Domenica 14 novembre 2021, Avvento Ambrosiano
IN LUOGO DI EDITORIALE
14 NOVEMBRE 1951 – L’alluvione nel Polesine
11 NOVEMBRE 1961 – L’eccidio di Kindu
9 NOVEMBRE 1989 – La caduta del “Muro di Berlino”
L’ALLUVIONE NEL POLESINE, SETTANT’ANNI FA
Fu la prima emergenza italiana del dopoguerra, fece 101 morti e mobilitò aiuti da tutto il mondo.
Il 1951 fu un anno particolarmente piovoso in Italia, e nel novembre di quell’anno ci furono piogge intense e costanti in particolare nel Settentrione. Tra il 9 e l’11 novembre si formò un’onda di piena che dal Monferrato, in Piemonte, cominciò a viaggiare sul letto del Po, ingrossandosi man mano che raccoglieva l’acqua degli affluenti. Si sarebbe poi scoperto che il Po in quei giorni raggiunse il livello più alto mai rilevato fino ad allora. Ci fu una prima esondazione nella zona di Parma. Poi quando la massa d’acqua arrivò nel Polesine, in Veneto, il fiume ruppe gli argini per tre volte, una di seguito all’altra.
Era il 14 novembre 1951, esattamente settant’anni fa. Nel giro di poche ore, diversi miliardi di metri cubi d’acqua (le stime oscillano tra i tre e i sette) invasero le campagne venete, allagando due terzi dei campi coltivabili e distruggendo la quasi totalità dei raccolti. Alla fine i morti furono 101, i dispersi sette, gli sfollati 180mila.
Il Polesine è un’area geografica stretta e lunga che coincide quasi del tutto con la provincia di Rovigo, ed è compreso tra il Po a sud e l’Adige, a nord. Ne fa parte anche il delta del Po. L’alluvione in questa zona fu la prima vera emergenza dell’Italia del dopoguerra, e fu anche la prima in cui ci fu una grossa mobilitazione nazionale e internazionale: contribuirono infatti ai soccorsi diversi paesi del mondo, compresi gli Stati Uniti e l’Unione Sovietica, che allora erano contrapposti nelle prime fasi della Guerra fredda.
La conformazione geografica del Polesine, fatta di estese depressioni che in certi punti scendono sotto al livello del mare, rese l’alluvione particolarmente drammatica. In alcune zone l’acqua arrivò a un’altezza di sei metri. Gli abitanti delle cittadine colpite dall’alluvione si rifugiarono sui tetti, o rimasero bloccati su piccole alture e nei piani alti delle case. Secondo alcune ipotesi, queste depressioni non erano dovute a fenomeni geologici veri e propri, quanto all’estrazione del gas metano che in quel periodo avveniva a ritmi molto elevati. Successivamente, uno studio commissionato del governo portò alla chiusura di 12 centri di estrazione della zona.
Una buona parte dei morti dell’alluvione furono causati da un singolo episodio. Nella località di Frassinelle, un camion – in seguito diventato noto come “camion della morte” – stava trasportando una gran quantità di sfollati per portarli al riparo, ma forse per il troppo carico si impantanò e venne inondato dall’acqua. I contorni della vicenda non furono mai chiariti del tutto, ma probabilmente in quella circostanza annegarono circa 80 persone.
Il sito di Polaris, gestito dall’Istituto di Ricerca per la Protezione Idrogeologica (IRPI), riporta che complessivamente furono distrutti o danneggiati sessanta chilometri di argini, quasi mille chilometri di strade, 52 ponti, 4.100 abitazioni, 13.800 aziende agricole, 5.000 fabbricati e 2.500 macchinari agricoli. Rimasero uccisi o furono dispersi 16.000 capi di bestiame e 200mila tonnellate di derrate. I danni economici furono stimati dal geografo Giorgio Botta in 400 miliardi di lire, oltre 7 miliardi di euro di oggi.
La ricostruzione parziale di strade, case e fabbricati impiegò diversi mesi, e andò avanti poi anche negli anni successivi: sempre Polaris ha stimato che fra il 1952 e il 1981 lo Stato erogò 1.868 miliardi di lire per la questione del Polesine, attraverso undici diverse leggi nazionali.
(Il Post, 14 novembre 2021)
VINCENZO GRIENTI
LA MEMORIA DI KINDU: 60 ANNI FA IN CONGO L’ECCIDIO DEI TREDICI ITALIANI
L’11 novembre 1961 furono trucidati tredici aviatori italiani del contingente dell’Operazione delle Nazioni Unite inviato a ristabilire l’ordine nello Stato africano durante la crisi del Congo.
