Domenica 21 novembre 2021, Cristo Re
LIBRI LIBRI LIBRI
L’INFINITA NOTTE DEGLI SPETTRI
Mario Bernardi Guardi, La morte addosso. Polidori, Byron, Mary Shelley e altri vampiri, Firenze, Mauro Pagliai Editore, 2021, pp. 142, euri 14,00
Un romanzo che non ti aspetti. Perché è proprio in forma di romanzo che Mario Bernardi Guardi ricostruisce la famosa “notte degli spettri” a Villa Diodati, sul lago di Ginevra, del lontano 1816, l’anno senza estate. Geniale l’intreccio narrativo che ci racconta “la morte addosso” attraverso le stesse parole dei protagonisti, in bilico tra realtà e finzione, tra novel e romance, ovvero le due diverse – e, potremmo dire, opposte – prospettive del tradizionale impianto romanzesco. Bernardi Guardi utilizza la forma epistolare, le testimonianze e i diari che imprimono su carta un momento unico della storia della letteratura, tra le luci opache, le ombre e un tragico finale “premonitore”: la morte di John William Polidori, segretario e medico personale di George Gordon Lord Byron e autore de Il vampiro, precursore diretto del ben più fortunato Dracula di Bram Stoker, che all’invenzione letteraria di Polidori deve più di qualcosa.
John William era il figlio maggiore di Gaetano Polidori, un letterato italiano originario di Bientina, in provincia di Pisa, presso il cui archivio l’autore ha potuto reperire notizie e documenti di prima mano. Gaetano era stato il segretario personale di Vittorio Alfieri, le cui referenze gli erano state utili per trasferirsi nella capitale inglese e lavorare come insegnante di italiano. Ma Gaetano fu anche tipografo e traduttore: a lui, infatti, si deve la versione in lingua italiana del primo romanzo gotico della storia, Il castello di Otranto di Horace Walpole, un’opera del 1764.
Il libro si apre con una nota sul registro del St. Richard Police Station e con una testimonianza dello stesso Gaetano Polidori, che non sa darsi pace – né una spiegazione plausibile – in merito alla morte del figlio John William, suicidatosi ad appena 26 anni, il 24 agosto 1821. Anche se il mistero e le cause – ne è sicuro – sono da rintracciare in quei giorni, in particolare in quella notte del 16 giugno 1816, durante la quale, un po’ per soffocare la noia, un po’ per sfidare la sorte e un po’ per allontanare l’incubo della morte, i “presenti” a Villa Diodati decisero di scommettere su chi avrebbe scritto la più originale storia di mostri e spettri. “Tutti misero sulla carta il loro incubo, nessuno ebbe la palma della vittoria” si legge nelle ultime pagine “scritte” dallo stesso John William e acquistate da Mr. Jason Pierce su una bancarella di libri usati a Piccadilly Circus il 27 aprile 2019: un altro straordinario (e classico) artificio letterario, quello del “manoscritto perduto e ritrovato” che ci mostra la grande familiarità dell’autore con gli espedienti narrativi.
C’è il “gotico” in questa storia di fantasmi, di ebbri d’amore e di estrema dissolutezza. Ci sono tutti gli ingredienti del romanzo “classico” dell’epoca (la forma epistolare in primis), che ci riportano alle prime testimonianze del genere settecentesco (la Pamela di Samuel Richardson, per esempio). Nulla è lasciato al caso, tutto alla fine si interseca perfettamente come le tessere di un mosaico da dirimere sotto la lente del presente. Un gioco di luci, di epoche e generi letterari, di attuali fisionomie etiche e sociali. A partire dai due “mostri” che quella notte vedono la luce. Ma facciamo un passo indietro.
Il 1816 (ma tutto era iniziato l’anno prima) è ricordato come l’anno senza estate. “Perché in quell’estate faceva dannatamente freddo”, scrive John William con la penna di Bernardi Guardi. “Infatti, l’anno prima, nell’isola di Sumbawa, in Indonesia, il vulcano Tambora aveva eruttato violentemente, proiettando in aria miliardi di metri cubi di roccia, cenere e altri materiali. Un denso velo di polvere aveva schermato i raggi solari, abbassando violentemente le temperature. Un anno freddissimo il 1815 – il più freddo da secoli e secoli, scrissero nelle gazzette – ma il 1816 non era da meno. Così ce ne stavamo tutti infagottati in lunghi pastrani. E con tanti medicamenti a portata di mano. E neppure bastava”.
A Villa Diodati, dove la “sfida” ebbe luogo, erano presenti, oltre a Byron e al suo medico/segretario Polidori, Percy Bysshe Shelley, la sua futura moglie Mary Wollstonecraft Godwin e la sorellastra di lei, Claire Clairmont. La “scommessa” letteraria lambiva le schermaglie amorose tra i presenti, cadenzate da notti dissolute, intrecci incestuosi e promiscui nel cui vortice tutti – nessuno escluso – erano coinvolti. La regia di tanta trasgressione – non è difficile immaginarlo – traduceva in amplesso i sensi turbati di Lord Byron, angustiato dalla fama di “libertino” e ormai quasi esule in patria. I suoi viaggi nell’oscura notte dell’anima non riflettevano il percorso di San Giovanni della Croce, ma alimentavano, al contrario, il perpetuo senso di ribellione e smania di eccesso e di successo: la “malattia degli artisti”, l’hanno definita gli esperti, ovvero quella sindrome maniaco/depressiva descritta straordinariamente da Kay Redfield Jamison in Toccato dal fuoco. Come non scorgere, in questo “disturbo” che traduce il genio in un’esistenza fuori registro, ciò che oggigiorno è diventato naturale “atteggiamento” dei divi dello spettacolo, quasi sempre – purtroppo – sprovvisti del genio ma abbondanti in sregolatezza.
