Domenica 21 novembre 2021, Cristo Re
IN MEMORIAM
Ricevo adesso la notizia della morte, avvenuta l’altro ieri, del professor Leandro Perini, fiorentino, ottantaquattrenne. Ordinario di storia moderna nell’Università di Firenze, Leandro (per noi amici, “Lallo”) era un amico caro e dolcissimo: lo ricordiamo tutti con quel suo passo da sempre zoppicante, la borsa di cuoio piena di carte e di libri, l’eterno impermeabile nella cattiva stagione. Era stato fra noi e con noi nelle giornate gloriose del 1961, durante un’occupazione delle facoltà universitarie che fu quasi una primizia del Sessantotto e che noi tutti vivemmo con gioiosa, goliardica (e per nulla violenta) serietà. Più tardi, compagni di studio – Leandro era uno dei migliori allievi di Cantimori – e quindi colleghi di facoltà, ci ritrovammo spesso con altri amici alcuni dei quali ci hanno purtroppo prematuramente lasciato: ricordo Giovanni e Riccardo Francovich, Nicoletta Francovich Onesti, Renzo Pecchioli, Litta Medri, Giovanni Cherubini.
“Lallo” fu anche il Maestro (amatissimo) di mia figlia Anna Maria, che seppe guidare splendidamente accompagnandola alla laurea con una tesi sull’epistolario di madame de Sévigné, arguta e loquace signora epistolografa dell’età del Re Sole oltre che titolare eponima di alcuni fra i migliori cioccolatini di Parigi. Non so quanto piacere gli abbia fatto Anna Maria confondendo una volta, a lezione, l’effigie venerabile dell’imperatore Carlo V con un ritratto di Totò: ma “Lallo” sapeva sorridere di queste cose.
Il 20 novembre m’induce invece a ricordare come quel giorno sia, singolare coincidenza, il medesimo della dipartita di due personaggi storici di differente portata, e “Lallo” – severamente e coerentemente comunista – mi perdonerà se il calendario mi costringe a ricordarli insieme con lui, giacché si tratta di appartenenti a una parte ben “altra” rispetto alla sua. Si tratta di José Antonio Primo de Rivera e di Francisco Franco y Bahamonde, venuti a mancare tutti un 20 novembre, rispettivamente del 1936 e del 1975. Forse qualcuno ricorderà in particolare la vicenda della lunga agonia e quindi della fine, dopo una serie di operazioni chirurgiche, del “generalissimo” Franco. S’incrociarono in quel fine novembre ’75 molte notizie e moltissime voci al riguardo: si disse che i medici avessero impietosamente fatto per ordini superiori l’impossibile per mantenerlo in vita, tanto incerta e pericolosa appariva la situazione spagnola s’egli fosse venuto a mancare; e che addirittura la sua data di morte, in effetti di qualche giorno precedente, fosse stata tenuta nascosta al fine di farla simbolicamente coincidere con quella del Ausente (l’“Assente”), il fondatore della Falange: anche se a suo tempo su Franco era caduto il sospetto di non aver fatto nulla per salvare la vita di José Antonio, che avrebbe potuto essere oggetto di uno scambio di prigionieri, e anzi di essere almeno indirettamente stato complice della sua fine. Non credo che su tutto ciò sia mai stata fatta piena chiarezza.
A proposito di Primo de Rivera, è il caso di leggere una nota di Amerino Griffini che lo presenta con misurata e serena erudizione.
20 novembre 1939. Nel terzo anniversario della fucilazione di José Antonio Primo de Rivera, il corpo del fondatore e capo della Falange Española inizia un lungo viaggio da Alicante all’Escorial di Madrid.
Trasportato a spalla dai falangisti in camicia azzurra, in una bara avvolta nella bandiera rossa e nera del movimento, percorre il tragitto dei 480 chilometri che separano il luogo della sua fucilazione dalla cripta del Monasterio di El Escorial, il Pantheon spagnolo.