11 novembre 1961: due C-119 della 46ª Aerobrigata di Pisa in forza al contingente delle Nazioni Unite atterrano sull’aeroporto di Kindu, nell’ex Congo belga, al confine con il Katanga. Un’area in continuo fermento per via dalla guerra civile in atto. Due mesi prima, il 17 settembre 1961, nei cieli di Ndola, Dag Hammarskjöld, Segretario generale dell’Onu, era rimasto ucciso in un incidente aereo mentre si recava proprio in Katanga per risolvere la crisi congolese. Uno scenario difficile in cui l’Aeronautica militare italiana era stata chiamata a prestare servizio sotto l’egida dell’ONU dopo la proclamazione dell’indipendenza della Repubblica del Congo il 30 giugno 1960. Dall’11 luglio i “vagoni volanti”, come venivano simpaticamente chiamati i C-119, furono inviati in terra africana per evacuare profughi e trasportare generi di prima necessità. A partire dal 22 agosto 1960 la “Sezione della 46ª Aerobrigata Congo” era operativa sull’aeroporto della capitale Leopoldville. Un’attività che venne potenziata il 7 novembre dello stesso anno dando vita al “Distaccamento Aerobrigata Congo” posto sotto il controllo dell’ONUC (ONU-Congo). Ad esso gli venne assegnato il non facile compito di assicurare ben il 70 per cento dell’attività globale di aerotrasporto necessaria in un territorio grande quasi sette volte l’Italia. È in tale contesto che si consumò la tragedia dei due equipaggi italiani dei C-119, identificati con nominativo radio “Lyra 5” e “Lupo 33”, al comando rispettivamente del maggiore pilota Amedeo Parmeggiani e dal capitano pilota Giorgio Gonelli. Sei uomini a bordo di due aerei, più il tenente medico Paolo Remotti. Una volta toccata la pista di Kindu e terminate le operazioni di scarico dei due C-119, i tredici aviatori accompagnati dai caschi blu malesi uscirono dall’aeroporto per raggiungere una villetta adibita a mensa della guarnigione Onu. Qui verranno presi di sorpresa da un gruppo ribelle di militari congolesi. Nell’aggressione uno degli ufficiali, il medico, viene ucciso, gli altri vengono trascinati nella prigione della città e brutalmente trucidati.
La notizia dell’eccidio dei tredici aviatori italiani fece il giro del mondo sconvolgendo prima di ogni altro i familiari delle vittime, gli uomini della 46ª Aerobrigata di Pisa e infine l’intera opinione pubblica italiana. Un dramma a cui si aggiunse altra tragedia: i corpi degli aviatori italiani non erano stati trovati. Ci volle un po’ di tempo per arrivare alla scoperta dei resti mortali dei nostri connazionali. Erano stati sepolti in due fosse comuni. Solo l’11 marzo 1962 in un clima di profondo dolore e di commozione le salme dei caduti di Kindu giunsero a Pisa a bordo di un aereo americano. Il giorno dopo venne celebrato il rito funebre alla presenza del Presidente della Repubblica Antonio Segni. In un primo momento i caduti di Kindu trovarono una dimora temporanea nella chiesa di Santa Caterina, in attesa della costruzione del Sacrario a loro dedicato il cui progetto, affidato all’architetto Giovanni Michelucci, venne portato in essere e inaugurato il 15 marzo 1963 alla presenza del Presidente del Consiglio, Amintore Fanfani, del ministro della difesa Giulio Andreotti e dell’ex Capo dello Stato Giovanni Gronchi. Il ciclo operativo dell’Aeronautica militare in Congo nel frattempo si era concluso il 19 giugno del 1962. Un bilancio pesantissimo per la 46ª Aerobrigata. AI caduti di Kindu si aggiunsero altri due incidenti di volo in cui persero la vita altri tre ufficiali e quattro sottufficiali. Nel 1994, sull’aeroporto di Pisa, il Presidente della Repubblica, Oscar Luigi Scalfaro, consegnò ai familiari dei tredici aviatori le Medaglie d’oro al valor militare concesse alla memoria.
Sessant’anni dopo, a Pisa, la 46ª Brigata Aerea ha ricordato l’eccidio con una messa presieduta dall’arcivescovo Santo Marcianò, Ordinario militare per l’Italia: “La giornata di oggi ha voluta ravvivare la memoria che ha come contenuto non tanto una morte tragica quanto il dono di vite che hanno messo al centro il bene degli altri, degli ultimi e dei poveri – ha detto monsignor Marcianò -. Questi nostri tredici fratelli sono andati a fare una missione di pace. Sono andati a sfamare la gente in un momento difficile. Si legge tra le righe un martirio d’amore – aggiunge l’arcivescovo. Certo il martire è colui che dà la vita per la fede, ma c’è una fede implicita dentro coloro che vivono per gli altri e questa fede implicita è una fede che in qualche modo sigilla questo dono come martirio. Il martire è colui che dà la vita per amore”. “Sono tredici ragazzi che hanno perso la vita per un’operazione di pace. Per dimostrare ancora una volta come l’Italia e il nostro Paese, nei momenti di difficoltà o quando viene chiesto è presente – ha detto il Generale di Squadra Aerea Luca Goretti, Capo di Stato Maggiore dell’Aeronautica. Loro oggi sono ancora insieme a noi, come sono insieme a noi tutti i colleghi della 46ª Aerobrigata come saranno in futuro in qualsiasi paese per portare la nostra bandiera, il nostro orgoglio, la nostra passione e l’umanità del popolo italiano. Loro sono stati un esempio di umanità e come tale vanno ricordati e riconosciuti. Questo è un tributo a loro e ai loro familiari che non si sono mai stancati di ricordare la loro memoria”.
