Minima Cardiniana 354/2

Domenica 28 novembre 2021, Prima Domenica d’Avvento

IN MEMORIAM
FRANCESCO GIUSEPPE. OMAGGIO AL MIO IMPERATORE
Nella settimana scorsa, l’In Memoriam era molto affollato. Pubblico pertanto con sette giorni di ritardo questo ricordo dell’indimenticabile sovrano di casa d’Asburgo che per sessantotto anni governò con mesto rigore e serena fede cristiana l’impero d’Austria, dal 1867 trasformato in impero austrungarico.
L’imperatore si spense dolcemente alle nove e cinque minuti di quella sera, il 21 novembre del 1916. Le procedure di preparazione della salma e d’imbalsamazione andarono per le lunghe e furono condotte in modo alquanto maldestro.
Dieci giorni dopo, Il 30, si presentò dinanzi alla porta della Kapuzinergruf di Vienna. Gelido, disfatto a causa dell’imbalsamazione mal riuscita, chiuso nella sua candida alta uniforme, invisibile a tutti. Il cerimoniale d’uso venne rigorosamente rispettato. Bussarono per lui alla porta, una volta. Alla domanda del padre guardiano all’interno, chi fosse a chiedere ultimo asilo, risposero per lui secondo il rito. Sua Maestà Cesarea il Kaiser Francesco Giuseppe, imperatore d’Austria, re Apostolico d’Ungheria, re di Boemia, di Dalmazia, di Croazia, di Slavonia, di Galizia, di Ludomiria e d’Illiria, re di Gerusalemme, arciduca d’Austria, granduca di Toscana eccetera. Non lo conosciamo, si sentì rispondere da dentro. Secondo appello: chi bussa? Francesco Giuseppe, semplicemente. Identica risposta: ancora una volta, come il perentorio Zurück! che respinge il principe Tamino alle soglie del Tempio della Saggezza nel secondo atto della Zauberflöte di Mozart. Terzo appello. Chi bussa ancora? Ein armer Sünder, “un povero peccatore”. Quello, Dio lo conosceva: e anche i fedeli frati custodi della cripta di famiglia degli Asburgo. La porta si aprì ed egli poté scendere a riposare con i suoi avi e con la sua Sissi.
Intanto, sui campi di battaglia, l’Europa stava agonizzando. Francesco Giuseppe morì in buona compagnia. Con lei. Quell’uniforme candida nella quale ormai avrebbe riposato per sempre era forse la stessa con la quale poco più di due anni prima, nel fatale 1914, egli aveva seguito a piedi, ottantaquattrenne, la processione del Corpus Domini nella sua capitale. Quel gesto di regale umiltà – uno dei tantissimi dei quali era capace – aveva commosso profondamente papa Pio X, ch’era nato nel Veneto ancora sotto il suo regno e che non dimenticava mai di pregare per il “suo” imperatore. Ma pochi giorni dopo, il 28 giugno, c’era stata la tragedia di Sarajevo: e tutto era precipitato.
Non l’aveva voluta, quella guerra. Anzi, delle tre che prima di quella gli era toccato di vedere – nel ’48, nel ’59, nel ’66 – non ne aveva voluta nessuna. Aveva trascorso la vita intera in uniforme, come si conveniva al “primo funzionario dello stato”, com’era fiero di definirsi: ma era, e sempre rimase, un uomo di pace. Già all’indomani dell’annessione della Bosnia-Erzegovina, mentre ormai si stavano presentando – nell’Austrungheria e non solo – le prime spinte oltranzistiche, aveva quasi aggredito il nipote e successore designato al trono, l’arciduca Francesco Ferdinando, con queste parole: «Hai mai visto la guerra, tu? No! Ma io l’ho vista, e perciò ti dico che prima di avventurarcisi bisogna rifletterci ancora tanto a lungo fino a trovare un mezzo per evitarla». Più tardi, prima di firmare controvoglia il decreto che avrebbe gettato il suo paese nella rovina, aveva commentato che i suoi generali e i suoi ministri la guerra non la conoscevano: ma lui sì, lui l’aveva vista in faccia a Solferino. E alla figlia Maria Valeria, una delle poche persone con cui amasse confidarsi, aveva dichiarato una volta ch’è sempre difficile trovare delle ragioni per fare una guerra, anche perché in realtà non ce ne sono mai.
Alla notizia della morte del nipote Francesco Ferdinando nell’attentato di Sarajevo, l’Imperatore non apparve in fondo né troppo scosso né eccessivamente addolorato; anzi, dalle sue immediate dichiarazioni pare quasi di capire ch’egli pensasse che le cose avevano avuto il loro necessario esito. Tutto era andato, dal ’67 in poi, contro la volontà di Dio che gli aveva affidato i suoi popoli: era stato solo nel nome e in vista della sopravvivenza della Monarchia che egli aveva dovuto accettare contro la propria coscienza tanto l’Ausgleich austrungarica prima quanto il sistema costituzionale poi. Ma la prospettiva presentatagli dall’arciduca Francesco Ferdinando, quella di una nuova riforma che aggregasse anche gli slavi, doveva sembrargli in realtà eccessiva e intollerabile. Certo, egli non avrebbe mai potuto opporsi: ma era accaduto che, proprio per mano di uno slavo, ci aveva pensato la Provvidenza. L’erede designato era adesso il ventisettenne pronipote, l’arciduca Carlo che nell’11 aveva sposato Zita di Borbone-Parma e che si presentava come un giovane serio, corretto, profondamente religioso.
