Domenica 7 novembre 2021, San Vincenzo Grossi
THE DAY AFTER. DISINCANTO, DISINGANNO E DELUSIONE DOPO LA COP26 (CONFERENCE OF THE PARTIES)
Finalmente, se non altro, si è cominciato a parlarne sul serio, rompendo la congiura del silenzio organizzata dall’omertà politico-mediatica sul tema (omertà che su altri temi, dall’Afghanistan alla Palestina, continua). Da molti decenni storici, climatologi e storici del clima – non solo il celebre Emmanuel Le Roy Ladurie – insistono su un evento di lungo periodo, la cosiddetta “sinusoidale delle oscillazioni climatiche postglaciali”, che su un arco di circa un millennio condurrebbe il globo terrestre a veder crescere la sua temperatura media di alcuni gradi (pochi in assoluto, ma tali da provocare enormi sconvolgimenti) da un optimum climatico di surriscaldamento a un pessimum e quindi a un optimum successivo.
In sintesi, e con molta approssimazione, si può dire che a un crescente riscaldamento nei quattro-cinque secoli attorno alla nascita di Gesù corrispose una progressiva caduta tra i secoli V e VIII, quindi una nuova crescita tra IX e XIII con un optimum attorno al X-XI (e relativa fusione dei ghiacci polari: le navigazioni vichinghe se ne avvantaggiarono), quindi decrescita a partire dalla fine del Duecento fino al pessimum cinque-settecentesco (la “piccola era glaciale”) e successivo, progressivo aumento che dovrebbe condurre a un nuovo optimum tra i secoli XXI e XXII. Attenzione: il termine optimum, dall’apparenza rassicurante, coincide sempre con un aumento termico pericoloso con tratti esiziali quali innalzamento del livello del mare, uragani, squilibri ambientali.
Tutto ciò deriva, di per sé, da cause dipendenti dalle dinamiche geoastronomiche e dalle ellissi planetarie. Negli ultimi due secoli però, e con maggior intensità nei decenni a noi più recenti, gli esseri umani hanno fornito un forte contributo al riscaldamento geotermico tendente già di per sé all’optimum con i risultati della sua attività, del progresso tecnologico, della produzione e del consumo industriali: aumento dell’anidride carbonica e delle emissioni gassose, fattori inquinanti del suolo e dell’atmosfera, ipersfruttamento di risorse non rinnovabili e a loro volta inquinanti.
Il tempo nel quale la stessa scienza riteneva inesauribili le risorse della terra, del mare e della biosfera in genere è ormai tramontato per sempre, per quanto nella “coscienza collettiva diffusa” tale dato sembri molto difficile da essere accettato sul serio. Come esistono gli “scettici” sui vaccini anticovid, esistono anche – e sono ben più numerosi –, gli “scettici” sull’allarme climatico e sull’inquinamento. Uno scetticismo che giunge sovente all’irresponsabilità anche negli atteggiamenti quotidiani e in apparenza minimali: si pensi alla difficoltà che da noi sta ancora incontrando un problema pur elementare (ma di primaria importanza) quale il corretto smaltimento dei rifiuti e la relativa organizzazione del riciclaggio.
Vero è che negli ultimi anni qualcosa sembra essersi mosso: e a farlo muovere, oltre ad alcuni scienziati e a qualche governo più sensibile, hanno fornito un deciso contributo proprio i giovani; e non a torto, dal momento che gli errori e i crimini contro l’ambiente e la biosfera che ancor oggi si vanno perpetrando saranno pagati da quanti dovranno affrontarli nei decenni futuri: vale a dire da loro e dai loro figli. È sulla loro pelle che noi stiamo esercitando la nostra ignoranza e la nostra incivile incoscienza.
Giorni fa il presidente Draghi, in conferenza stampa a Glasgow a proposito dell’iniziativa della Cop26, è stato molto chiaro e incisivo. Quali saranno gli effetti della sua pacata ma intransigente allerta, non sappiamo: ma egli ha fatto il suo dovere, sia pure con qualche tratto di prudenza dipendente dalla sua posizione e dai limiti di essa.