(Avvenire, 11 novembre 2021)
FRANCO CARDINI
1989. MURI CADUTI DI IERI, SPERANZE CADUTE DI OGGI
In pieno 1942, isolato in una Berlino impegnata nello sforzo bellico mentre sempre più chiaro appariva che il conflitto stava orientandosi verso un esito sfavorevole al Reich, un Carl Schmitt ormai abbandonato dalle sue illusioni – ammesso che se ne fosse mai davvero fatte – vergava l’ultima pagina del suo saggio Terra e mare: una pagina che, per il suo carattere profetico, sembra scritta mutatis mutandis adesso: “Viene a cadere […] il nomos della terra in vigore fino ad oggi. Al suo posto cresce, inarrestabile e irresistibile, il nuovo nomos del nostro pianeta. Lo invocano le nuove relazioni dell’uomo con i vecchi e nuovi elementi, e lo impongono le mutate dimensioni e condizioni dell’esistenza umana. Molti vi vedranno solo morte e distruzione. Altri crederanno di essere giunti alla fine del mondo. In realtà ci troviamo soltanto alla fine del rapporto tra terra e mare invalso finora. Eppure la paura umana del nuovo è spesso grande quanto la paura del vuoto, anche quando il nuovo rappresenta il superamento del vuoto. Perciò molti vedono solo un disordine privo di senso laddove in realtà un nuovo senso sta lottando per il suo ordinamento. Non vi è dubbio che il vecchio nomos stia venendo meno, e con esso un intero sistema di misure, di norme e di rapporti tramandati. Non per questo, tuttavia, ciò che è venturo è solo assenza di misura, ovvero un nulla ostile al nomos. Anche nella lotta più accanita fra le vecchie e le nuove forze nascono giuste misure e si formano proporzioni sensate”.
Può darsi che quelle righe, vergate quasi ottant’anni fa, appaiano oggi troppo ciniche, o legate con una fredda e quasi chirurgica considerazione “obiettiva” della realtà, o animate al contrario da un ottimismo non granché giustificato in un pensatore tedesco che le scrivesse nel ’42 e che avesse coscienza, oltretutto, delle sue compromissioni e delle sue corresponsabilità con il regime hitleriano dal quale stava irreversibilmente allontanandosi il favore delle armi.
Tra il 4 e l’11 febbraio del ’45 a Yalta i due veri vincitori della seconda guerra mondiale e colui che ne restava in fondo il vincitore morale, cioè lo statunitense Franklin D. Roosevelt e il sovietico maresciallo Iosif Stalin insieme con il britannico Winston Churchill – il quale non ignorava affatto che quell’atto di morte del nostro continente coinvolgeva anche il suo paese, candidato ormai all’eclisse come grande potenza – si accordarono sulla finis Europae.
Yalta, la Positano degli czar: i pini, gli aranci, i limoni, gli oleandri, i vini dolci e spumanti, il suono della balalaike tanto simile a quello dei mandolini. In questo pittoresco angolo di paradiso della Crimea, già colonia genovese nel medioevo e famoso per le ville della nobiltà russa immerse in fiabeschi giardini e per quello splendido film realizzato nel 1960 da Iosif Chejfic, La signora dal cagnolino, si consumò sessant’anni fa il tentato assassinio dell’Europa. I tre esecutori di esso li vediamo ancora immortalati nelle tante, celebri, citatissime foto: ammettiamo pure che uno di loro, il britannico, fosse solo responsabile di concorso in omicidio, non proprio assassino. Gli altri due erano anche, al tempo stesso, mandanti. Ma forse non erano gli unici.
D’altronde, i delitti perfetti non esistono. Per fortuna, fallì anche quello. Le premesse per commetterlo – avviate più o meno un quarto di secolo prima a Versailles e portate avanti dal Totentanzer Adolf Hitler – c’erano però tutte. La memoria è un dovere, come ci viene ricordato quotidianamente. Ricordiamola dunque con lucidità, quell’infamia i postumi della quale sono stati per fortuna quasi del tutto metabolizzati: del resto lealmente riconoscendo ch’essa era la conseguenza in un certo senso obbligata di una lunga, pluridecennale, addirittura secolare sequela di orrori e d’infamie fin lì perpetrati.
