Domenica 7 novembre 2021, San Vincenzo Grossi
EDITORIALE
LETTERA AL SIGNORE, DIO DEGLI ESERCITI
Sappiate anzitutto (ma chi deve saperlo, già lo sa da tempo) che io sono – come si autodefinisce lo scudiero Jons ne Il Settimo Sigillo di Ingmar Bergman, il film che da ormai più di sessant’anni scandisce la mia esistenza – “un uomo piacevole e discorsivo”: cerco di essere generoso quanto posso, non sono per nulla vendicativo (anche perché ho imparato presto e a mie spese che non c’è vendetta che non ti ricada subito addosso), mi sforzo di capire gli altri e di essere al contrario severo con me stesso.
Da molto tempo ormai ho rinunziato a far capire – a parte una manciata di amici, che mi conoscono e che più o meno condividono le mie posizioni – che cosa sento dal punto di vista politico: e difatti non rispondo mai (o rispondo con pazienza o con fastidio, a seconda dei casi) a domande del tipo se io sia “di destra” o “di sinistra”. Diciamo – e lo affermo con sincerità, serietà e convinzione – che io sono cattolico, socialista ed europeista: in questo rigoroso ordine gerarchico. Forse, come diceva doña Eva Duarte de Perón (pace e gloria all’anima sua: e questo non è un modo di dire), se non fossi cattolico sarei comunista; ma doña Eva era argentina, non europea, e sul mio cattolicesimo – non meno che sul mio “comunismo di desiderio” – pesano molti secoli di storia mediterranea ed europea che per troppi versi m’impediscono di “girare all’unisono” con la Modernità e i suoi valori.
Per il resto, come apparirà evidente da quanto ho detto finora, mi considero in fondo una brava persona sia pure con molti difetti, pochi rimpianti per fortuna ma in cambio millanta rimorsi: so che le pochissime persone il giudizio delle quali m’interessa condividono questo giudizio e degli altri francamente – lo dico ben conscio di palesare così un altro mio brutto vizio, la superbia – non mi curo.
Ma ogni tanto mi scappa la pazienza: e allora, chiedo scusa, ma debbo sfogarmi.
Ecco quel che mi manda sul serio in bestia. Ma come si fa a dire che nessuno ha mai visto Dio, o che chi Lo ha visto è morto, o che Lo si può vedere solo dopo la morte? La cosa mi pare talmente enorme che non ce la faccio nemmeno a prendermela con chi l’afferma. Se fossi ebreo, me la prenderei con Dio. Ma litigare con Lui è un esclusivo privilegio del Popolo Eletto: a noi cristiani non è concesso; i nostri fratelli musulmani stanno peggio di noi in quanto noi possiamo solo obbedirGli sia pure obtorto collo, essi sono obbligati ad acconsentire addirittura sinceramente, intimamente e profondamente ad ogni Suo desiderio e a ogni Suo ordine, altrimenti non sono veri musulmani (Islam in arabo significa questo: altro che “fatalismo” o “rassegnazione”!).
Dio c’è e lo vediamo di continuo. Magari non ci parla, o siamo noi che non Lo sentiamo. Ma c’è e si fa vedere di continuo: anche troppo. Talvolta con humour, per quanto non sempre noi siamo in grado di comprenderLo e di apprezzarLo, quando scherza.
Così, Gli ho scritto una “lettera aperta”.
SIGNORE, TI PIACE SCHERZARE
Parafraso il titolo di una canzone che andava di moda negli Anni Cinquanta (“Pittore, ti voglio parlare – mentre dipingi l’altare: – non sono che un povero negro – ma nel Signore io credo”) per rivolgermi a Te: perché, come Tu ben sai, siamo tutti dei “poveri negri”.
Sto per affermare una cosa che parrà enorme, eppure è banale al punto che la sanno (quasi) tutti: credenti e forse perfino non credenti.
Ma che cos’è questa storia che nessuno ha mai visto Dio? E che cos’è questa balla del silenzio di Dio, che Dio non si vede e non si sente, che solo pochi mistici o visionari ne hanno o credono di averne avuto esperienza?