I falangisti marciano giorno e notte, al fuoco delle fiaccole, al rullo dei tamburi, al suono delle campane dei paesi che il corteo attraversa, tra folle che cantano “Cara al Sol” e intonano canti gregoriani alzando il braccio nel saluto fascista.
Ad accoglierlo all’Escorial assieme alle personalità del nuovo Governo e agli ambasciatori dei Paesi stranieri, ci sono i rappresentati dei movimenti “fascisti” d’Europa e le superstiti camisas viejas, quelli della Falange originaria, il gruppo che nelle elezioni del febbraio del 1936 aveva raccolto in tutta la Spagna solo cinquantamila voti (secondo lo storico Stanley Payne gli iscritti nel febbraio 1936 erano 5-8mila, la maggior parte studenti) e che all’inizio della guerra civile, cinque mesi dopo, contava 126.000 militanti della Primera Linea (il 60% della quale era caduto durante la guerra) in rappresentanza in quel 1939 di un numero di aderenti cresciuto fino a contare oltre due milioni di persone (580mila delle quali donne della Sección Femenina).
Secondo lo storico Hugh Thomas “nessun partito ha subito una ecatombe comparabile a quello della Falange” e contemporaneamente, alla fine della guerra, “nessun partito era cresciuto così rapidamente come la Falange”.
José Antonio era stato fucilato nel carcere di Alicante il 20 novembre 1936, quattro mesi dopo l’inizio della guerra civile. Vi si trovava da prima del sollevamento franchista ed era l’unico membro della Junta Política ancora in vita.
Nei primi mesi di guerra, infatti, l’intero nucleo dirigente della Falange era scomparso, ucciso, quasi tutti giovani neppure trentenni: a luglio Onesimo Redondo, l’intellettuale fondatore delle JONS (le Juntas de Ofensiva Nacional-Sindicalista) era caduto in un’imboscata mentre alla testa di un gruppo di falangisti si stava dirigendo verso l’Alto de Léon.
Il 23 agosto 1936 una folla guidata da miliziani comunisti aveva invaso la prigione Modelo di Madrid e assassinato 70 detenuti politici (dei circa 3.000 politici che si trovavano nel carcere), tra essi Fernando Primo de Rivera (fratello di José Antonio arrestato il 13 luglio) e il membro della Junta Politica, Julio Ruiz de Alda (trasvolatore oceanico e creatore della struttura organizzativa della Falange, in carcere da marzo).
Ai primi di novembre era stato ucciso anche Alejandro Salazar, il Segretario del SEU, il sindacato universitario falangista che aveva assunto anche la direzione della Falange essendo rimasto l’unico membro della Junta Política ancora in libertà.
A dimostrazione del ruolo svolto dai comunisti nella Guerra civile spagnola, impegnati ad eliminare anche gente di Sinistra come gli anarchici, la loro determinazione la si vide chiaramente anche nell’assalto al Carcere Modelo di Madrid; infatti nella strage oltre ai falangisti furono uccisi anche dirigenti politici di Centro e di Sinistra, deputati, senatori ed ex ministri che erano stati imprigionati dopo l’Alzamiento.
Tra questi anche José Maria Albiñana (membro dell’Academia Real, docente universitario e fondatore del Partido Nacionalista Español); Melquíades Álvarez, giurista repubblicano e fondatore del Partido Reformista; José Martínez de Velasco, deputato alle Cortes per il Partido Liberal Demócrata, ex ministro nel Governo repubblicano di Lerroux e sindaco di Madrid nel 1934; Ramón Álvarez-Valdés, deputato riformista ed ex ministro della Repubblica; Manuel Rico Avello, anch’egli ex ministro e deputato della Agrupación al Servicio de la República.
Qualche ora dopo la strage, il capo del PSOE (il potente Partito socialista spagnolo), Idalencio Prieto, ebbe a dire: “Questa notte abbiamo perduto la guerra”.