All’indomani dell’attentato l’Imperatore si schierò con il primo ministro, l’ungherese István Tisza, dichiarandosi contrario a qualsiasi tipo di azione di rappresaglia contro la Serbia: anche perché essa avrebbe comportato con ogni probabilità un intervento russo e quindi una guerra di più ampie e terribili proporzioni. Ma tutti gli altri ministri, a cominciare da quello degli esteri Leopold Berchtold, erano dell’avviso che ai serbi si dovesse impartire una lezione indimenticabile. Naturalmente, si confidava nell’appoggio della Germania: ma proprio di ciò l’imperatore non era certo, e lo comunicò senza mezzi termini al capo di Stato Maggiore Franz Konrad von Hotzendorf, il quale a proposito dell’alleato non nutriva invece alcun dubbio.
Nel medesimo giorno dell’inizio della guerra contro la Serbia, l’imperatore firmò un proclama diretto a tutti i suoi popoli: “Sarebbe stato il mio più ardente desiderio dedicare gli anni che ancora mi sono concessi a opere di pace e a risparmiare ai miei popoli i pesanti sacrifici e gli oneri della guerra. La Provvidenza ha deciso altrimenti. Le macchinazioni di un avversario pieno di odio mi costringono a impugnare la spada per tutelare l’onore della mia Monarchia, per difendere il suo prestigio e la sua posizione politica, per assicurarne la stabilità dopo tanti anni di pace”. Al suo bellicoso capo di Stato maggiore rivolse parole altrettanto dignitose, ma meno ottimistiche: “Se la monarchia deve perire, che perisca almeno in piedi”.
Se all’immediata vigilia del conflitto il sovrano era sembrato preso da una sorta di abulico fatalismo, come se tutti i suoi ottantaquattro anni gli fossero arrivati addosso d’un balzo tutto assieme, ora egli sembrava, se non rinvigorito, per lo meno divenuto più lucido e determinato: quasi più sereno. È vero che la fedelissima Maria Valeria lo giudicava come avvolto da un velo di stanchezza che ormai lo separava dal mondo e ch’egli stesso si giudicava ormai diventato insensibile alle gioie e ai dolori: ma era come se ormai solo la guerra lo interessasse; era come se la sua stessa tarda età lo facesse sentire già fuori dalla vita e che, senza passato e senza futuro, solo il giudizio immediato delle armi avesse conservato per lui un qualche valore. Intanto la guerra stava al di là della sua volontà valorizzando l’elemento germanico in un ‘Austria che si andava sempre più appoggiando alla potente fraterna potenza vicina; e. se gli ungheresi restavano fedeli a quella Monarchia che per tanto tempo avevano pur avversato, gli slavi davano segni di volersene andare, come fecero i nazionalisti “cechi”, cioè boemi, che ormai stavano preparando la loro repubblica e molti dei quali disertavano per passare al nemico.
Alla seduta del Consiglio dei ministri del 7 luglio, il sovrano non disse una parola. Del resto, era un capo di Stato costituzionale. Si limitò – visto che quasi tutti erano d’accordo su misure ispirate a durezza e il suo primo ministro, che condivideva il suo disagio, era in difficoltà – ad abbandonare in silenzio la seduta per far rientro nella sua residenza di Ischl. Il giorno dopo, giunse da Berlino il messaggio che i bellicisti aspettavano: l’ambasciatore Heinrich von Tschirschky comunicò che, in caso di una qualunque «complicazione europea», il suo governo si sarebbe schierato al fianco di quello austrungarico.
Gli eventi dell’estate del ’14, il tragico Totentanz che di ultimatum in ultimatum e di mobilitazione in mobilitazione coinvolse tutta l’Europa e quindi – con l’ingresso nel conflitto del Giappone e degli Stati Uniti – il mondo intero, configurarono una situazione del tutto nuova: il processo di globalizzazione, avviato con le scoperte e le conquiste che dal XVI secolo in poi avevano gradualmente sottomesso l’intera ecumène all’Europa, giungeva con la prima guerra mondiale al suo fatale compimento, che si sarebbe del resto prolungato con la seconda e quindi con le successive crisi che, dall’Estremo Oriente asiatico attraverso le successive tappe in Asia, in Africa e in America latina, sarebbero sfociate nei drammi delle migrazioni e del terrorismo: esiti ultimi del resto dello “scambio asimmetrico” che fin dal Cinquecento ha caratterizzato l’economia-mondo e del conseguente, progressivo, gigantesco processo di concentrazione della ricchezza e d’impoverimento delle masse subalterne del pianeta. Ma, se per le avanguardie rivoluzionarie marxiste come quella russa era evidente che la guerra fosse l’esito necessario della tensione tra paesi imperialisti soggetti all’egemonia delle élites capitalistiche e colonialiste, nessuno tra i governi europei – nonostante l’inasprirsi delle rivalità e il moltiplicarsi dei motivi di scontro – sembrò al momento rendersi conto dell’abisso nel quale tutta l’Europa stava precipitando e al fondo del quale stava l’irreversibile e irrecuperabile perdita del suo ruolo egemonico sul pianeta. Fino a pochissimi anni prima era sembrato che la terra fosse ormai unita stretta nei legami dei mezzi di comunicazione che grazie al vapore e all’elettricità stavano unendo i punti più lontani di essa: ora, mente il petrolio e l’aviazione stavano per sconvolgere economia, finanze, comunicazioni e tecniche militari – ma era ancora troppo presto per rendersene conto –, si credette di esser giunti alla definitiva resa dei conti; e non si comprese che quello era, viceversa, l’avvìo di una nuova fase di crisi che non si sarebbe conclusa nemmeno con la fine della seconda guerra mondiale e che invece proprio in questi nostri tempi si debba definitivamente affrontare.
