Minima Cardiniana 352/3

Domenica 14 novembre 2021, Avvento Ambrosiano

WAIND, VAIRUS E ALTRI MALDESTRI SERVILISMI LINGUISTICI
LUIGI G. DE ANNA
FORESTIERISMI
Il presidente dell’autorevolissima Accademia della Crusca, demandata a studiare e a preservare la lingua italiana, Claudio Marazzini, ha fatto notare come è inutile usare nei media l’anglicismo booster, dato che la nostra lingua ha un suo diretto equivalente: richiamo, di uso comune ed assestato.
L’intervento di Marazzini ha riproposto un problema divenuto acuto negli ultimi tempi: quello dell’uso smodato ed immotivato delle parole inglesi. Quando sfoglio l’edizione digitale di quello che una volta era il maestro della lingua giornalistica, il Corriere della Sera, resto colpito dal fatto che quasi non c’è titolo o notizia che non contenga un termine inglese, spesso a me ignoto. Mi chiedo perché si siano rotti gli argini del buono stile (e del buon senso). Da cinquanta anni insegno la lingua italiana all’estero, all’università abbiamo avuto spesso ospiti italiani, anche docenti di nome. E spesso mi sono dovuto meravigliare, restando talora alquanto imbarazzato, della povertà del loro inglese. Se dunque una persona di comunque alta cultura l’inglese lo mastica poco e male, mi posso immaginare quanto lo conoscano gli italiani medi e al di sotto della media. Gli svarioni dei politici hanno fatto sorridere chi conosce almeno un poco la lingua d’Albione, dal “waind” (per wind) del ministro Alfano al “vairus” di De Maio. Il primo problema sta proprio nella pronuncia: l’inglese non è una lingua che si pronunci come si scrive, quindi richiede una certa preparazione, la mancanza della quale si nota proprio nell’anglicizzazione dei latinismi, dal “midia” (pro media) appunto al “vairus” (pro virus). Certo, esiste perfino una autorevole tradizione, il “Caraibi” delle carte geografiche, pronuncia inglese del “Caribe” spagnolo, ma è un procedimento che ha avuto poco seguito.
Facciamo un passo indietro: la storia della lingua (non posso non ricordare il mio primo esame universitario, sostenuto proprio in questa materia con Bruno Migliorini, un maestro di lingua e di stile) ci insegna che i forestierismi, cioè le lingue di origine non autoctona, sono sempre esistiti. Le parole nascono, vivono, muoiono, proprio come chi le usa. Il latino si formò lessicalmente anche sulla base delle lingue italiche, assunse poi lemmi greci; trasformatosi in volgare suscitò appassionate discussioni su come si dovesse sviluppare (siamo appunto in tema di celebrazioni dantesche). Ad esso contribuirono il gotico, il provenzale, e perfino l’arabo. Lo spagnolo, ci ha insegnato Gian Luigi Beccaria (Tra Italia Spagna e Nuovo Mondo nell’età delle scoperte: viaggi di parole, in: Lettere italiane, 2, 1985) si diffuse lessicalmente tra il XVI e il XVII secolo. Fu poi la volta del francese, che riversò nella lingua italiana (sarebbe più corretto parlare però di “lingue italiane”) un nuovo patrimonio di lemmi, come ha studiato Andrea Dardi (Dalla provincia all’Europa. L’influsso del francese sull’italiano tra il 1650 e il 1715, Firenze 1992). Anche altre lingue geograficamente più marginali rispetto all’Italia, apportarono il loro contributo, ad esempio il russo (V. Orioles, Su alcune tipologie di russismi in italiano, Udine 1984). I viaggiatori, i mercanti, chi partiva per l’avventura o l’esplorazione extra-europea, riportavano in patria nuovi termini, i cosiddetti esotismi, di cui tratta nel suo bel libro Marco Mancini, L’esotismo nel lessico italiano, Viterbo 1992.
Come non citare, a questo proposito, il grande amore di generazioni di giovani italiani, quell’Emilio Salgari che ci fece conoscere i prahos (con l’anglicizzazione del plurale, ma questo non lo sospettavamo e lo usavamo anche al singolare), i kriss e gli jatagan. Salgari ricorreva a questi vocaboli, che trovava nelle riviste di viaggi che accuratamente studiava nelle biblioteche veronesi, in quanto trattava di ambienti e contesti extra-europei, spaziando dall’Asia, alle Americhe, e perfino all’Artico (mi si conceda una autocitazione riguardo a un mio studio: Gli articismi nelle opere di ambiente polare scritte da Emilio Salgari, Studi di lessicografia italiana, Accademia della Crusca, vol. XII, Firenze 1994).
