Minima Cardiniana 353/1

Domenica 21 novembre 2021, Cristo Re

EDITORIALE
NEL NOME E IN ONORE DEL CRISTO RE. PERCHÉ NON DOBBIAMO PIÙ DIRCI CRISTIANI (A MENO DI NON ESSERLO)
La data di oggi, che segna il chiudersi dell’anno liturgico in corso, acquista oggi un particolare significato in quanto cade in un momento di grande confusione. L’epidemia di covid, qualunque sia la sua gravità, ha masso a nudo un mondo di difetti, di carenze e d’ingiustizie non solo sociali.
Il mondo intero si sente minacciato. Ed è minacciato soprattutto e anzitutto quel che, in tempi di galoppante secolarizzazione, si può dire rimanga ancora superstite della Cristianità e del cristianesimo.
A minacciare entrambi non è soltanto l’ateismo pratico e il materialismo trionfale che ormai sembrano trionfare. Alla minaccia contribuisce anche qualcosa che sembrerebbe contrastarla e che invece lavora al suo fianco e in suo favore: la falsificazione della fede portata avanti da gruppi sempre più folti di cristiani che si presentano come intransigenti mentre portano avanti in realtà una caricaturale e nella sostanza blasfema forma di anticristianesimo.
L’osceno termine “cristianista” è stato coniato in analogia rispetto all’assolutamente corretto aggettivo francese “islamiste”, che indica la degenerazione “ideologica” dell’Islam – la quale tratta appunto l’Islam come un “-ismo”, un’ideologia – e che rende l’idea di quel che siano gli estremisti radicali del mondo musulmano molto meglio di quanto non faccia il goffo e usurato aggettivo “fondamentalista”, preso a prestito dal protestantesimo statunitense.
I “cristianisti” che denominano in tal modo se stessi, e che a quel che pare sono fieri e felici di esserlo, sono coloro che hanno scelto di difendere, anzi di rivendicare tutto quel che sembra loro l’esito della civiltà cristiana (e, almeno nei paesi prevalentemente, storicamente e formalmente cattolici, appunto “cattolica”) indipendentemente dall’adesione o meno alla fede cattolica. Sono quindi in pari o quanto meno analoga misura “cristianisti”, dalla stessa parte della barricata in quello ch’è attualmente (o quanto meno in quello ch’essi sostengono essere in atto, e che io credo essi auspichino divenga realtà e facciano quanto è in loro affinché realtà divenga) lo “scontro di civiltà”, personaggi dalla storia personale e dalle origini religiose, storiche, politiche e culturali ben diverse: tradizionalisti cattolici di varia origine (è divertente ma difficile orientarsi in un arcipelago settario e litigioso come il loro, solcato sovente da ostilità feroci che hanno origine formale in sottili questioni teologiche, canonistiche o liturgiche, ma che talvolta celano rivalità di più modesta e meno nobile motivazione); “tradizionalisti” di altra matrice (massonica, neopagana, eclettica…); ex adoratori del Dio Eridano frettolosamente convertiti al culto del crocifisso-appeso-dappertutto (meno che, naturalmente, a casa propria) e del rosario-avvolto-attorno-al-polso (ma è superfluo il recitarlo); cantori (spero per loro che siano almeno ben prezzolati) d’un bislacco catto-trumpismo incentrato sul “primato dell’Occidente” e sull’“antirelativismo” (non senza una desolante confusione tra relativismo etico e relativismo antropologico, che sono cose del tutto eterogenee); agnostici e anticlericali storici che adesso riscoprono la differenza tra “laici” e “laicisti” e se ne fanno strumentale bandiera politica; teocons (per motivi che i francofoni comprenderanno bene, preferisco scriverlo alla francese che all’inglese) che hanno abbracciato con entusiasmo il liberal-liberismo-libertarismo e amano teorizzare la differenza tra la Rivoluzione americana e quella francese opponendo liberal-liberismo a giacobinismo; liberal-liberisti-libertari conquistati repentinamente all’ondeggiar di vessilli e all’aroma d’incenso di un cattolicesimo da operetta presentato come duro-e-puro.