Alla fine del ’15 le sorti del conflitto erano oscure ed incerte. Nel novembre i due imperatori alleati s’incontrarono per l’ultima volta, a Schönbrunn: un Guglielmo ingrigito e un Francesco Giuseppe che si andava ormai consumando come una vecchia esile candela. Entrambi avevano l’impressione, largamente rispondente alla realtà, di essere stati ormai messi da parte dai rispettivi governi e Stati maggiori: in questi ultimi si fronteggiavano due personaggi tutto sommato mediocri, l’austriaco Konrad che anzitutto voleva l’umiliazione dopo dell’Italia dopo il suo voltafaccia e il tedesco Erich von Falkenhayn che avrebbe invece preferito sistemare il fronte balcanico in modo da conseguire una congiunzione, attraverso la Serbia conquistata, con le alleate forze ottomane.
Il ’16 non si aprì in modo positivo: tra il maggio e il giugno, la nuova offensiva austrungarica contro le linee italiane fallì; alla fine della primavera si ebbe una controffensiva russa tra Polonia e Galizia; il18 agosto, ottantaseiesimo compleanno dell’imperatore, la Romania – che a suo tempo si era avvicinata alla “Triplice”, ma che ormai mirava a strappare all’Ungheria la Transilvania e che considerava d’altronde la Bulgaria, alleata degli imperi centrali, come il suo grande nemico – scelse l’alleanza con le potenze dell’Intesa. Era un tradimento in tono minore, rispetto a quello italiano: ma ormai altrettanto atteso. Oltre all’andamento del conflitto, Francesco Giuseppe era deluso e prostrato per il comportamento mediocre dei politicanti che egli era costretto a far avvicendare nel suo governo: per fortuna l’erede al trono, Carlo, per il quale il sovrano provava un affetto che non esitava – contrariamente alle sue abitudini – a dimostrare, si stava comportando bene. Ovviamente, per un riguardo dovuto all’erede al trono, quando tutta la compagine austrotedesca passò sotto il comando del feldmaresciallo tedesco Paul von Hindenburg il corpo d’armata italiano ch’egli comandava fu esentato da questa forma di subordinazione.
Il 20 novembre, a Schönbrunn dove ormai si era trasferito da tempo, l’imperatore si lamentò esplicitamente del suo stato di salute: da tempo la sua vecchia bronchite era degenerata in polmonite ed era molto debole. La fedele figlia Maria Valeria si allarmò e i medici, chiamati immediatamente, espressero un parere ormai disperato. Nonostante ciò egli volle alzarsi, indossare l’uniforme e sedere alla scrivanìa: l’aiutante di campo gli guidò la mano mentre vergava la firma su una domanda di grazia, quella d’un’infelice infanticida ch’era stata condannata alla pena capitale. Fu uno dei suoi ultimi atti sovrani.
Al mattino successivo, di nuovo in piedi e al lavoro in uniforme, ricevette l’erede al trono e prese i sacramenti; aveva la febbre molto alta. Cercò verso mezzogiorno di sorbire una tazza di brodo, cercò di lavorare ancora, tornò a letto verso le sette di sera. Come sappiamo, avrebbe concluso due ore dopo la sua giornata terrena.

Al ricordo dell’imperatore accostiamo, sempre con un lieve ritardo dovuto alla medesima ragione, quello di un uomo politico belga che avrebbe forse meritato più fama e certamente più fortuna di quelle che gli furono concesse in sorte.

AMERINO GRIFFINI
UN RICORDO DI JEAN-FRANÇOIS THIRIART
23 novembre 1992. Per una crisi cardiaca muore Jean-François Thiriart, teorico (e organizzatore) del nazionalcomunitarismo europeo.
Era nato a Bruxelles il 22 marzo 1922.
Da giovanissimo era stato un militante della Jeune Garde Socialiste (JGS), l’organizzazione giovanile del partito socialista belga (POB – Parti Ouvrier Belge) e dell’Union Socialiste Anti-Fasciste.
Ai tempi del suo impegno giovanile nella Jeune Garde Socialiste, Thiriart partecipò a scontri di piazza contro i membri della Légion Nationale Belge (LNB), un movimento nazionalista, di tendenze maurrassiane, il più importante tra quelli belgi di tipo fascista prima della nascita del movimento Rex di Léon Degrelle.
La Légion Nationale Belge in quegli anni era l’antagonista dei movimenti antifascisti.
Il suo leader, Paul Hoonaert, un avvocato di Liegi, rappresentò il Belgio al convegno dei movimenti fascisti europei che si tenne a Montreaux in Svizzera nel 1934 e fu l’interlocutore vallone dei CAUR (i Comitati d’Azione per l’Universalità di Roma), organizzazione mussoliniana che per un certo periodo ebbe il compito di avere i contatti con i vari movimenti fascistizzanti nel mondo.
Curiosa vicenda quella della Légion Nationale Belge e del suo leader, se si pensa che prima dell’invasione tedesca del Belgio era un partito “fascista” vicino agli ambienti della Monarchia e a quelli militari, ma che con l’invasione del Belgio, organizzò nuclei di resistenza antitedesca che di fatto in seguito divennero l’anima e l’ossatura portante della Resistenza non comunista nel Belgio vallone. L’avv. Hoonaert catturato dai tedeschi morì poi nel 1942 in un carcere vicino a Berlino.