Si trattava di discutere l’assetto del continente europeo all’indomani della fine del conflitto, che appariva ormai prossima. I “tre grandi” si accordarono sulla spartizione della Germania in quattro zone d’occupazione, assegnandone tre ai loro rispettivi paesi e la quarta alla stessa Francia, formalmente assente dall’incontro in quanto la sua neobelligeranza gollista non aveva cancellato la sconfitta e l’armistizio del ’40, che dal conflitto che ora si stava concludendo la manteneva formalmente fuori: ma appunto con quella presenza ambiguamente “recuperata” si ribadiva così la continuità di Yalta rispetto a Versailles e al tempo stesso si vendicava la vergogna della sconfitta francese di cinque anni prima.
Nei confronti dei tedeschi, i capisaldi dell’accordo tra i vincitori prevedeva una dura e sistematica campagna di denazificazione, la punizione dei criminali di guerra, la smilitarizzazione e un pesante piano di riparazioni economiche: tuttavia, la decisione sulla sorte definitiva della Germania si rimandava a una conferenza di pace che sarebbe stata, in seguito, rinviata a tempo indeterminato. In un certo senso, lo smembramento della nazione sconfitta appariva quindi tacitamente inteso come definitivo.
Se le cose si fossero fermate qui, sarebbe stato comunque chiaro che lo specifico e diretto scopo della conferenza era di punire duramente la Germania e di fondare in piena Europa umiliata e smembrata l’egemonia e la presenza armata di due superpotenze extraeuropee. Yalta si situava sulla linea delle paci sette-ottocentesche e di quella di Versailles, caratterizzate dal concetto che i vincitori d’un conflitto hanno il diritto di accaparrarsene premi e vantaggi e che i confini e le genti ad esso interessate si trattano come oggetti prescindendo dalla loro volontà e dai loro diritti storici. Una pace esattamente come Versailles: pensata cioè – contrariamente ai suoi dichiarati princìpi – per farla obiettivamente finita con la pace futura e per seminare dunque le ragioni di possibili guerre future. In che misura e fino a che punto i tre protagonisti di essa ne erano coscienti?
Ma si andò purtroppo oltre. Non era esattamente il “tramonto dell’Occidente”, come aveva preconizzato più o meno un quarto di secolo prima Oswald Spengler: l’Occidente – proprio così come dal secolo prima lo concepivano e lo preconizzavano gli intellettuali statunitensi –, senza l’Europa e addirittura contro l’Europa, era essenzialmente il continente americano, schierato contro il vecchio mondo su una linea che dal “progetto Monroe” giungeva dritta alla guerra di Cuba.
A Yalta non era stato spartito solo il continente europeo: era scomparsa la compagine europea come entità sovrana. Il suo territorio fu in realtà diviso non già in quattro, bensì in due aree d’influenza, secondo le ragioni e gli interessi di tipo strategico, ideologico e geopolitico dei due effettivi vincitori extraeuropei entrambi, USA e URSS. Non si era salvato niente né nessuno. Il destino della Polonia – per difender la quale inglesi e francesi avevano pur dichiarato guerra a Hitler – fu sacrificato per mezzo di un provvedimento ipocrita, che aggiungeva al danno la beffa: il suo territorio metropolitano fu difatti allargato, spostandone a ovest i confini (anche se gli accordi specifici su quel punto furono rinviati alla conferenza di Potsdam del luglio successivo); ma al tempo stesso, con il riconoscimento del governo comunista di Lublino, gli alleati occidentali abbandonavano quel disgraziato paese a Stalin che già se n’era aggiudicato nel ’39 la metà con la complicità di Hitler. “Perché Roosevelt e Churchill non si opposero all’infame diktat del dittatore sovietico?”, si scandalizza ancor oggi qualche ipocrita. Ma è chiaro non solo che non ne avevano la possibilità materiale, dal momento che l’Armata Rossa occupava fisicamente già quei territori, bensì anche ch’essi erano intanto occupati a imporre in Grecia, con la forza, un governo conservatore contro la volontà della maggioranza dei greci. Insomma, fu un baratto.
D’altronde, che Stalin – il quale aveva ripreso chiaramente la politica di spinta degli czar verso il Mediterraneo – rinunziasse alla Grecia, mentre tramite i regimi comunisti che là si stavano insediando s’impadroniva di tutta l’area carpatico-danubiano-balcanica, consentì quantomeno a statunitensi e britannici di reclamar garanzie a proposito dei confini dell’Italia, che sarebbe rimasta sotto la loro influenza, rispetto ad Austria e Jugoslavia, candidate a passar sotto quella del loro potente e temibile interlocutore. In cambio, Roosevelt pretese che i sovietici entrassero in guerra contro il Giappone: e Stalin accettò con riluttanza, ma in cambio di buoni compensi territoriali come Sahalin e le Curili. In tal modo si annullavano le conseguenze della sconfitta russa nella guerra contro il Giappone del 1905: ancora una volta, nel più spregiudicato stile dei trattati sette-ottocenteschi.