Mi facciano il piacere. Tu non solo sei dappertutto, non solo Ti manifesti dappertutto: arrivi a essere indiscreto, intrufolone, diciamo pure (col dovuto rispetto) rompiscatole.
E intendiamoci: non parlo di Te che Ti mostri in tutta la Tua terribile potenza quando esplode un vulcano, quando urla il mare, quando si muovono le montagne oppure quando ruggisce la tigre, questo splendido terribile animale che purtroppo noi abbiamo quasi eliminato dalla faccia della terra e ch’è una delle prove più evidenti della Tua esistenza. Sei un Dio così evidente nelle Sue opere che bisogna essere Piergiorgio Odifreddi per continuar a non crederci. Non alludo al Dio che ci sta dentro e ci obbliga a fare una cosa, ci perseguita finché non l’hai fatta oppure ci tormenta per un peccato commesso o per un’opera buona trascurata. Il Dio nella Natura, nella Speranza, nel Rimorso.
Nulla di tutto ciò. Alludo a Te: al Dio di Abramo, d’Isacco e di Giacobbe. Adonai, Elohim, Sancta Trinitas Omnipotens Deus. Al Dio che, in quanto Cristo, tutti noi incontriamo di continuo: eppure ci sforziamo di non riconoscerTi e, nel Giorno del Giudizio, negheremo ipocritamente di averTi mai incontrato. Noi, che ci mettiamo il vestito buono se dobbiamo essere ricevuti dal Signor Presidente, dal Signor Commendatore, da Sua Eccellenza Chissacchì o da qualche altro Lupo Mannaro Figlio di Puttana e poi agli appuntamenti con Te – per esempio noialtri “cattolici praticanti”, a quelli domenicali – ci andiamo trasandati e arriviamo in ritardo. Certo, comunque, se non Ti riconosciamo è anche perché Tu ci metti del Tuo. Ti travesti.
Me, Dio mi perseguita. Certo, debbo riconoscere che ha humour e fantasia. È simpatico: nel Suo imperscrutabile intimo, dev’essere un gran buontempone. Quando non Lo penso con i tratti bellissimi e severi del Cristo, Lo immagino come un misto tra l’autoritratto di Leonardo, la severità olimpica di Giove Pluvio (avete presente lo Zeus di Otricoli?), un po’ come lo ayatollah Khomeini ma con sotto sotto qualcosa di allegro, di nonnesco, un nonsocché di Babbo Natale. E ride, il Signore: ride come Giove, e la Sua risata scuote i cieli e gli abissi. E sorride. Solo il diavolo non ride mai: sa solo ghignare e sghignazzare. Dio ride soprattutto quando si diverte a prendermi in giro. E lo fa in tutti i modi, apparendomi nei momenti e nei contesti più impensati. Si traveste da pakistano e tenta di rifilarmi rose quasi appassite tutte le volte (ohimè, sempre meno) che mi rifugio in un ristorantino con lei; fa il senegalese e pretende che gli compri un ombrelluccio tascabile appena cade una goccia di pioggia, anche se io odio i parapioggia e li dimentico regolarmente in autobus; s’infila perfino le gonne a fiori delle zingare moldave – Signore, per carità, un po’ di contegno!… – per tentare di estorcermi un paio di euro leggendomi la mano o vendendomi amuleti (e sì che queste cose le ha proibite Lui, nell’Esodo e quindi nel Deuteronomio: vedete che è anche sleale?). Non è finita: sale sui treni dei pendolari per distribuire ai passeggeri bigliettini in un italiano a bella posta incerto dove dichiara, mentendo, di essere una ragazza ammalata e orfana con due fratellini a carico; oppure, con la faccia da cane bastonato degli immigrati bielorussi, suona (malissimo) Kalinka strimpellando una decrepita sgangherata fisarmonica mentre si tira dietro due marmocchi piagnucolosi e maleodoranti. Signore, mi piacerebbe tanto sapere come commenta le tue performances musicali russe il grande Borodin, quando lo incontri nei giardini del Paradiso… Oppure si traveste da odiosa vecchietta curva e tremebonda, le manine adunche come la strega di Biancaneve, ti ferma per strada o al mercato e ti racconta tutte le sue sventure senza mollarti finché non le rifili qualcosa.