Si è detto ottimista, il presidente, affermando che la Cop26 si fonda sui risultati in materia dell’ultimo G20 e che andrà oltre: ma non ha potuto dissimulare che il negoziato internazionale sul clima (che riguarda essenzialmente la produzione industriale, quindi i differenti livelli di ricchezza e di avanzamento tecnologico) trova il suo ostacolo maggiore nel fatto che i vari paesi del mondo hanno condizioni di partenza differenti tra loro. In altre parole, l’ormai intollerabile livello d’ingiustizia tra paesi ricchi (e potenti) e paesi poveri (dai quali peraltro provengono le materie prime l’impiego delle quali è fattore di riscaldamento e d’inquinamento, ma che non godono dei relativi proventi e profitti) costituisce uno squilibrio praticamente impossibile da correggersi. Vi sono inoltre paesi che hanno iniziato da poco la loro corsa alla produzione e quindi all’inquinamento, e che si sentono innocenti rispetto al problema e creditori verso il resto del mondo per la strada finora non percorsa. Infine, certe priorità e certe situazioni già in corso (si pensi ai molteplici e complessi trattati internazionali riguardanti oleodotti e gasdotti) conducono fatalmente i singoli stati a decisioni incoerenti se non contrastanti tra loro: da una parte ci sono i programmi di riduzione d’emissione esplicitamente formulati o accettati, dall’altra le “eccezioni primarie e necessarie” in una certa misura da tutti invocate.
Tuttavia, Draghi ha lealmente – e forse con un certo disappunto di alcuni paesi “alleati” dell’Italia, come USA e Gran Bretagna – sottolineato che le aperture dimostrate in questi giorni da Russia, Cina e India sul tema delle “velocità” nella riduzione delle emissioni e nell’impegno di contenere l’aumento della temperatura nel limite di 1 grado e mezzo sono state esplicite e superiori alle speranze.
L’importante, come il premier italiano ha affermato con coraggio, è la cooperazione, non lo scontro: impostare il discorso sulla base delle reciproche recriminazioni è la cosa peggiore che si possa mai fare. I troppi indici puntati, ad esempio, sull’impiego del carbone da parte dei cinesi, dal momento che esso rappresenta praticamente la sola fonte energetica massicciamente disponibile in quel paese, sono stati un pessimo avvio; così come gravissimo è l’ostinarsi sulla politica delle sanzioni (e qui, oltre a quella degli USA, c’è un’evidente corresponsabilità dell’Unione Europea), che osta gravemente alla franca e leale collaborazione internazionale.
Restano infine (e qui è il caso di ripeterlo: last, but not least) i grandi e delicatissimi temi connessi con lo sforzo economico e con l’aspetto finanziario di esso: la collaborazione tra pubblico e privato è indispensabile. Jeff Bezos, il fondatore di Amazon, promette una donazione di due miliardi di dollari per ridare vita ai terreni degradati in diverse aree dell’Africa proprio a causa del clima, per esempio le inondate o le desertificate. Inutile dire che sono soldi che i colossi scontano dalle tasse, cosa certamente vera, ma anche in questo settore l’impegno, magari ancora troppo timido, da parte dei governi che contano a farne pagare di più, è comunque un passo nella direzione giusta; ed è probabile che questa pressione fiscale possa invogliare, giocoforza, le multinazionali a pagare qualcosa per risarcire i danni fatti. Lo stesso per le banche multilaterali e in modo particolare la Banca Mondiale, le quali non possono esimersi dal contribuire a creare la piattaforma necessaria al reperimento dei fondi necessari a sostenere il programma mondiale: e si parla di decine di trilioni. Quale sarà ad esempio il ruolo in merito auspicabile da parte del Fondo Monetario Internazionale, un organismo che il presidente Draghi ben conosce? Di fondo, resta un problema difficile da gestire: il capitalismo, che dal punto di vista dell’organizzazione economica riguarda ormai tutti i paesi del mondo, inclusa la Cina, si basa sul principio di una crescita continua, che oggi sembra all’origine dell’industrializzazione selvaggia e della distruzione delle risorse in atto ormai da oltre un secolo. È possibile mantenere questo sistema e allo stesso tempo agire in favore del pianeta e dei suoi abitanti? Con ottimismo Mario Draghi chiamava in causa le nuove tecnologie che potrebbero aiutare in questa corsa contro il tempo, e certamente esse sono una speranza, sebbene alcune di quelle oggi utilizzate, per esempio per i motori elettrici, a loro volta sfruttano risorse in modo distruttivo e inquinante. Insomma, viviamo un momento di grande incertezza, di fronte al quale vorremmo dai governi e dagli organismi internazionali passi più rapidi nella giusta direzione, o magari rassicurazioni, ma anche coloro che oggi si impegnano in buona fede, lo fanno in vista di un futuro del quale non possono conoscere tutte le variabili. Se non altro, che il bene collettivo venga messo in primo piano rispetto alle tentazioni di nuovi conflitti, dopo quelli che hanno devastato il Vicino e il Medio Oriente in questi ultimi due decenni, è un passo importante nella direzione di una svolta.