Qualcosa di nuovo si fece comunque, sempre sul modello di Versailles. All’indomani di esso, Wilson aveva proposto il suo progetto di “Società delle Nazioni”; Roosevelt, seguendone il copione, presentò un piano per la costituzione di un’Organizzazione delle Nazioni Unite, in effetti istituita poco dopo, con la conferenza di San Francisco del 24 maggio successivo che varò la “Carta dell’ONU”, del resto già anticipata dai princìpi di “democrazia universale” della carta dell’Atlantico del 14 agosto 1941.
L’equilibrio stabilito a Yalta fra statunitensi e sovietici, i nuovi padroni del mondo, era quello di una “brutale alleanza”: e la successiva Guerra fredda non solo ne avrebbe messo allo scoperto l’iniquità, ma ne avrebbe dimostrato la debolezza. Comunque, durò a lungo. E fu, per noialtri europei, solo grazie al coraggio e alla costanza di alcuni nostri uomini politici, quali Alcide De Gasperi, se la divisione dello spazio politico fra Atlantico e Urali in un “mondo libero” a Ovest e un “mondo socialista” a Est, cioè la cancellazione effettiva e formale dell’Europa, non funzionò.
In effetti, la prospettiva di chi ha vissuto i decenni della Guerra fredda non era quella del pessimismo. Il quarto di secolo dall’inizio degli anni Sessanta alla metà degli anni Ottanta del Xx secolo fu per molti versi decisivo a livello di storia mondiale. Si aprì sulle prospettive di giustizia sociale indicate da papa Giovanni XXIII nell’enciclica Mater et Magistra, che preludevano al Concilio Vaticano ii inaugurato nell’ottobre del ’62, e – dopo la crisi determinata dal tentativo d’installazione di missili sovietici a Cuba – proseguì con la breve ma intensa stagione delle speranze di pace che in tutto il mondo sembravano garantite dall’azione congiunta e convergente di papa Giovanni, del presidente John Fitzgerald Kennedy e di Nikita Krusciov. L’enciclica Pacem in Terris, del 1963, parve siglare questo momento: ma preluse alla scomparsa di quel pontefice, quasi immediatamente dopo, e nel novembre successivo alla tragica morte del presidente Kennedy in un attentato, mentre l’anno dopo nell’URSS cadeva Krusciov, sostituito dalla lunga era “neoconservatrice” di Leonid Breznev.
Erano anni di speranza. Nel “ciclo economico” di quel periodo, e in special modo per l’Italia, si parlava di un boom, per quanto il paese fosse molto scosso, nel ’62, dall’“incidente” ch’era costato la vita a un organizzatore imprenditoriale come Enrico Mattei. Erano gli anni dei grandi successi di Leonardo Sciascia, di Giorgio Bassani, di Carlo Emilio Gadda, nell’urss del dissidente Aleksandr Solzenicyn: ma già si annunziava, con l’inizio dei bombardamenti aerei statunitensi sul Vietnam del Nord dell’estate del ’64, la nuova fase di tensione mondiale che si stava aprendo. La guerra “dei sei giorni” in Palestina, nel ’67, e quindi il generale indurirsi del conflitto vietnamita, mentre in Cina si avviava nel 1966 la “rivoluzione culturale”, condussero a un lungo momento d’inquietudine il cui segno immediato fu – dalle “rivolte studentesche” negli li Stati Uniti (Berkeley) alla Francia (il joli mai parigino del ’68) alla stessa Italia – lo scoppiare della “contestazione giovanile”, che assunse il fatidico nome di “Sessantotto” ma che continuò per tutti gli anni Settanta aprendo la strada agli “anni di piombo”, la lunga e feroce stagione degli attentati inaugurata il 12 dicembre del 1969 da quello milanese della Banca dell’Agricoltura di piazza Fontana, che costò 16 morti e una novantina di feriti. Si parlò allora di “piste rosse”, di “piste nere”, di “strategia della tensione”; si assisté al costituirsi, alla sinistra del PCI, di numerose formazioni estremistiche e, nel ’70, alla rivolta “populista” di Reggio Calabria e ai due episodi praticamente contemporanei dell’approvazione della legge sul divorzio e di un tentativo di golpe politico-militare di estrema destra nel quale parvero implicati i “servizi” del regime militare dei “colonnelli” greci.
La crescita del malessere dovuto al terrorismo e all’insicurezza che serpeggiava nel paese, insieme con l’inquietudine causata dall’affermarsi di modelli repressivi che sembravano trionfare dalla Grecia al Cile all’Argentina, indusse nel settembre-ottobre 1973 il segretario del PCI Enrico Berlinguer a farsi fautore della linea del “compromesso storico” tra comunisti, socialisti e cattolici, tesa sia a render impossibili eventuali soluzioni golpiste della destra, sia ad arginare l’ondata di simpatie extraparlamentari di sinistra che pareva interessare soprattutto i giovani e cresceva di pari passo con la “tentazione terroristica”, come si vide proprio a Genova con l’esecuzione da parte delle “Brigate Rosse”, nel ’76, del magistrato Francesco Coco; d’altro canto il terrorismo di destra si faceva a suo modo sentire con l’uccisione del magistrato Vittorio Occorsio, nel medesimo anno, da parte di un commando di “Ordine Nuovo”.