Percorso inverso – se si vuole – fu invece quello di Jean Thiriart che passò dalla militanza socialista e antifascista all’adesione alla società filosofica Fichte Bund, un gruppo nazional-bolscevico presieduto dal prof. Heinrich Kessemeier che aveva il suo centro ad Amburgo dal 1914 e aveva scelto di riunirsi attorno al nome di Johann Gottlieb Fichte, filosofo tedesco vissuto a cavallo tra ’700 e ’800.
Durante la Seconda guerra mondiale, nel 1941 Thiriart assieme ad altri militanti di sinistra provenienti perlopiù dal Partito Socialista, passò dal nazional-bolscevismo, ad un gruppo guidato da Georges Scaillet, l’AGRA (Amis du Grand Reich Allemand) che, tenendosi ben lontano dai fascisti del movimento rexista (ma non da quelli poltico-etnicisti fiamminghi del VNV – Vlaams Nationaal Verbond), credette nella funzione europeista e socialista propagandata dal III Reich.
Non si pensi che questa fosse una eccezione per la Sinistra, non lo fu in Belgio, né in Francia né in molti altri Paesi europei.
Una simpatia in parte dovuta anche al Patto Ribbentrop-Molotov del 1939, alleanza di fatto tra Hitler e Stalin che mise in crisi non pochi militanti comunisti in Europa. Quando il Terzo Reich e – dopo pochi giorni – l’Unione Sovietica, attaccarono la Polonia nel 1939, la Gran Bretagna e la Francia dichiararono guerra alla sola Germania (e non all’URSS), avviando così la Seconda guerra mondiale. In Francia, il governo del radicale Édouard Daladier, dopo la dichiarazione di guerra, mise fuori legge il Partito Comunista francese e i dirigenti del partito che non riuscirono a mettersi in salvo finirono in carcere.
Si verificò così quel rovesciamento delle posizioni al quale accennavo a proposito della LNB e di Hoonaert che, per restare in ambiente francofono vide molti estremisti di destra, nazionalisti e/o fascisti, entrare nella Resistenza francese mentre i leader del socialismo (come Marcel Déat) e del comunismo (come Jacques Doriot) sceglievano il campo della Collaborazione con i tedeschi.
In Belgio il caso più eclatante fu quello del Presidente del Partito Socialista, il prof. Henri de Man, docente dell’Università di Bruxelles, che già prima della guerra aveva sbaragliato l’ala marxista del partito lanciando la sua ricetta contro la crisi economica (il famoso “Plan” del lavoro) e puntato all’edificazione di un socialismo non materialista su basi etiche.
Alla fine del giugno 1940 di fronte all’invasione tedesca e alla fuga all’estero di numerosi dirigenti del POB (Parti Ouvrier Belge, ovvero il Partito Socialista), de Man restò al suo posto e a luglio lanciò un Manifesto ai militanti socialisti nel quale preconizzava una Europa unita e socialista; subito dopo costituì un movimento sindacale unitario, l’UTMI (Union des Travailleurs Manuels et Intellectuels) che attirò anche militanti fiamminghi del VNV, movimento destinato a portare il verbo del neo-socialismo nazionale nel mondo del lavoro.
I tedeschi, con la loro frequente miopia politica, contrastarono questa linea politica, al punto che alla fine del 1942 De Man, si ritirò dalla politica.
Nel caso di Jean Thiriart, la sua adesione all’AGRA fu segnalata da Radio Londra con l’inserimento del suo nome tra i condannati a morte. Ciò gli comportò, al termine della guerra, la reclusione.
Tornato in libertà si dedicò alla professione divenendo in breve un’autorità nel campo dell’optometria raggiungendone il vertice: Presidente dell’Union Nationale des Optométristes et Opticiens de Belgique dapprima, e degli ottici-optometristi europei (Société d’Optométrie d’Europe) in seguito. Pioniere nel campo della contattologia oculare, la sua carriera professionale negli ultimi anni di vita lo vedrà anche membro di varie Commissioni tecniche della Comunità Economica Europea (CEE).
Uomo d’azione e destinato a dedicarsi all’impegno politico, rientrò nuovamente in attività nel 1960 nel momento più difficile della decolonizzazione nel Congo belga.
In seguito all’indipendenza congolese (giugno 1960), nell’ex colonia belga si scatenò una “caccia la bianco”. Uccisioni e violenze sessuali produssero una grande impressione in Belgio e l’esodo degli europei dal Paese.
Di fronte a ciò, Thiriart e alcuni amici, tra i quali un membro dello staff di un ministro in carica, decisero che era giunto il momento di fare qualcosa, e iniziarono con la diffusione di un volantino all’aeroporto di Melsbroeck, dove atterravano gli aerei con le vittime delle violenze congolesi.
Gli avvenimenti si susseguivano rapidamente e dopo la secessione della regione del Katanga dal Congo di Patrice Lumumba, a Bruxelles, Thiriart, assieme ad altri, tra i quali anche ex capi della Resistenza belga come Auguste Minet e Raphael Mathyn ed altre personalità come il Colonnello Verlinden, direttore dell’Institut Géographique du Congo Belge o il dott. Paul Teichmann, dettero vita al CADBA (Comité d’Action et de Défense des Belges d’Afrique) che organizzò una grande manifestazione in centro a Bruxelles e all’aeroporto di Melsbroeck.
Manifestazione che costrinse il Governo a mobilitare ingenti forze di polizia e a proteggere i ministeri con reticolati.