Ma non è il caso di abbandonarsi a trionfalismi di sorta. Si parla di clima: ebbene, e tutto il resto? Siamo certi di aver ben organizzato l’agenda delle priorità? Quel guastafeste del compagno Manlio Dinucci, ad esempio, è di ben altro avviso…
MANLIO DINUCCI
DIFENDONO IL CLIMA MENTRE PREPARANO LA FINE DEL MONDO
Agli inizi di ottobre l’Italia ha ospitato la riunione preparatoria della Conferenza Onu sul cambiamento climatico, attualmente in corso a Glasgow. Due settimane dopo l’Italia ha ospitato un altro evento internazionale che, a differenza del primo ampiamente reclamizzato, è stato passato sotto silenzio dal governo: l’esercitazione Nato di guerra nucleare Steadfast Noon nei cieli dell’Italia settentrionale e centrale. Vi hanno partecipato per sette giorni, sotto comando Usa, le forze aeree di 14 paesi Nato, con cacciabombardieri a duplice capacità nucleare e convenzionale dislocati nelle basi di Aviano e Ghedi.
Ad Aviano è schierata in permanenza la 31a squadriglia Usa. con cacciabombardieri F-16C/D e bombe nucleari B61. A Ghedi. il 6° Stormo dell’Aeronautica italiana con cacciabombardieri Tornado PA-200 e bombe nucleari B61. La Federazione degli Scienziati Americani conferma nel 2021 che “all’Aeronautica italiana sono assegnate missioni di attacco nucleare con bombe Usa, mantenute in Italia sotto controllo della US Air Force, il cui uso in guerra deve essere autorizzato dal Presidente degli Stati uniti”.
Le basi di Aviano e Ghedi sono state ristrutturate per accogliere i caccia F-35A armati delle nuove bombe nucleari B61-12. Lo scorso ottobre è stato effettuato nel Nevada il test finale con lo sgancio di B61-12 inerti da due caccia F-35A. Tra non molto le nuove bombe nucleari arriveranno in Italia: nella sola base di Ghedi possono essere schierati 30 caccia italiani F-35A, pronti all’attacco sotto comando Usa con 60 bombe nucleari B61-12.
Una settimana dopo aver partecipato all’esercitazione di guerra nucleare, l’Italia ha partecipato alla Conferenza Onu sul cambiamento climatico, presieduta dal Regno Unito in partenariato con l’Italia. Il premier britannico Boris Johnson ha avvertito che “manca un minuto a mezzanotte e abbiamo bisogno di agire ora” contro il riscaldamento globale che sta distruggendo il pianeta. Usa in tal modo strumentalmente il simbolico Orologio dell’Apocalisse, che in realtà segna a quanti minuti siamo dalla mezzanotte nucleare.
Lo stesso Boris Johnson pochi mesi fa, in marzo, ha annunciato il potenziamento dei sottomarini britannici da attacco nucleare: gli Astute (prezzo 2,2 miliardi di dollari ciascuno), armati di missili nucleari Usa da crociera Tomahawk IV con raggio di 1.500 km, e i Vanguard, armati di 16 missili balistici Usa Trident D5 con raggio di 12.000 km, dotati di oltre 120 testate nucleari. Questi ultimi verranno presto sostituiti dagli ancora più potenti sottomarini della classe Deadnough. I sottomarini britannici da attacco nucleare, che incrociano in profondità lungo le coste della Russia, navigano ora anche lungo quelle della Cina, partendo dall’Australia a cui Usa e Gran Bretagna forniranno sottomarini nucleari. La Gran Bretagna, che ospita la Conferenza per salvare il pianeta dal riscaldamento globale, contribuisce in tal modo alla corsa agli armamenti che porta il mondo verso la catastrofe nucleare.