D’altra parte, la seconda generazione dei poeti romantici inglesi (Keats, Shelley, Byron) non si distinse per la longevità dei suoi protagonisti, la cui esaltazione della sensibilità emotiva, dell’illimitata possibilità dell’immaginazione e della fantasia – in opposizione alla ragione e al realismo – si tradusse nella rimozione di ogni limite, nel superamento di ogni “estremo”. A tal proposito, sono illuminanti le parole di Polidori/Bernardi Guardi, una lezione per i posteri che i posteri, purtroppo, non hanno imparato: “Ero affascinato dal gusto di George [Byron] per le tenebre e mi sembrava ridicolo fargli la morale in nome di una meschina visione del mondo. Però una pacata riflessione e quel che dei precetti familiari continuava a tener posto nel mio animo mi dicevano che la perversione dell’intelligenza e il suo affrancamento da ogni norma condivisa erano l’insegna di un processo distruttivo che poteva travolgere sia il singolo che la società. L’assenza di regole, legittimate o meno dal crisma della religiosità tradizionale, era da sempre il proclama di ogni demone solitario ma poteva diventare anche un vessillo sociale, se quell’esempio si espandeva a macchia d’olio come un irresistibile sortilegio. Io non ero immune da quella droga e spesso della smodata libertà mi facevo vanto. Con un vago senso di colpa, tuttavia: era forse l’eco di quel che mio padre, spirito libero ma di austera probità, mi aveva insegnato?”.
John William Polidori sarà la vittima sacrificale di questa estrema libertà. Benché si renda conto, coscientemente, che la diritta via è smarrita, non riesce a sottrarsi alle voglie del “vampiro” Byron: perché è proprio il grande poeta il protagonista della sua opera, quel Lord Ruthven dal nome originariamente usato nel romanzo Glenarvon di Lady Caroline Lamb per un personaggio che era chiaramente l’alter ego di Byron stesso. Byron lo allontanerà una volta soddisfatti i suoi desideri – anche sessuali –, lo deriderà per le sue ambizioni “sbagliate”, ovvero quelle di letterato, che tanto sbagliate in effetti non erano. Nella figura, nelle vicende e nelle fantasie letterarie di John William sono adombrati alcuni dei profondi mutamenti paradigmatici dei nostri tempi, ovvero il conflitto generazionale, la secolarizzazione e la conseguente scomparsa di Dio, il disprezzo del limite, delle regole e il compiacimento dell’Io supremo. Nell’altro “mostro” che nasce durante quelle notti, Frankenstein di Mary Wollstonecraft (futura signora Shelley), si prefigura, con due secoli di anticipo, l’avvento transumanesimo della modernità, delle tecnoscienze come nuova religione. E pensare che anche Mary Shelley aveva “concepito” il “moderno Prometeo” – come recita il sottotitolo del romanzo – durante il suo soggiorno pisano conversando con Andrea Vaccà Berlinghieri, illustre chirurgo che conduceva esperimenti sui cadaveri.
Bram Stoker e la fortuna (letteraria e cinematografica) del vampiro arriveranno diversi anni più tardi. Ma quella notte a Villa Diodati, oltre ad averci regalato due tra le più grandi invenzioni letterarie di ogni epoca, illumina ancora di tenebra e mistero le nostre esistenze. E, probabilmente, anche il nostro futuro.
Mario Bernardi Guardi ci ha regalato le chiavi d’accesso a un infinito apparato simbolico di significati. Tocca al lettore, adesso, aprire quella porta.
David Nieri
Alberto Negri, Bazar mediterraneo, Roma, Gog, 2021, pp. 220, euri 16,00
Algeri con i suoi sogni rivoluzionari, Salonicco e i fantasmi del passato, Alessandria d’Egitto e il peso insostenibile della memoria, Tangeri la bizzarra, Beirut con il suo fascino fragile, Tripoli e Bengasi in stato di rivolta permanente, Istanbul e la nostalgia dell’Impero… Quello di Negri non è un itinerario solo geografico e storico, ma è un ritratto sentimentale delle principali città del Mediterraneo del sud, città che improvvisamente diventano persone, amanti di una notte o di una vita, dai quartieri come corpi e i palazzi come volti, con le loro grinze e le loro ferite impossibili da rimarginare. Lo sguardo del reporter si confonde con l’afflato dello scrittore, la storia collettiva, con i suoi protagonisti – letterari, politici, militari – si intreccia agli aneddoti degli uomini e delle donne di passaggio, i pensieri più intimi si alternano alle visioni geopolitiche consegnando alla nostra letteratura di viaggio una pagina appassionata e commovente, scritta sulla Sponda sud di un Mediterraneo che ci siamo rassegnati a guardare come al mare degli “altri”.
Giornalista e inviato di guerra, classe 1956, Alberto Negri ha seguito per oltre trent’anni per il “Sole24Ore” i principali eventi politici e bellici in Medio Oriente, Balcani, Asia Centrale e Africa. Vincitore di numerosi premi per la sua attività, tra i quali il premio internazionale Maria Grazia Cutuli nel 2009 e il premio Colombe per la Pace nel 2015. Oggi è editorialista de “il Manifesto” e Senior Advisor dell’ISPI. Autore dei saggi Il turbante e la corona e Il musulmano errante, storia degli alauiti e dei misteri del Medio Oriente.