Si trattava di esotismi, cioè parole che venivano da lingue lontane da quelle europee, ma anche di prestiti di necessità. Con questo termine si definisce il lessema che non si trova nella propria lingua, che introduce pari tempo un concetto nuovo, ad esempio karaoke del giapponese, oppure una specificità a noi estranea, come harakiri, per restare in ambito nipponico. “Nipponico” è peraltro un aggettivo da forestierismo adattato, altra categoria delle parole della xenolingua, come “magiaro” o il desueto “suomeno”.
Gli adattamenti erano la regola fondamentale che per secoli piegò il termine crudo alla lingua ricevente, e questo sia per ragioni fonologiche, sia perché per secoli le lingue non hanno ammesso i forestierismi integrali, se non per un uso ironico, o di elevazione sociale (si pensi appunto al francese settecentesco). Grazie a questa italianizzazione, non riconosciamo più l’origine straniera della parola che stiamo usando, essa si è acclimatata, modificata, radicata nella nuova forma, ma sempre per “necessità” (basta qui rimandare al classico P. Zolli, Le parole straniere, Bologna 1986).
Gli anglicismi integrali di oggi sembrano rientrare nella categoria del prestito di necessità, con cui indichiamo la cessione di un elemento straniero all’italiano, il quale è stato introdotto con un significato e un significante prima sconosciuto. Ma in realtà, come appunto ci ricorda Marazzini, non è così, perché di tanti di questi termini abbiamo un equivalente italiano.
Perché dunque li utilizziamo, o meglio, li utilizzano gli organi di stampa e di comunicazione (dubito che la mia mamma buon’anima mi avrebbe detto che andava a fare il booster)? Certo, l’invasione dei sistemi telematici, della telefonia digitale, ha comportato un afflusso inimmaginabile in altri tempi di novità tecniche che riguardano tutti noi. Agli inizi abbiamo cercato di resistere, e il computer nasce come cervello elettronico, ma a poco a poco “uccide” il suo equivalente italiano, sia per la semplicità del lemma, sia per la sua modernità e l’uso che se ne fa in altre lingue. Una parte di questi termini si adattano, avremo quindi il deletare e il resettare, ma una volta abbassate le difese non c’è stato linguisticamente scampo, e sono dilagate forme orribili come supportare divenuto oramai di uso comune al posto del nostro sostenere, ugualmente semplice e semanticamente pregnante.
È una moda? In parte, certo, c’è molto snobismo linguistico, il voler apparire “cosmopoliti”, ho viaggiato, conosco l’inglese, altro che voi… Ma questo procedimento in realtà riguarda solo l’inglese. Esiste quindi qualcosa di più profondo, di cui forse il parlante neppure si rende conto.
Questo è il “colonialismo linguistico” all’incontrario, e cioè non dall’Europa al mondo, ma dall’America all’Europa. L’influenza americana è dominante nella politica, nell’economia, nel modo di pensare che crea categorie assolute come “libertà”, “democrazia”, “diritti umani”, ma anche nella cultura, con l’invasione di mediocri prodotti cinematografici, di musica ossessionante, di modelli societari che non ci appartengono.
La lingua è costretta ad assorbire questa colonizzazione lessicale, che ci lega, col suo vertiginoso aumentare di anglicismi come appunto vedo nel Corriere della Sera, al modello americano. La parola diventa veicolo di un cripto-messaggio politico. Siamo parte, anche linguisticamente, del mondo occidentale, che è dominato dal modello USA, al quale dobbiamo per forza adeguarci.
Con un sorriso, l’antifascismo linguistico ha liquidato le proposte lessicali fatte dal Regime (ma chi le faceva era il fior fiore della nostra accademia). La “purezza” della lingua diventava un bastione di difesa nei confronti del mondo anglosassone o comunque estero. Il purismo è certamente una forma di nazionalismo, infatti lo troviamo anche in altre lingue, ad esempio nel francese (in Francia esistono regole che limitano l’uso di forestierismi riguardo alle insegne di negozi) o, per fare un esempio a me vicino, nel finlandese. Quando la Finlandia diventò indipendente, si accentuò la necessità di allontanarsi dalla Svezia, da cui linguisticamente aveva per secoli dipeso. Si fecero quindi innumerevoli calchi semantici, molti dei quali esistono ancora oggi, dal sähkösanoma (telegramma, da “messaggio elettrico”) al tietokone (computer, da “macchina della conoscenza”).
Certo, oggi non avremmo l’ardire di ordinare un arziente al quisibeve, anche se farebbe piacere al Salvini di Crozza, ma usiamo primato accanto a record e autista invece di chauffeur, come appunto i puristi degli Anni Trenta avevano suggerito.
Il difendersi dalla sopraffazione americana passa dunque anche dal lessico. La riscossa dell’Europa parte dalla riappropriazione del proprio lessico. Un’arma, come lo jatagan, formidabile nelle nostre mani, direbbe l’amato Salgari.