Su questo sfondo è fuorviante il video promozionale della Conferenza: il Dinosauro, simbolo di una specie estinta, che dal podio delle Nazioni Unite avverte gli umani di salvare la loro specie dal riscaldamento globale. In realtà, confermano studi scientifici, i dinosauri si estinsero non per il riscaldamento, ma per il raffreddamento della Terra dopo l’impatto di un enorme meteorite che, sollevando nubi di polveri, oscurò il Sole. Esattamente ciò che avverrebbe in seguito a una guerra nucleare: oltre a catastrofiche distruzioni e alla ricaduta radioattiva sull’intero pianeta, essa provocherebbe, in aree urbane e forestali, enormi incendi che immetterebbero nell’atmosfera una coltre di fumo fuligginoso, oscurando il Sole. Ciò determinerebbe un raffreddamento climatico della durata anche di anni: l’inverno nucleare. Si estinguerebbe di conseguenza la maggior parte delle specie vegetali e animali, con effetti devastanti anche sull’agricoltura. Il freddo e la denutrizione ridurrebbero la capacità di sopravvivenza dei pochi superstiti, portando la specie umana all’estinzione.
(il manifesto, 2 novembre 2021)
Da un punto di vista un po’ diverso, David Nieri corre in aiuto con altri toni a Dinucci. Coincidentia oppositorum o lampante evidenza tematica?
DAVID NIERI
COP26 DI GLASGOW. QUALCHE NOTA A MARGINE
“È chiaro a tutti che la CoP26 è un fallimento” è stata la critica di Greta Thunberg dopo la giornata di venerdì 5 novembre alla conferenza Onu sul clima, CoP26 di Glasgow. L’ideatrice dei Fridays for Future, nel tradizionale sciopero del venerdì, non ha usato mezzi termini per commentare il meeting internazionale. La sua denuncia si è concentrata principalmente sul fatto che “non si può combattere la minaccia del cambiamento climatico con gli stessi metodi che hanno portato il mondo a doverla affrontare”. C’è del vero, senz’altro, in alcune delle sue parole. Ed è straordinariamente positivo, a tratti addirittura sorprendente, che molti giovani siano stati sensibilizzati, grazie all’iniziativa della giovane svedese, su una questione importante – fondamentale, direi – come quella dell’ambiente. La partecipazione dei ragazzi è stata evocata spesso nei discorsi dei capi di Stato e di Governo. E infatti la Generazione Z, quei giovani che da oltre tre anni animano le piazze durante i Fridays for Future, sono tra i più sensibili al tema. In Italia, secondo un recente sondaggio effettuato da Skuola.net su 3.500 adolescenti, quasi 1 su 2 ha partecipato attivamente almeno una volta (circa 1 su 4 spesso) ai “venerdì per il futuro”.
Tutto questo, mi preme sottolineare, al netto di eventuali polemiche o speculazioni sulla natura spontanea e trasparente dello stesso movimento. Il problema, a giudizio di chi scrive, è un altro.
Mi è capitato, in modo del tutto casuale e fortuito, di ricevere la newsletter che il team di Greta invia ai followers della giovane attivista. Pochi punti, quelli che vengono riproposti e amplificati durante i comizi in piazza, che meritano un’analisi.
Riporto il testo preciso della newsletter inviata sabato 30 ottobre: “A tutti i leader mondiali: ‘Tradimento’. Così i giovani in tutto il mondo definiscono l’incapacità dei nostri governi di ridurre le emissioni. E non c’è da sorprendersi. Siamo disastrosamente lontani dall’obiettivo cruciale di 1,5°C, mentre i governi di tutto il mondo addirittura accelerano la crisi, continuando a spendere miliardi per i combustibili fossili. Questa non è un’esercitazione. È codice rosso per la Terra. Milioni di persone soffriranno per la devastazione del nostro Pianeta. Le vostre decisioni causeranno o eviteranno questo scenario terrificante. Sta a voi scegliere. Come cittadini di tutto il Pianeta, vi chiediamo con urgenza di contrastare l’emergenza climatica. Non l’anno prossimo. Non il mese prossimo. Adesso. È fondamentale: 1) Continuare a perseguire l’obiettivo di 1,5°C, riducendo immediatamente e drasticamente le emissioni annue, con un atto coraggioso mai visto prima d’ora. 2) Porre fine immediatamente a tutti gli investimenti in combustibili fossili, i sussidi e i nuovi progetti e fermare nuove esplorazioni ed estrazioni. 3) Smettere di contare la riduzione di CO2 in modo ‘creativo’, pubblicando le emissioni totali per tutti gli indici di consumo, le catene di approvvigionamento, l’aviazione e la navigazione internazionali e la combustione della biomassa. 4) Consegnare i 100 miliardi di dollari che avete promesso ai paesi più vulnerabili, con fondi aggiuntivi per i disastri climatici. 5) Adottare politiche climatiche per proteggere i lavoratori e i più vulnerabili, e ridurre tutte le forme di disuguaglianza. Possiamo ancora farcela. Possiamo ancora evitare le conseguenze peggiori, se siamo pronti a cambiare. Ci vuole una politica determinata, lungimirante e un enorme coraggio, ma vi ripagherà, perché il vostro impegno sarà sostenuto da miliardi di persone”.