Dopo il “delitto Moro” del 9 maggio del ’78, comunque, la classe dirigente italiana pose fine agli indugi. Quella specie di guerra civile interna al mondo progressista nella quale del resto si proiettava in qualche modo l’inimicizia tra URSS e Repubblica Popolare Cinese, doveva trovare uno sbocco politico. Intanto, sul piano dell’ordine pubblico, il rapimento e l’uccisione di Aldo Moro erano stati un punto di ormai intollerabile “non-ritorno”, al quale del resto avevano tenuto dietro, fra ’77 e ’80, gli omicidi del giornalista Casalegno, del magistrato Alessandrini, dell’ufficiale dei carabinieri Varisco, del sindacalista Rossa, del dirigente FIAT Ghiglieno, dal magistrato Bachelet, del giornalista Tobagi.
Era troppo. Nel 1980, un distaccamento speciale di carabinieri agli ordini del generale Carlo Alberto Dalla Chiesa eliminava la “colonna genovese” delle “Brigate Rosse”. Ma gli assassinii politici non si arrestarono: il 2 agosto 1980 si ebbe la strage della stazione di Bologna, sulla quale mai si sarebbe in realtà fatta piena luce; fra 1981 e 1985 sarebbero ancora caduti l’ingegner Taliercio, l’economista Tarantelli, lo stesso generale Dalla Chiesa, il senatore Ruffilli. La paura di quegli anni sarebbe culminata, il 13 maggio del 1981, con l’attentato a papa Giovanni Paolo II: un’altra pagina oscura relativamente alla quale il mondo sembra essersi rassegnato all’ignoranza.
Frattanto, anche il panorama politico internazionale cambiava vistosamente con l’ascesa alla Casa Bianca di Ronald Reagan, la progressiva affermazione di “Solidarnosc” in Polonia, l’avvio sia della crisi in Afghanistan, sia del nuovo regime repubblicano e islamico in Iran, la vittoria del socialista Mitterrand in Francia.
Nell’agosto del 1983 il socialista Bettino Craxi inaugurava il suo governo appoggiato a un pentapartito, che si affermava anche attraverso un serrato duello col Partito Comunista, colpito poco tempo dopo, nel giugno dell’84, dalla precoce, inattesa scomparsa di Enrico Berlinguer.
La metà degli anni Ottanta – era “reaganiana” e “thatcheriana” – si caratterizzò come quella della rapida eclisse della visione sociale del mondo e dell’altrettanto rapido insorgere di una serie d’istanze a carattere liberale e liberistico che, ritenute a lungo minoritarie se non addirittura residuali – fin da quando, all’indomani della crisi del 1929, in America come in Europa ci si era orientati nella direzione del welfare state mentre d’altronde in una metà del mondo trionfavano sistemi socialisti e addirittura collettivistici –, sembravano ora rivelare d’un tratto la loro debolezza e inadeguatezza.
Nel marzo del 1985 era assurto all’ufficio di segretario generale del PCUS un personaggio che si presentava come il coraggioso fautore di un rinnovamento all’interno del sistema sovietico: Michail Gorbaciov, iniziatore di riforme alla luce della glasnost (“trasparenza”) e della vera e propria perestroika (“cambio d’indirizzo”). La fine del socialismo in Polonia e l’impantanamento dell’URSS in quella campagna afghana che sembrava sempre più trasformarsi in un “Vietnam sovietico” suggerivano l’adozione di drastiche misure vòlte non già – come fu detto con opposte intenzioni da duri denigratori interni e da entusiastici ammiratori esterni – ad affossare definitivamente, bensì a salvare il socialismo sovietico. Nel febbraio dell’86 Gorbaciov aprì il XXVII Congresso del PCUS criticando con molta durezza la troppo lunga “era Breznev”, con ciò significando ch’essa si era chiusa per sempre; al tempo stesso, egli indirizzava alla volta degli USA una sfida epocale, quella dell’abolizione bilaterale e concordata di tutte le armi atomiche entro il 2000. Ma naturalmente il governo statunitense non aveva alcuna intenzione di disfarsi del suo formidabile arsenale, che anche in Italia aveva provocato la reazione del presidente Craxi e del suo ministro degli Esteri Andreotti, contrari a un impiantarsi di ordigni nucleari in Sicilia. Si preferì presentare la proposta di Gorbaciov come un immenso bluff: e perdere così un’occasione storica irripetibile, alla quale peraltro era stato forse ingenuamente utopistico guardare come a qualcosa di realizzabile.
Il disarmo era comunque uno dei grandi obiettivi politici, morali e propagandistici di Michail Gorbaciov, che trovò in ciò un naturale ma – viste le rispettive origini di ciascuno di loro – insperato ed energico alleato in Giovanni Paolo II: fra 1987 e 1989 Gorbaciov e Reagan trovarono un accordo relativo all’eliminazione dall’Europa dei missili di entrambe le parti. Ma il collasso del sistema sovietico impedì di procedere su quella strada.