Contestualmente uscì il primo numero di un giornale che divenne l’organo del CADBA, “Belgique-Congo”, una testata destinata a cambiare nome con la rapidità legata all’incalzare degli avvenimenti; già con il secondo numero si chiamò “Belgique-Afrique”, poi “Europe-Afrique”, poi “Belgique-Afrique Nation-Europa”; e, con la svolta dell’abbandono della tematica africana da parte del movimento, la scelta del nuovo titolo, “Nation-Belgique Nation-Europe”.
In seguito, proseguendo la numerazione e mantenendo la stessa grafica e formato, la testata si chiamerà “Jeune Europe” organo dell’omonimo movimento.
La situazione congolese portò dapprima all’intervento dei parà belgi lanciati su Leopoldsville e sulle altre città delle sommosse, per portare in salvo la popolazione europea, poi ci fu l’intervento dell’ONU che il CADBA giudicò una ingerenza degli Stati Uniti e che condannò duramente schierandosi a favore del Katanga secessionista di Moise Ciombé.
Già nell’ottobre 1960 Thiriart e gli altri dirigenti del CADBA ritennero che il gruppo non fosse più adeguato e lo trasformarono in MAC (Mouvement d’Action Civique), spostando l’asse della sua azione dai problemi coloniali a quelli di una rifondazione radicale delle istituzioni politiche.
A dicembre di quell’anno, dopo che il giornale del MAC era stato diffuso negli ambienti “nazionali” di mezza Europa, Thiriart, senza affossare il movimento, fondò un nuovo gruppo con visione europeista, Jeune Europe, che rapidamente divenne il tramite, un vero e proprio organo di collegamento, per nuovi rapporti e legami nel Continente.
Mentre Jeune Europe si ramificava, il MAC andò per un’altra strada, divenendo una sorta di movimento poujadista belga, ovvero sulle posizioni dell’UDCA, il partito di destra francese di Pierre Poujade che nel 1956 aveva portato nel Parlamento di Parigi, 52 deputati (tra i quali il più giovane parlamentare di Francia, Jean-Marie Le Pen, avvocato, ex Sottotenente dei parà in Indocina) con 2 milioni e mezzo di voti. Il MAC divenne il referente belga che però, limitato in pratica alla sola Bruxelles, non ebbe grande successo politico e ben presto scomparve.
Del resto, le “democrazie” spesso sono abili nel non rispettare la Democrazia, e anche il movimento di Poujade in Francia fu presto messo alle corde da una modifica alla legge elettorale che con alchimie forzate riuscì ad assegnare 70 deputati al MRP (il Mouvement Républicain Populaire equivalente della Democrazia Cristiana italiana) nonostante avesse ottenuto 230mila voti in meno dell’UDCA!
Jean Thiriart nel frattempo si era lanciato nell’avventura politica missionaria di Jeune Europe.
Il 1961 fu per Thiriart oltre che l’anno dell’avvio in modo sistematico dei contatti con le frange europeiste di movimenti e gruppi nei vari Paesi, anche l’anno nel quale il dramma della decolonizzazione divenne ancora più bruciante in Belgio e in Francia.
Il 27 aprile i 1.200 baschi verdi del 1° REP della Légion Étrangère lasciarono la base di Zéralda in Algeria dopo aver fatto saltare la caserma dietro di loro; sui camion i legionari cantarono rabbiosamente quello che era divenuto il loro inno “Je ne regrette rien”, la canzone di Edith Piaf, mentre i pied-noirs (gli europei d’Algeria) lungo la strada piangevano sconsolati. La rivolta dei “centurioni” contro De Gaulle era finita per sempre.
In quella estate, militanti di Jeune Europe partirono per il Katanga per combattere mentre altri militanti, a giugno, a Vienna, contestarono l’incontro Kennedy-Krusciov spingendosi fino alla residenza dell’ambasciatore sovietico Avilov e a lanciare volantini contro il corteo ufficiale dei due “complici” ai danni dell’Europa.
In Belgio Jeune Europe divenne la rete locale di appoggio ai combattenti dell’OAS (all’ala europeista dell’Organisation Armée Secrète, quella guidata da Pierre Sergent, un ex partigiano poi ufficiale dei parà della Legione Straniera, uscito dall’Accademia di Saint-Cyr e combattente in Algeria e in Indocina), dando rifugio agli attivisti ricercati e pubblicandone i comunicati sulla sua stampa.
Un appoggio dato nella convinzione che i problemi algerini non sarebbero stati risolti dai francesi come quelli congolesi non lo erano stati per i belgi e che solo un’Europa unita politicamente avrebbe potuto risolvere i problemi dell’intera Africa e della decolonizzazione.
Nel frattempo a novembre a Kindu ci fu l’eccidio dei 13 aviatori italiani della 46ª Aerobrigata di Pisa, caschi blu dell’ONU fatti a pezzi e, pare, anche vittime di cannibalismo tribale. Alla fine dell’anno una manifestazione di Jeune Europe a Bruxelles a favore del Katanga, si trasformò in una manifestazione anti-americana davanti all’Ambasciata USA, con un bilancio pesante di feriti e di arrestati.
Il movimento guidato da Thiriart andò acquistando una fisionomia anche ideologica con la pubblicazione a settembre di un “Manifesto alla Nazione Europea” che gettò anche le basi teoriche comunitariste elaborate da René Dastier e Léon Quittelier.
Nel 1962 le polizie europee iniziarono ad essere inquiete per i progressi di Jeune Europe.