Il testo di questo messaggio dà per scontata l’origine esclusivamente antropica del cambiamento climatico, che nessuno può negare sia in corso. I problemi evidenziati riguardano principalmente l’emissione di CO2 causata dall’utilizzo dei combustibili fossili, i cui responsabili sono da individuare principalmente nei paesi emergenti, Cina in testa. E si dà per scontato che l’uomo possa agire direttamente sull’aumento della temperatura a livello globale. Il problema ambientale è indiscutibile: la devastazione e lo sfruttamento della natura e delle sue risorse ha raggiunto livelli non più sostenibili a lungo termine, l’urgenza di una transizione “ecologica” è fondamentale ed essenziale, lo sviluppo delle energie rinnovabili non più una scelta, ma un obbligo. I due problemi, però, sono distinti e, a tratti, si intersecano, consolidandosi, spesso erroneamente, in un’unica emergenza. Si rischia di confondere un fenomeno “naturale” come il cambiamento climatico in atto (che l’inquinamento può solo accelerare, benché in modo non decisivo) con l’incuria e lo stravolgimento dell’ambiente nel quale viviamo.
Cito alcuni passi di un libro, il cui autore, Ernesto Pedrocchi, è stato professore di Termodinamica applicata e di Energetica al Politecnico di Milano per oltre mezzo secolo. Non certo un estraneo alla materia trattata, ma un addetto ai lavori. Sono molti, per la precisione, gli uomini di scienza che mettono in dubbio la vulgata “ideologica” del cambiamento climatico.
Scrive Pedrocchi nel suo Il clima globale cambia. Quanta colpa ha l’uomo? (Società Editrice Esculapio, 2020): “Oggi si parla molto di clima senza che ci sia stata sufficiente diffusione di dati empirici facilmente reperibili in bibliografia che permettono di sviluppare un approccio essenzialmente descrittivo che può aiutare a meglio conoscere la complessa e ancora poco conosciuta scienza del clima. A livello di divulgazione è invece in atto una specie di censura per avvalorare l’ipotesi della natura antropica del riscaldamento globale (Antropogenic Global Warming – AGW) come verità ufficiale non concedendo spazio ai tanti dubbi che pure ci sono e connotando un problema scientifico come un mito ideologico. Sono invece proprio i dubbi elementi essenziali per il progresso scientifico. […] Chi solleva dubbi riguardo l’ipotesi dell’AGW viene denigrato e tacciato come ‘negazionista’, termine che ha una connotazione offensiva e ripugnante dato l’insito richiamo storico alla Shoah, che ovviamente nulla ha a che vedere con il cambiamento climatico”.
E ancora, riferendosi direttamente a uno dei punti sollevati dal movimento Greta: “L’uso dei combustibili fossili comporta l’immissione in atmosfera di CO2 aggiuntiva rispetto ai flussi naturali, ed essendo la CO2 un gas con effetto serra, è stata imputata di essere responsabile del riscaldamento verificatosi nel XX secolo, in particolare di quello registrato nella seconda metà del secolo in concomitanza con il forte sviluppo dei paesi fino allora sottosviluppati. Al riguardo si deve segnalare che la CO2 prodotta da fonti fossili costituisce, al momento, meno del 5% della CO2 totale immessa in atmosfera: i più grossi contributi provengono dalla degasazione degli oceani e dalla degradazione di tutti i composti biologici”.