Nel 1989 l’ultima reliquia dell’iniqua costruzione ideata sul Mar Nero, il Muro di Berlino, venne cancellata: frattanto, l’Europa era risorta ed era divenuta Unione Europea. Nonostante Yalta e contro Yalta. Quel che Schmitt andava lucidamente scorgendo allora – e descrivendo con parole che parrebbero quasi perfettamente attagliarsi ai giorni nostri – era, attraverso la notte della guerra, l’aurora del nuovo nomos che si sarebbe affermato nel 1945 per tramontare oltre mezzo secolo dopo, nel 1989, alla fine del “secolo breve”.
Questa sembrava, all’indomani del 9 novembre, e ancor più negli anni appena successivi, la prospettiva sul futuro, almeno quella più auspicabile. Forse aveva sul serio ragione Eric Hobsbawm: il XX secolo è stato davvero un “secolo breve”, finito con il disgregarsi dell’impero sovietico, simbolo del quale è stata la caduta del Muro. Lo festeggiammo un po’ tutti o quasi: Francis Fukuyama giunse a parlare di “fine della storia”, anche se poi si è ricreduto.
Tuttavia, la speranza da tanti riposta in un’Unione Europea che proprio in quel momento cresceva con la prospettiva (com’è avvenuto) di allargarsi all’est, è stata largamente tradita. Il 25 dicembre del 1991 il presidente Gorbaciov, contro il quale si era organizzato nell’agosto precedente un golpe risolto a vantaggio del suo diretto avversario Boris Eltsin, annunziava le sue dimissioni. La gloriosa bandiera dell’URSS veniva ammainata: nasceva, al posto della vecchia Unione, la Confederazione degli Stati Indipendenti (CSI) sotto l’egemonia d’una Federazione Russa a sua volta ridotta a potenza regionale.
Il colossale sistema di potere organizzato circa quarantacinque anni prima, dal “Patto di Varsavia” al COMECON fino alle lontane frontiere sudorientali dell’Asia, cadeva a pezzi nel giro di un paio d’anni lasciando dietro di sé confusione, insicurezza e un vuoto di potere nel quale si precipitavano i più incontrollati e avventuristici appetiti di lobbies internazionali in cerca di profitti, mentre si assisteva al risorgere di ambizioni e di passioni etniche ritenute ormai – a torto – da decenni morte e sepolte. L’epoca del controllo e del containment reciproco tra le due superpotenze era tramontata: chi aveva sperato che la fine della diarchia mondiale USA-URSS aprisse un periodo di pace e di prosperità fu costretto amaramente a ricredersi. Sintomaticamente, tra 1990 e 1992 l’ONU riuscì sì a metter fine alla guerra civile in Cambogia, ma non seppe risolvere la crisi irakeno-kuwaitiana se non con le armi e assisté impotente sia alla dissoluzione della Jugoslavia, sia alle ripetute repressioni del governo israeliano nei confronti dei palestinesi. Anzi, da lì cominciò, dopo quello avviato nel ’39, il nuovo Totentanz che dura ancora: prima crisi del Golfo nel 1991, macello nei Balcani, nuova Intifada, incalzare del terrorismo “islamista” (uso questo termine, seguendo l’indicazione di Gilles Kepel, per indicare quei gruppi dottrinari che si servono dell’Islam come di un’ideologia politica). Dopo la pubblicazione, da parte di Samuel Huntington, del suo “profetico” (in realtà programmatico) Clash of Civilizations, un gruppo d’intellettuali e di “consiglieri politici”, fra i quali abbondavano gli ex-trotzkisti, inviò nel 1997 all’allora presidente Clinton un documento, il PNAC (“Project for a New American Century”), nel quale si proponeva – neomarxianamente – di smetterla di contemplare il mondo e di cominciare a cambiarlo, naturalmente secondo i princìpi e gli interessi degli Stati Uniti. Il punto è che alcuni tra i firmatari di quel documento, al quale non pare che Clinton attribuisse grande importanza, divennero poi la punta di diamante del think tank del suo successore alla Casa Bianca.