Seguo con attenzione le peripezie ginnico-sportive di questa bizzarra ed eterogenea ma non innocente e tanto meno disinteressata fauna: anche se negli ultimi tempi me ne sono un po’ stancato, dal momento che dal loro massmediaticamente ben foraggiato fronte non esce mai nulla che non sia desolatamente banale e prevedibile. Siccome ho difficoltà a immaginare che i loro leaders e i loro guru siano in buona fede – il che equivarrebbe a doversi arrendere alla realtà d’una loro completa e irreversibile idiozia –, mi vedo costretto a ritenerli disonesti: e quindi non ho loro nulla da dire, dal momento che con i disonesti è inutile discutere. Ma poiché non posso escludere che in buona fede siano alcuni loro seguaci, e che ciò non vuol necessariamente dire che siano dei totali imbecilli (la loro scelta di campo può ben essere stata motivata da più o meno complessi motivi: malinteso senso di fedeltà, carenza di senso critico, mancanza di preparazione, difetto di logica, giovanile entusiasmo, pregiudizi, faziosità), credo non inutile rivolgermi a loro per sottolineare due semplici cose.
Primo: contrariamente a quel che sosteneva don Benedetto Croce non solo è possibile, ma è anzi necessario e doveroso non dirsi cristiani se non si aderisce almeno a quanto stabilito dai concili di Nicea, Efeso e Calcedonia (secc. IV-V); il che automaticamente esclude dalla comunità cristiana gli agnostici e i laicisti che oggi pretendono di ergersi a difensori della “civiltà cristiana”. Sulla ridicola etichetta di “atei devoti” non ci soffermeremo nemmeno, perché c’è un limite a tutto.
Secondo: il cristianesimo è – in sé e soprattutto nella sua particolare forma della confessione cattolica – qualcosa di molto più complesso della semplice difesa non dico di una tradizione storica, che sarebbe già qualcosa, ma anche di questa o di quella posizione in ordine alla morale sessuale, o alla teologia della famiglia, o all’etica biologica: tutte cose di assoluta e primaria importanza, che tuttavia vanno composte nel contesto ben più ampio e profondo della fede cristiana e della sua pratica storicamente vissuta, vale a dire della religione distinta nelle differenti confessioni.
Sento sovente parlare di teologia e di liturgia in certi ambienti tradizionalisti che, avendo rapidamente dimenticato quel Sillabo di Pio IX che pure era stato per decenni una delle loro più orgogliose bandiere, esaltano oggi l’inedita convergenza tra cattolicesimo “forte” e liberismo. Non nego l’almeno settoriale competenza di alcuni di tali ambienti in questioni, appunto, teologiche o liturgiche. Mi chiedo soltanto se non si sia per caso dimenticato che, alla fine dei tempi, il Signore non ci chiederà quanta teologia conosciamo o quanto correttamente abbiamo praticato la vita liturgica, bensì – semplicemente – se abbiamo o no provveduto a visitarLo quand’era infermo o carcerato, a soccorrerLo quand’era nudo e affamato, a sostenerLo quand’era povero e solo. Sta scritto: “Così dice il Signore: – non molesterai il forestiero né l’opprimerai, perché voi siete stati forestieri nel paese d’Egitto. Non maltratterai la vedova o l’orfano… Altrimenti, quando invocheranno da me l’aiuto, Io ascolterò il loro grido, perché Io sono pietoso” (Esodo, 22, 20-26); e il Vangelo secondo Matteo, 23, 34-40, richiamando a quel che il Cristo indica come il più grande comandamento della Legge (“Amerai il Signore Dio tuo con tutto il cuore, con tutta la tua anima e tutta la tua mente… Amerai il prossimo tuo come te stesso”), obbliga a chiederci chi sia oggi il nostro prossimo. Rilevo una sconcertante carenza esegetica, a questo riguardo, nella pur rigogliosa stampa catto-tradizionalista. Ma, pur dolendomi per il fatto ch’essi poco mi soccorrano nella mia ricerca, debbo pur proseguirla: e mi sembra di capire che ormai, dopo mezzo millennio di