In Germania in seguito ad un meeting a Lippoldsberg al quale partecipò anche l’asso della Luftwaffe Hans Ulrich Rudel, nacque la rete tedesca del movimento (Junges Europa).
Nell’Italia del Nord un gruppo giovanile ispirandosi direttamente al movimento stava aprendo sedi con il nome di Giovane Nazione.
In Portogallo, a partire dall’Università di Coimbra, si stava diffondendo negli ambienti studenteschi la rete di Jovem Europa.
Anche nella tranquilla Svizzera, Roland Guiessaz aveva dato vita alla rete del movimento.
Iniziarono quindi una serie di operazioni di polizia contro le diverse reti in particolare in Belgio, in Italia e Germania.
In Francia, per aver dato aiuto all’OAS alcuni militanti furono reclusi nel campo di concentramento di Saint Maurice l’Ardoise, uno dei campi di reclusione per i combattenti per l’Algeria francese.
Jeune Europe mentre intratteneva rapporti cordiali con vari movimenti in Europa, iniziò anche una penetrazione nell’America Latina (in Colombia, in Argentina…) dando vita ad una rete che si chiamò Joven America, ovviamente in chiave anti-imperialista anti-yankee.
Thiriart ritenne quindi che fosse giunto il momento per il lancio di un vero e proprio partito europeista e il 4 marzo 1962 organizzò a Venezia un incontro con i leader di alcuni partiti “nazionali” nel tentativo di unificare le forze in un quadro europeo; un tentativo rivoluzionario nella stagnante politica del Continente.
Un mese prima, il 6 febbraio, si era tenuta una manifestazione europea organizzata dai movimenti giovanili di alcuni partiti per commemorare la fucilazione del poeta Robert Brasillach (avvenuta il 6 febbraio 1945).
Contemporaneamente davanti alle ambasciate di Francia a Bruxelles, a Lisbona, a Madrid, a Roma e a Bonn, manifestarono migliaia di giovani che tra l’altro gridarono slogans antigollisti e “Viva l’Algeria francese!”.
Coordinatore dell’evento era stato Giacomo Gagliardi, rappresentante in Francia dell’associazione studentesca italiana Giovane Italia. Quell’episodio autorizzava a pensare che fosse possibile far fare un salto di qualità europeo a partiti abituati a guardare solo all’interesse nazionale.
I partecipanti all’incontro veneziano firmarono un “Protocollo di Venezia” con il quale si impegnavano a trasformarsi in Partito Nazionale Europeo.
Il progetto fallì quasi subito, il primo a sfilarsi fu il MSI che delegittimò la sua delegazione composta anche da un ex diplomatico della RSI, Alberto Mellini Ponce de Leon.
Adolf von Thadden, leader del DRP (Deutsche Reichs Partei) di lì a poco sciolse sì il partito che era stato a sua volta l’erede del Sozialistische Reichs Partei (che nelle elezioni del 1951 aveva ottenuto l’11% dei voti ma era stato sciolto d’autorità visto il successo che aveva ottenuto) ma non per integrarsi in un partito sovranazionale europeo, bensì per fondare l’NPD.
Anche il britannico Union Movement proseguì per la sua strada politica.
Il passaggio seppur fallimentare fu importante perché portò Thiriart a sgombrare definitivamente il campo da progetti associativi con soggetti preesistenti (in questo caso tutti di destra nazionale), ma anche a qualsiasi livello con partiti, movimenti o organizzazioni di qualsiasi provenienza politica.
L’obiettivo da quel momento sarebbe stato la costituzione di una organizzazione di militanti, uguale e integrata su tutto il Continente, ossatura portante di un futuro Partito Comunitario Europeo.
Al ritorno da Venezia, appena sceso dall’aereo a Bruxelles, Thiriart fu arrestato per l’appoggio fornito ai combattenti dell’OAS, restò in carcere per un mese, episodio che fu solo l’inizio di una serie di arresti tra i dirigenti della rete belga per lo stesso motivo.
Ma ormai lo strumento politico era ben avviato e la rete militante si stava estendendo su tutto il Continente, dalla Scandinavia ai Balcani, dalla Penisola Iberica ai Paesi dell’Est.
Ma la cosa più importante fu che l’organizzazione stava costruendo uno strumento politico e amministrativo che lavorava nello stesso modo, sullo stesso canovaccio, in ogni parte d’Europa e aveva ormai chiaro che quella era l’unica via: la formazione di militanti europei fuori dal contesto dei nazionalismi, l’unità dei nazionalisti dei vari Paesi essendosi dimostrata impossibile, per l’ennesima volta nella storia.
Lo strumento nazionaleuropeo consentì così la nascita di sezioni che risolvevano d’un colpo i problemi etnico-linguistici europei che negli anni ’60 erano cocenti.
Ad esempio, nacquero sezioni linguisticamente miste a Bressanone e ad Anversa, risolvendo così nella comune ottica europea i problemi altoatesini/sudtirolesi e valloni/fiamminghi.
Nel 1963 nacque ufficialmente la rete italiana, Giovane Europa con sezioni a Milano, Genova, Albenga (diretta dal giovane Renato Curcio, futuro fondatore delle Brigate Rosse dopo il suo approdo alla Facoltà di Sociologia a Trento), Imperia, Perugia, Verona, Bologna, Vicenza, Parma, Ferrara, Brescia…
Responsabili della rete italiana i milanesi Pierfranco Bruschi e Renato Cinquemani.
Nello stesso anno a Bruxelles iniziò le pubblicazioni la rivista mensile teorica di Jeune Europe, “L’Europe Communautaire” curata dal francese Gérard Bordes, dal belga Francis Thill e dal teorico della guerra rivoluzionaria Roger Cosyns-Verhaegen.