All’inizio del nuovo millennio, poi, le cose sono ulteriormente peggiorate: l’attentato (dai contorni ancora dubbi) alle Torri Gemelle di New York, la guerra in Afghanistan e poi di nuovo quella in Iraq (entrambi i conflitti sostanzialmente non sono nemmeno conclusi), la destabilizzazione della Libia e della Siria, la nascita dell’ISIS-Daesh sono eventi che, mentre si gioiva per la caduta del Muro di Berlino, non avremmo mai immaginato. Le speranze riposte allora nella capacità dell’Europa di unirsi fra Est e Ovest sono vanificate: la politica aggressiva nei confronti della Russia sembra condurre a una sorta di neo-Guerra fredda mitigata solo dagli interessi economici che legano molti paesi europei alla potenza eurasiatica. A sua volta, l’Europa appare divisa al suo interno da interessi contrastanti, con il caso eclatante del Regno Unito e della Brexit ancora lontano dal risolversi in modo chiaro: ma, in generale, la fiducia nell’Europa unita sembra ormai minata in tanti paesi che pure l’avevano accolta con favore e speranza. Vero è che la Germania ormai unita è tornata a svolgere il ruolo di motore dell’economia, se non della politica, che le era stato proprio già in passato, e che se il Regno Unito dovesse davvero uscire dall’UE, non potrebbe che aumentare. Tuttavia, dinanzi a un mondo percorso dalle tensioni belliche, dalle politiche militari aggressive degli Stati Uniti, da nuovi equilibri che si vanno delineando – come il Patto di Shanghai fra Russia, Cina, Kazakistan, Kirghizistan, Tagikistan e Uzbekistan, Pakistan, India, forse tra un po’ Afghanistan e Mongolia: insomma, buona parte dell’Asia continentale –, è proprio il sentimento europeista che, all’indomani del 9 novembre 1989, aveva entusiasmato tanti fra noi a uscire sconfitto.
Quanto fin qui richiamato non è affatto il puro e semplice abrégé di eventi ben noti. La demolizione del maledetto muro che dal 1961 spezzava in due il cuore di Berlino e dell’Europa, quel commovente ed esaltante 9 novembre 1989, sembrava davvero aprire una nuova, decisiva e definitiva fase nella vita del continente e di quella Comunità Economica che il 1° novembre 1993, con l’entrata in vigore del trattato di Maastricht, era trasformata in Unione Europea. In meno di quattro anni, il cammino verso l’unità politica del continente sembrava finalmente aver imboccato la dirittura d’arrivo. Ma di quale “Unione” si stava parlando? Dov’erano le linee di un impianto costituente? D’accordo: una compagine politica può reggersi anche senza una costituzione, com’è dimostrato dai casi del Regno Unito e dello stato d’Israele. In tali contesti, però, un forte e coerente cammino storico avviato da tre secoli prima oppure un profondo legame linguistico-religioso sigillato dal sacrificio della shoah costituivano una garanzia fondante d’intenso valore. Nulla del genere esisteva nell’“Arcipelago Europa”, nonostante la lunga storia comune e il comune patrimonio di radici, di sofferenze, di auspici e di speranze.
Dalla metà degli anni Sessanta, il nostro gruppo di alcune centinaia di militanti di Jeune Europe, sparsi in tutto il continente, avevamo lavorato seguendo le linee di fondo ispirate da Jean Thiriart alla costruzione di un “nazionalismo sociale europeo”: ma ci eravamo gradualmente convinti che la storia policentrica e plurilinguistica del nostro continente, complicata dal processo di secolarizzazione e dalla crescita inarrestabile dell’individualismo, non avrebbe mai potuto condurre all’esito unitario e centralistico da Thiriart auspicato per la “Nazione Europea” ch’era la sostanza del suo sogno. Quella avviata da De Gasperi, da Adenauer e da Schuman – e che non era la stessa auspicata dal “Manifesto di Ventotene” – era stata una sia pur generosa “falsa partenza”. L’unità politica, sotto concreta forma federale o – più realisticamente – confederale, era ancora tutta da costruire. Tempo prezioso era andato perduto, sforzi formidabili erano stati sprecati: la fatica di Sisifo doveva cominciare di nuovo. Ogni europeo aveva e ha la sua Heimat, il suo cuore profondo fatto di miti, di memoria, di tradizioni; la storia delle nazioni – radicate nell’antichità e nel medioevo, ma sviluppate e articolate solo nel corso dell’età moderna – aveva fornito alcuni di loro (non tutti: esistono anche le “nazioni negate”, le “lingue tagliate”) di un Vaterland; il senso di “comunità di destino” emerso in lunghi secoli d’incontri e di scontri, di affinità e di differenze, e culminato nella “guerra dei Trent’Anni” 1914-1945 e nei reiterati esperimenti mai riusciti di costituzione di una “terza forza” alternativa alla convergente e complementare inimicizia-spartizione sovietico-statunitense degli anni della Guerra fredda, dovrebbe averci ormai insegnato che il comunitario riconoscerci in un Grossvaterland europeo, e quindi la costruzione di un “patriottismo europeo”, non sono ulteriormente dilazionabili. “Patriottismo europeo” come sentimento intimo da tradurre in valore civico: se non intendiamo arrenderci, è questa la sfida che ci aspetta. Ora che tutto è più difficile e che la mèta sembra essersi irrimediabilmente allontanata. Utopia? Tale non è l’irraggiungibile, l’irrealizzabile: è, semplicemente, il non raggiunto, il non realizzato.
Novembre 2021, in un mondo impaurito dal clima impazzito, dall’inquinamento che avanza, dalla foresta di armi nucleari che fioriscono dal Mediterraneo al Pacifico.