Si tratta di alcuni brevissimi passaggi di un libro ricco di informazioni utilissime per cominciare a porsi alcune domande. Domande che, a giudizio del sottoscritto, potrebbero giungere a mutare i presupposti di una “crisi”. Resterebbe, ovviamente, l’emergenza energetica/ambientale, ma cambierebbe completamente paradigma quella legata al riscaldamento globale. Ovvero: un cambiamento climatico “naturale” dovrebbe essere affrontato in prospettiva, con graduali modifiche all’ambiente in cui viviamo, soprattutto per quanto riguarda le zone antropizzate più a rischio, che dovrebbero essere messe in sicurezza considerando che i “fenomeni estremi” non sarebbero più estremi, ma semplicemente “ordinari”.
Un altro pericolo è collegato, appunto, alla transizione ecologica, che rischia di trasformarsi in una gravosissima transazione economica. In un bellissimo libro dal titolo Ombre verdi. L’imbroglio del capitalismo green (Altreconomia, 2020), l’ambientalista Paolo Cacciari ci mette in guardia: “Il capitalismo è un progetto di permanente dominazione da parte di una piccola élite su ogni forma di vita. Senza un cambiamento radicale, la ‘green economy’ non è che un’altra versione dello stesso modello”. A questo proposito, rileggiamoci qualcosa di Serge Latouche, teorico della “decrescita”, che in chiave occidentale corrisponde più o meno a una bestemmia. Per Bollati Boringhieri è uscita recentemente una summa del suo pensiero (Breve storia della decrescita. Origine, obiettivi, malintesi e futuro): l’autore ci invita a “uscire dall’economia, cioè mettere in discussione il dominio dell’economia sul resto della vita. La decrescita non è una via alternativa, ma una matrice di alternative possibili”. Sono alcuni stili di vita che devono cambiare, nell’Occidente opulento o onnipotente che spreca, distrugge e cementifica anche la nostra solitudine. Aggiunge, a questo proposito, Cacciari: “C’è una contraddizione insuperabile tra economia di mercato e natura, un conflitto irriducibile tra capitalismo e sostenibilità ecologica. Nessuna green revolution sarà quindi possibile senza una trasformazione sistemica del contesto socio-economico. L’estrazione del profitto da ogni cosa non farà che spostare sempre più avanti i limiti della capacità di carico dei cicli vitali naturali del pianeta. Avvicinando l’ecocidio”. Il timore, fondato, è che la transizione verde sia già in corso, ma sapientemente guidata dal “capitale”, che attribuisce un valore (o meglio: un prezzo) alla natura e strumentalizza i temi ambientali come leva competitiva.
C’è da lavorare. Quando il nostro presidente del Consiglio, a proposito dei cambiamenti climatici, abbraccia, in un certo senso, la teoria latouchiana relativa al cambio dello “stile di vita”, ha ragione. Ne ha meno quando parla di crescita continua, di Pil, di brand Italia, di corrispettivo in termini economici di qualsiasi azione/iniziativa umana, una concezione, cioè, che si pone alla base della crisi di un sistema, quello liberal-capitalista, che non può crescere all’infinito all’insegna dei sempre meno (ma sempre più) privilegiati e di una già foltissima schiera di poveri e disagiati che aumenta a dismisura anche a causa della pandemia. C’è da lavorare sulla sostenibilità delle fonti di energia, su una nuova etica del lavoro e sulle disuguaglianze, investendo su modelli di sviluppo incentrati su nuovi valori che non siano esclusivamente quelli ricoperti dalla filigrana. L’aumento dei prezzi delle materie prime e dell’energia cui stiamo assistendo rischia di scatenare una bolla speculativa con potenziale distruttivo enorme per interi settori produttivi, già in ginocchio per l’emergenza Covid.
Il timore (infondato?) corre sul filo quando l’inviato speciale degli Stati Uniti sul clima, John Kerry (un “quasi” presidente al pari del collega Al Gore, tra i primi e principali promotori dell’ideologia dell’AGW), ha parlato di “progressi autentici”, rilevando “un maggior senso d’urgenza a questa conferenza, un maggior senso dell’obiettivo”. Ha detto, secondo Bbc, di non aver mai visto così tanto “vero denaro” messo sul tavolo così presto in un vertice dedicato all’emergenza climatica, nonostante esistano “dei punti interrogativi” su parte di quelle somme. “È una svolta, ben oltre ciò che molti ritenessero possibile”, ha concluso.
A pensar male si fa peccato: nella speranza, almeno stavolta, di non azzeccarci.