globalizzazione, il mio prossimo (che non coincide per nulla sic et sempliciter con l’umanità: l’umanitarismo è un maleolente ed equivoco succedaneo laicista e agnostico della carità) sia rappresentato essenzialmente dagli “Ultimi della Terra” di oggi, quelli dell’ex terzo e quarto mondo. Poiché manca del tutto di questo tipo di coscienza e di sensibilità, mi pare che il cattolicesimo dei cattolici tradizionalisti-“cristianisti” si riduca – a parte le battaglie contro l’aborto, il divorzio e l’eutanasia, che sono legittime e sacrosante, ma non possono certo esaurire il senso della cattolicità – a una difesa e a un’esaltazione esteriore e formalistica non tanto della fede quanto della Chiesa nelle sue istituzioni, nei suoi dogmi e nella sua autorità, senza tener conto del fatto che quelle istituzioni, quei dogmi e quell’autorità sono stati fondati per sostenere la Parola di Dio appunto sintetizzata in Matteo 23, 34-40. Il sabato è stato fatto per l’uomo, non l’uomo per il sabato, è stato detto; la teologia e la liturgia sono state fatte per il cattolico, non il cattolico per la teologia e la liturgia, potremmo aggiungere. Sarebbe forse il caso di tacciare i cattolici tradizionalisti-“cristianisti” di fariseismo: ma io non me la sento perché nutro, da quel giudaizzante che altro non sono, un rispetto profondo nei confronti dei farisei.
Va da sé che fra i “cristianisti” alligna profondamente un antibergoglismo viscerale che sarebbe ridicolo se non sconfinasse troppo spesso nella bestemmia e nell’apostasia. La critica nei confronti degli atti e delle parole del papa quando non agisce ex cathedra è legittima: ma l’offesa e il dileggio nei confronti del Vicario del Cristo sulla terra non sono tollerabili. Chi agisce così è un apostata e tale va considerato.
Ciò non toglie che tra queste persone vi siano amici anche carissimi, che non rinnego affatto e che del resto non sta a me il giudicare. Spero e prego che si correggano, ma mi guardo bene dal condannare chiunque. Si può ben restare amici di un apostata, ci mancherebbe; ma ciò non ci esime dalla consapevolezza di quel che è e che fa. Se tra loro qualcuno giudica opportuno rompere l’amicizia nei miei confronti, è una scelta sua, non mia: e non mi riguarda affatto.
Quando esprimo pareri del genere, che mi paiono del tutto normali, provoco spesso stupore. Mi è stato chiesto spesso, negli ultimi tempi, da che parte io stia: in particolare, se mi consideri “ancora” di destra, o sia “diventato” di sinistra. Una volta, durante un dibattito, una interlocutrice mi ha chiesto alquanto indispettita se io fossi “un fascista o un comunista”; le ho replicato, con la massima cortesia: “Gentile signora, faccia Lei”. Scherzi a parte (anche se la mia risposta non era affatto uno scherzo), ribadisco qui una volta sola e per tutte: se volete far la storia del mio iter, accomodatevi pure. Da me non avrete né un segno di reticenza, né un no comment, né un’indignazione a comando. Ho raccolto in ben sei libri (L’intellettuale disorganico, Scheletri nell’armadio, Testimone a Coblenza, La fatica della libertà, Ritorno a Coblenza, Gesù, la falce, il martello) gli scritti che chiariscono di che pasta sia fatto: se v’interessano, accomodatevi. Non ho nulla da rinnegare, nulla di cui vergognarmi. Se volete un mio giudizio sulla “destra” e la “sinistra” contemporanee, vi dirò che le parole pesano come pietre, ma solo quando sono parole vere, non disarticolati fonemi pronunziati con interesse demagogico: e se oggi il senso di quelle due parole è andato scivolando e perdendosi, e ha mutato profondamente di segno, la colpa non è mia: sono i significati dei termini che si sono spostati, non io. Io continuo a credere in ciò in cui ho sempre creduto. Essenzialmente, cioè, che sia possibile e comunque doveroso tentar di coniugare Libertà e Giustizia.
