto da imparare.
Anch’io, sia pur meno di lui, sono un “pellegrino d’Oriente”. De Anna lo sa. Ma non abbandono la battaglia, non mi tiro indietro per quanto certo della quasi immancabile sconfitta. Lo affermo parafrasando Ezra Pound. “Io credo nell’Europa e nella sua impossibile rinascita”. FC