Ma la mattanza continuò; un “tribunale del popolo” condannò a morte tre ex ministri del Partito Radicale: Salazar Alonso, Abad Conde e Rafael Guerra del Rio, accusati senza prove di aver favorito il sollevamento.
I falangisti, minoranza attiva difficilmente inquadrabile secondo le convenzionali classificazioni (Destra, Sinistra, Centro) anche per la provenienza politica di molti dei suoi dirigenti non certo accusabili di essere “reazionari”, furono tra i più interessati alle “attenzioni” eliminatorie del Partito Comunista che non poteva certo aver gradito il flusso di compagni verso il movimento falangista: ex dirigenti giovanili del Partito Comunista Español come José Miguel Guitarte, Enrique Quesada, José Garcia Vara o addirittura uno dei maggiori dirigenti della gioventù comunista come Montero Diaz che dal marxismo rivoluzionario era passato al falangismo; o Manuel Mateo (ucciso nel 1936) che era stato membro del Comitato Centrale del PCE, responsabile dell’organizzazione del partito e Segretario di Madrid dello stesso. E da varie correnti della Sinistra provenivano anche altri dirigenti falangisti come il giovane professore Garcìa Valdecasas; ex dirigenti della CNT (la Confederación Nacional del Trabajo, la grande organizzazione dei sindacati anarchici) erano stati Nicasio Alvarez de Sotomayor, Guillen Salaya, Olalla, Pascual Llorente; dalle fila del trotzkismo proveniva Carlos Rivas Villar; altri dal sindacalismo-rivoluzionario…
Anche gli intellettuali pagarono un pesante tributo di sangue in quei primi mesi.
Mentre nella zona “nazionale” la Guardia Civil uccideva il poeta Federico Garcia Lorca che si era rifugiato a Granada nell’abitazione di uno dei suoi migliori amici, il poeta falangista Luis Rosales, nella zona repubblicana furono uccisi il trentenne filosofo Ramiro Ledesma Ramos, ideologo della Falange; il poeta esponente della Generazione del ‘98, Ramiro de Maeztu Whitney; il saggista tradizionalista della rivista “Acción Española” Victor Pradera, assassinato assieme al figlio… tanto per citarne solo alcuni dal lunghissimo elenco.
È un fatto che la Falange nel sanguinoso autunno del 1936 era ormai decapitata. Senza più alcuna personalità nazionale. Senza dirigenti nazionali in grado di dare ordini ai militanti, con soli dirigenti locali, spesso giovanissimi, spesso costretti a prendere decisioni politiche e ideologiche importanti.
Si riunì d’urgenza a Valladolid una sorta di congresso di capi territoriali e locali che elessero un Consiglio Nazionale Esecutivo provvisorio guidato da Manuel Hedilla (un operaio che alla fine dalla guerra sarà condannato a morte da Francisco Franco – pena poi commutata nell’ergastolo – per aver rifiutato di sciogliere la Falange fondendola nel franchista Movimiento nacional; sorte analoga ebbero i carlisti con il loro capo Fal Condè costretto a rifugiarsi in Portogallo).
Il 19 luglio un commando di 50 giovani falangisti cercò di raggiungere Alicante per liberare José Antonio ma intercettato fu catturato (tutti furono poi fucilati il 12 settembre).
Data la personalità e la notorietà anche internazionale di José Antonio, una sua esecuzione sommaria sarebbe stata abbastanza improbabile, infatti fu sottoposto ad un processo farsa la cui sentenza era già scritta, nel quale fu accusato di aver partecipato all’Alzamiento.
Nella sua autodifesa, José Antonio sostenne che il movimento non si situava né a Destra né a Sinistra e che la dimostrazione lampante della sua estraneità al colpo di Stato stava nel fatto che i militari che ad Alicante parteciparono al complotto non avevano fatto niente per tentare di liberarlo.