Ma che cos’è Libertà? Che cos’è Giustizia? Non m’illudo di saperlo in senso assoluto e totale. Credo umilmente di averne intravisto qualche tratto e di aver sentito prepotente il bisogno di conformarmi ad esso. Sentite come.
Anni fa, durante uno stage in Scozia, fui ospite con alcuni colleghi per un week end in un bel castello non lontano dal Loch Ness. Il padrone di casa ci condusse naturalmente in giro per le stanze in modo da consentirci di ammirare le vecchie glorie della sua famiglia. C’era tutto: perfino il fantasma, anche se in quell’occasione non si fece sentire.
Arrivammo così in una lunga sala, dinanzi a un bel quadro in una cornice dell’Ottocento. Era un grande ritratto che rappresentava, con straordinario realismo, una splendida signora dagli occhi verdi e dai capelli tra l’oro e il rame, abbigliata con la veste e l’ampio mantello nero del Saint John Order, l’equivalente anglicano dell’Ordine di Malta. La bisnonna del Lord locale, com’egli stesso ci disse: ne andava fiero. E ne aveva ragione. Sua Grazia Lady Ann Margareth era andata in India, negli anni Ottanta del XIX secolo, a curare i lebbrosi: e ci era morta, colpita dalla medesima malattia.
Il bisnipote di Sua Grazia raccontava commosso di come i poveri indigeni di Lahore baciassero quelle mani nobilissime e benedette piagate dai segni del martirio. Davvero un’eroina, Lady Ann Margareth: sono convinto che Dio l’abbia benedetta accogliendola nella schiera dei Suoi santi.
Eppure, i lebbrosi indiani di oggi non le avrebbero forse tributato altrettanta gratitudine. E avrebbero fatto male: essa ne aveva ogni diritto. Ma è così che va il mondo: e il mondo cambia. Milady lasciò il suo castello e il suo patrimonio per amor dei diseredati. Anche oggi molti lo fanno, e sia reso loro onore: sono dei santi e degli eroi, come Teresa di Calcutta.
Ma ai tempi di Lady Ann Margareth i disgraziati che alcuni eroici europei andavano a soccorrere, magari a costo delle loro stesse vite, non avevano neppur lontanamente idea di quanto la vita del nostro Occidente fosse distante dalla loro; né sapevano che i nostri immensi vantaggi riposavano e riposano, in gran parte, sul fatto che per secoli noi li abbiamo sfruttati; che abbiamo rubato loro (o acquistato sottocosto) materie prime e forza-lavoro per poi rivender loro prodotti finiti ai prezzi che volevamo noi; che abbiamo seminato guerre e carestie nei loro paesi perché questo ci avvantaggiava. Ora lo sanno: ed è per questo che ci amano meno, che sono meno disposti a baciarci le mani. Anche a quanti di noi (e sono molti) lo meriterebbero.
Badate, questo non è il piagnisteo del solito pacifista. Io sono piuttosto guerrafondaio: e per giunta fiero di essere occidentale. Ma ciò non m’impedisce affatto di aver profonda coscienza di appartenere a una civiltà di pirati e di negrieri, oltre che di santi e di eroi; e di aver piena consapevolezza del fatto che il nostro benessere deriva dagli avi del primo tipo, non da quelli del secondo. Le responsabilità del colonialismo, i frutti del quale sono ancor oggi alla base della nostra superiorità socioeconomica (e della loro miseria, della loro arretratezza, sovente anche della loro schiavitù perché noi sosteniamo i regimi tirannici dell’ex terzo e quarto mondo quando ci fanno comodo: faccio un esempio tipico di oggi, la Guinea Equatoriale), sono ormai dinanzi non solo ai nostri occhi, ma anche ai loro. Lady Ann Margareth sapeva bene tutto questo, i suoi lebbrosi indiani no; ma ora tutti sappiamo tutto, compresi i miserabili che dall’America latina all’Asia all’Africa e perfino all’interno dell’Australia muoiono di fame, di mancanza di cure, di aids, di Covid e d’altro, ma che dispongono di paraboliche e vedono come viviamo e come sprechiamo.