Si andarono consolidando le reti principali: in Belgio, Portogallo, Italia, Germania, Spagna, Olanda, Austria, Svizzera, Gran Bretagna; in Francia alla fine dell’anno, per decisione del Ministero dell’Interno, Jeune Europe fu messa fuori legge a causa dell’appoggio fornito all’OAS e non si riformò mai più.
Dopo la fine del movimento, in Francia sorgerà un gruppo che prenderà il nome di “Pour une Jeune Europe”, ma che niente aveva avuto a che fare con JE.
Un fantasma iniziò ad aggirarsi per l’Europa, il Manifesto di JE, che si concludeva con le parole: “Noi condanniamo l’Europa di Strasburgo per il crimine di tradimento. […] O vi sarà una Nazione o non vi sarà indipendenza. A questa Europa legale che rifiutiamo, noi opponiamo l’Europa legittima, l’Europa dei popoli, la nostra Europa. Noi siamo la Nazione Europea”.
Furono gettate anche le basi di un Sindacato Comunitario Europeo mentre particolare attenzione fu posta nella formazione dei militanti attraverso una Scuola Quadri, la suddivisione tra semplici “aderenti” e “militanti” avendo come riferimento per questi ultimi modelli storico-simbolici come un Ordine Cavalleresco medievale e riferimenti metodologici al leninismo.
Nel 1964 Jean Thiriart pubblicò l’edizione francese del suo “Un Empire de 400 milions d’hommes, l’Europe”.
Subito dopo, nel corso dell’estate, uscirono le edizioni in spagnolo tradotta da Pedro Vallès, in italiano da Massimo Costanzo, in tedesco da Wulf Riddel e in inglese da W.G. Eaton.
Via via che il movimento si andava diffondendo, aumentavano i Paesi che espellevano Jean Thiriart definendolo “persona non gradita”.
Dove poteva andare, Thiriart si recava ufficialmente, dove non era gradito riusciva ad andare clandestinamente.
Più volte fu in Italia; anche nel 1965, quando tra l’altro nacque la sezione di Firenze di Jeune Europe, fondata da un gruppo di giovani tra i quali il futuro docente di Medievistica Franco Cardini e chi scrive questa nota.
A Firenze, la presentazione di Thiriart, del movimento e del libro avvenne in due distinte conferenze, in un ristorante e all’Hotel Minerva, dove fece gli onori di casa il filosofo cattolico Attilio Mordini, che del gruppo giovaneuropeo fiorentino fu una sorta di maestro spirituale.
Durante quell’anno tutto il movimento si mobilitò per salvare la vita ad un soldato cecoslovacco, il diciannovenne Milos Dobrichowski che nel tentativo di fuga nell’Europa dell’Ovest aveva ucciso in una colluttazione una guardia di confine. Arrestato nella Germania Federale, la Cecoslovacchia ne aveva chiesto l’estradizione. La sua consegna avrebbe sicuramente significato il patibolo per lui. JE lanciò una campagna di stampa, raccolse firme e fece giungere petizioni alle ambasciate di Bonn. A fine anno Dobrichowski riuscì ad ottenere lo status di rifugiato politico.
L’organizzazione nella sua rigidità pagò anche un grosso tributo di espulsioni e di scissioni, tra le prime anche una serie di militanti italiani sardi, espulsi per “neofascismo”. A dimostrazione di quanto il movimento si era allontanato dalla vicinanza a certe frange politiche.
I militanti accettavano con disciplina regole che sarebbero incomprensibili per politici (o politicanti) attuali: ognuno doveva versare quote al movimento in proporzione al proprio reddito, la stampa del movimento doveva essere diffusa e non accumulata nelle sezioni. A Firenze, chi scrive ricorda di aver battuto casa per casa interi quartieri assieme ad altri militanti nella vendita porta a porta del giornale “L’Europa combattente”. L’integrazione tra militanti europei era una delle regole, il lavoro comune era il metodo migliore.
Nell’agosto 1966, a Torices, in Spagna, un campo di un centinaio di militanti lavorò alla costruzione di una strada e di un acquedotto, impegnandosi nel lavoro comune in squadre miste, dove ad esempio uno svedese, un tedesco e uno spagnolo erano guidati da un italiano o da un polacco, l’équipe era più importante del lavoro in sé.
Thiriart lavorava assieme ai militanti secondo la regola comunitaria del movimento.
Ma Thiriart era anche il capo dell’organizzazione e come tale continuò, infaticabile, giri di conferenze, riunioni nelle strutture, tra successi e persecuzioni.
A Vienna nel 1966, avendo preannunciato la presentazione di documenti sulla responsabilità americana nell’organizzazione del terrorismo altoatesino, in occasione della visita nella capitale austriaca del Presidente dell’URSS Nicolai Podgorny, fu arrestato “preventivamente” ed espulso dal Paese.
Nello stesso anno iniziarono degli importanti contatti internazionali.
In questo contesto senza limiti Thiriart nell’estate 1966 a Bucarest ebbe un incontro con il Capo del Governo della Repubblica Popolare Cinese, Chou En-lai.
Sempre nel 1966 iniziò le pubblicazioni “La Nation Européenne” organo del movimento (in Italia con la stessa grafica ma in bianco e nero e con un numero più limitato di pagine, usciva l’edizione italiana “La Nazione Europea” diretta da Claudio Mutti, oggi direttore della prestigiosa rivista di geopolitica “Eurasia”).