Signore, abbi pietà. Frena questa persecuzione, basta con questi spettacoli da prestigiatore di quart’ordine. Io non Ti ho mai negato qualche spicciolo, tutte le volte che m’imbatto nella Tua invasiva presenza: e alla fine del mese Tu incidi sulle mie finanze più del professor Draghi. Fa’ qualcosa anche per aiutare i più teneri di cuore tra noialtri, perché non ce la facciamo più. Prova a suggerirci qualche sistema più efficace per ridistribuire le ricchezze del mondo, cosa necessaria e sacrosanta, che non razziare i nostri borsellini.
E soprattutto, Signore, dopo ormai una decina d’anni, Ti prego, escogita qualcos’altro quando m’incontri per taglieggiarmi al mattino, nella stazione di Santa Maria Novella. Mi sei venuto a noia, con quel Tuo travestimento da ometto piccino e magrolino, con quegli intollerabili berretti colorati di lana da puffo in versione invernale, la barbaccia ispida e un maledetto accento tra il pisano e il livornese che non se ne può più. Mi Ti sei messo perfino di traverso, una volta, mentre correvo trafelato carico di bagagli e hai rischiato di farmi tombolar per terra e perdere il treno. Hai sempre da raccontare una storia pietosa, intercalata da “déh” e da “o allora?”: una volta ti hanno tolto chissà perché il piccolo sussidio che ti spettava, un’altra hai contratto un’incurabile malattia e ne hai ormai per poco, un’altra ancora sei pieno di bollette inevase. E, siccome hai pessima memoria, cambi di continuo gli scenari della Tua immaginaria esistenza bohémienne: ora hai la mamma ammalata e ora sei solo al mondo, ora vivi sotto i ponti e ora hai una casuccia verso Novoli in affitto, ma stanno per sfrattarti.
Purtroppo, durante uno dei primi mesi della nostra sciagurata conoscenza, ho fatto l’errore di crederTi, di starTi a sentire: e Tu mi hai rifilato il pacco di una vicenda strappacuore, sostenendo tuttavia che tutti i Tuoi mali sarebbero svaniti se qualcuno Ti avesse “prestato” (hai detto proprio così: ma si può essere più sleali?…) cento euri. Te li ho dati, due fiammanti biglietti arancione da cinquanta prelevati freschi dalla banca, ben sapendo ch’erano à fond perdu. L’ho fatto soprattutto sperando che dopo quel colpaccio Tu ti levassi di torno. Macché. Da allora, non mi dai più pace: sembri davvero convinto che io sia una versione un po’ meno ricca ma in cambio molto più bischera di Paul Getty. E mi corri dietro, supplichi, pretendi. Qualche soldino te lo do sempre: a volte, anche un biglietto da cinque o da dieci; ora, sotto Natale, da cinquanta. Ma, Signore, non Ti sopporto più: e una volta, lo ammetto, rifilandoTi una manciata di spiccioli tra quelle manacce sempre tese Ti ho anche mandato a quel paese.
Ora, lo so come andrà a finire. Arriverà, Quel Giorno Fatidico. Ti presenterai assiso tra le nubi, bello e terribile, in clamide imperiale e triregno pontificio come Ti ha ritratto Albrecht Dürer, e pronunzierai i definitivi Venite, benedicti e Discedite, maledicti. Arrivato il mio turno Ti fermerai un momento e poi mi apostroferai severo, puntandomi l’indice contro: “O ’ardini – perché, sappiatelo: Benigni e Marasco hanno ragione, Dio parla fiorentino – una vorta, alla stazione, tu’ m’ha’ mandaho affanculo”. E spero tanto, allora, di trovar il coraggio di replicare tremando: “È vero, Signore, perdonami: ma non Ti ho mai respinto, non Ti ho mai rimandato a mani vuote”. A quel punto Ti prego, o Dio Onnipotente: non farTi superare in pietà e in carità dal più umile dei Tuoi servi. Spero tanto che riderai ancora una volta, con la tua risata magnifica e terribile: e che, con un “Ma affanculo tu c’ha’andà tte, bischeraccio!”, mi farai cenno di prender posto, ultimo della fila, alla Tua destra. E così sia.