E allora, ormai non ci sono più scuse. È la campagna dell’ONU No Excuse 2015, già avviata fin dal 2002 e molto arretrata nei suoi scopi. Che comunque sono e restano ancor oggi gli otto di venti e di sei anni fa: eliminare la povertà esterna, la fame e la sete; raggiungere l’istruzione elementare universale; promuovere la parità della donna; diminuire la mortalità infantile; migliorare la salute materna; combattere aids, malaria e tutte le malattie ad alta pericolosità infettiva; assicurare la sostenibilità ambientale; sviluppare la collaborazione globale per la difesa della vivibilità del mondo e della dignità umana.
Questi non sono traguardi di libertà e di uguaglianza, ma qualcosa di molto più profondo ed essenziale: sono traguardi di dignità. È la dignità che costituisce la base di un’autentica e non retorica libertà, che sia non solo “libertà di” (parola, pensiero, proprietà ecc.), ma anche e anzitutto “libertà da” (dalla fame, dalla miseria, dal bisogno, dalla paura, dalla violenza, dallo sfruttamento). I quattro quinti del mondo, cioè quasi cinque miliardi di persone, non dispongono di questa piena “libertà da” e non hanno più voglia di aspettare, hanno perso la pazienza. È la dignità che costituisce la base di un’autentica e non astratta uguaglianza: un’uguaglianza possibile e concreta, dal momento che quella assoluta e perfetta non esiste e se esistesse sarebbe orribile. Non l’“uguaglianza dinanzi alla legge”, ch’è una ridicola beffa quando non sia accompagnata da altre forme di uguaglianza. Ma appunto, e semplicemente, uguaglianza o almeno equità nelle opportunità, nelle condizioni di base. Condizioni dignitose, cioè degne di esseri umani. La disuguaglianza all’arrivo di un processo di civilizzazione non mi spaventa, né mi preoccupa, né mi scandalizza. Sono un reazionario: Vive la difference! è quella di base, quella di partenza, che è un’infamia da cancellare. Non chiedo livellamento. Chiedo un minimo di dignità minima per tutti. Una dignità possibile e sostenibile. Come canta la vecchia canzone castrista in onore di Ho-Chi-Minh: “Porqué la dignidad del hombre es – más alta que el pan, – más alta que la gloria, – más alta que la propria supervivencia”.
Questa sarà la vera, unica e sacrosanta battaglia del XXI secolo. Se la vinceremo, l’avremo vinta tutti: noi occidentali riducendo per forza e senza dubbio (di ciò bisogna esser e ben consapevoli) il nostro benessere e i nostri privilegi, abbassando forse decisamente il nostro tenore medio e la nostra media qualità della vita, ma in cambio guadagnando in sicurezza perché non saremo più minacciati dal loro sentimento di frustrazione e di rivalsa che sta alla base del terrorismo e che è fame e sete di giustizia negata per secoli; gli altri accettando una crescita e un miglioramento ragionevolmente graduali e in cambio rinunziando al risentimento e all’aggressività. Perché il terrorismo nasce da questa profonda ingiustizia: e chi lo nega sta soltanto facendo (lo sappia o no) il gioco dei privilegiati, quindi della discordia, quindi della sua stessa fine; sta lavorando alle tragedie future, che si abbatteranno senza dubbio sull’umanità intera se un minimo di giustizia non sarà instaurata. Ormai, non abbiamo più scuse. Non possiamo più dire né che non sapevamo, né che non credevamo che gli altri sapessero.
Questa, oggi, è la mia battaglia. Tutto il resto è un equivoco che non m’interessa. E credo fermamente che il primato sostanziale di questa battaglia, il suo senso intimo, sia metafisico e metastorico, non storico né politico.
Franco Cardini