La sentenza fu di condanna a morte per José Antonio; 30 anni di reclusione per suo fratello Miguel e 6 per la moglie di quest’ultimo, Margarita Larios.
Ci fu una mobilitazione internazionale per tentare di salvare la vita del capo falangista; si mosse il Presidente della Repubblica Argentina, perfino il Foreign Office con l’ambasciatore britannico, su richiesta di Lady Asquith, figlia dell’ex primo ministro inglese, amica e ammiratrice del giovane leader spagnolo; una richiesta di grazia partì anche dal Governo francese guidato da Léon Blum – uno dei dirigenti dell’Internazionale socialista – tramite il ministro degli Esteri.
Tutto fu inutile, all’alba del 20 novembre 1936 José Antonio Primo de Rivera fu fucilato davanti ad un muro nel cortile della prigione di Alicante assieme ad altri quattro giovani (due falangisti, Ezequiel Mira Iniesta e Luis Segura Baus, e due réquétés carlisti, Vicente Munoz e Luis Lopez).
José Antonio poté confessarsi con don José Planelle, sacerdote che sarà fucilato a sua volta assieme ad altri 52 prigionieri dopo qualche giorno; poi, dopo aver incoraggiato i suoi compagni di martirio gridò “Arriba Espana!” e cadde assieme a loro.
Tutti furono sepolti in una fossa comune.
Da quel momento per i falangisti José Antonio sarà “el Ausente” (l’assente) e chiara sarà anche la loro scelta di campo nella guerra civile anche se spesso da parte dei franchisti furono guardati con sospetto, spesso chiamati “FAI-langistas” (per i rapporti che c’erano stati tra falangisti ed anarchici della FAI) o anche… “i nostri rossi”.
Ai primi di aprile del 1939, all’indomani della vittoria dei “nazionali” nella Guerra civile, il corpo di José Antonio era stato disseppellito alla presenza del fratello Miguel. Il cadavere era intatto.
Avvolto nella bandiera della Falange, era stato nuovamente tumulato provvisoriamente in attesa del lungo viaggio verso l’Escorial, con il quale ho iniziato questo ricordo.
Ma in questa data del 20 novembre (del 1936) mi va di ricordare anche l’uccisione di uno dei capi delle milizie anarchiche, Buenaventura Durruti, da poco arrivato sul fronte di guerra di Madrid alla testa di una colonna di anarchici della CNT formata da 4.000 miliziani.
La sua morte è ancora misteriosa; una delle versioni semi-ufficiali la attribuisce ad una pallottola vagante sparata dalla Città Universitaria, un’altra addirittura ad una raffica partita dal suo mitra mentre stava scendendo dall’auto. Ma l’ipotesi più probabile è che sia stato eliminato da comunisti italiani, esperti in queste operazioni di killeraggio non solo contro anarchici spagnoli e di altri Paesi, ma anche nell’eliminazione di italiani come lo scrittore anarchico Camillo Berneri e Francesco Barbieri.
In quel funesto 20 novembre con la morte del combattente e leader anarchico Buenaventura Durruti si concludeva anche la vicenda tragica della famiglia Durruti; pochi mesi prima, infatti, il 23 agosto nella strage dei prigionieri del carcere Modelo di Madrid era stato eliminato anche il falangista Pedro Durruti, fratello di Buenaventura i cui funerali restano memorabili come quelli di José Antonio Primo de Rivera.
Per tutta la giornata un corteo anarchico percorse le strade di Barcellona e a sera – scrive Hugh Thomas nella sua monumentale “Storia della guerra civile spagnola” (Einaudi, Torino, 1963) – “una folla valutata a 200.000 persone giurò di restare fedele ai principi del morto. Ma la morte di Durruti segnò la fine dell’epoca d’oro dell’anarchismo spagnolo. Un poeta anarchico proclamò che il nobile esempio di Durruti avrebbe fatto nascere una ‘legione di nuovi Durruti’; ma si sbagliava”.
Amerino Griffini