Nel 1967 nello scenario internazionale arrivò la Guerra dei sei giorni: il 5 giugno Israele attaccò all’improvviso con aerei e mezzi terrestri Egitto, Siria, Giordania ed Irak distruggendo le basi aeree giordane e nei giorni successivi occupando Gerusalemme, Hebron e tutta la Cisgiordania. La solidarietà di Jeune Europe ai popoli arabi attaccati fu totale.
A Firenze fummo particolarmente vicini alla comunità degli studenti arabi che si trovarono improvvisamente tagliati fuori dal sostentamento che ricevevano dai rispettivi Paesi.
La sezione fiorentina di JE diffuse anche un volantino: “No all’imperialismo Yankee! Ancora una volta, l’imperialismo USA ha scoperto il suo gioco. Per distogliere l’opinione pubblica dai suoi crimini nel Vietnam e nell’America Latina, esso ha sferrato un altro immondo attacco alla libertà e alla pace dei popoli che non intendono sottostare al suo giogo. Vittime sono state, questa volta, i popoli arabi. Lavoratori, Studenti, Fiorentini! Respingiamo la propaganda borghese: la causa di Israele non è pura, perché puzza del petrolio USA – Due milioni di profughi palestinesi attendono giustizia dall’opinione pubblica mondiale. Oggi il mondo è diviso in due parti: la socialdemocrazia e la rivoluzione. Noi siamo per la Rivoluzione. Giovane Europa – Firenze”.
Il volantino è sintomatico dell’impatto psicologico che l’attacco israeliano ebbe sui militanti; Jean Thiriart avviò invece una serie di contatti con i leader arabi, dapprima tramite il direttore de “La Nation Européenne”, Gérard Bordes, che si recò in Algeria ad incontrare personalità della rivoluzione araba come Cherif Belkacem, aiutato dal francese Gilles Mounier, corrispondente del giornale ed ex membro dell’FLN (Front de Libération Nationale) ai tempi della Guerra d’Algeria.
Nel 1968 fu lo stesso Thiriart a incontrare il Presidente egiziano Nasser, ad essere invitato dal governo di Baghdad e dal Partito Ba’ath; incontrò anche alcuni dirigenti dell’OLP (Organizzazione per la Liberazione della Palestina).
Jeune Europe pagò anche un tributo di sangue alla causa araba: il 3 giugno 1968, un suo militante, l’ingegnere francese Roger Coudroy, dipendente della Peugeot in Kuwait, fu il primo europeo a cadere nelle fila di Al-Fatah, ucciso dagli israeliani.
Obiettivo di Thiriart era quello di stabilire rapporti di collaborazione al fine di partecipare alla lotta per la liberazione della Palestina e contemporaneamente formare il nucleo iniziale di un’Armata di Liberazione europea.
In Europa intanto, in particolare in Italia, era nato il Movimento Studentesco Europeo (MSE) corrente del Movimento Studentesco che cercò punti di aggregazione con i fermenti che nell’ambito della “contestazione studentesca” si muovevano al di fuori dello schema Destra/Sinistra (come Primula Goliardica, il Movimento studentesco di Giurisprudenza, l’Orologio, Lotta di Popolo…), corrente che nell’impossibilità di poterla racchiudere negli schemi classici fu etichettata da qualche giornalista con un neologismo: “nazi-maoista”.
Nel febbraio 1969 Thiriart incontrò anche il Generale Juan Domingo Peròn in esilio in Spagna con il quale si trovò concorde nel considerare Castro e il “Che” Guevara i logici continuatori della lotta per la liberazione del continente latinoamericano avviata dal peronismo.
Ma ormai la parabola di Jeune Europe si stava concludendo.
Inconcludenti i rapporti con i leader arabi e pressato da gravi necessità economiche causate dall’aver privilegiato l’impegno politico alla conduzione della gestione delle sue attività professionali, Thiriart si ritirò dall’attività politica mentre una dopo l’altra le reti locali dell’organizzazione si scioglievano, ultima quella italiana che decise l’autoscioglimento nel corso del congresso di Napoli nel 1970 sposando la posizione precongressuale della sezione fiorentina.
Tramontava così un sogno che aveva coinvolto negli anni forse alcune centinaia (o forse migliaia) di militanti alcuni dei quali erano caduti come il francese Coudroy e il milanese Ferruccio Burco, musicista di fama mondiale ed enfant prodige del quale mi sono più volte occupato qui.
Altri erano destinati a diventar famosi per le loro attività, alcuni docenti universitari, altri nelle professioni, come il direttore editoriale di una importante casa editrice internazionale, uno finito a fare l’ambasciatore portoghese a Vienna, altri, italiani, con brevi parabole politiche, come un consigliere comunale altoatesino/sudtirolese nello PSIUP, un parlamentare leghista, anche un sindaco democristiano di Roma e un vice sindaco socialista di Torino; l’ultimo Segretario responsabile della rete italiana, Claudio Orsi, ormai tout court maoista ortodosso, entrerà nell’associazione Italia-Cina; un altro dirigente nazionale, Pino Balzano sarà collaboratore del “Quotidiano dei lavoratori”, organo di Democrazia Proletaria. Altri dirigenti e militanti ritorneranno sui loro primi passi politici, in qualche caso, all’estrema destra, in un triste riflusso nostalgico; in altri casi perché costretti dalla necessità di doversi schierare da una parte o dall’altra nei tempi della nuova (piccola) guerra civile degli anni di piombo, sentiranno comunque il dovere di ritornare alle origini al fianco della minoranza sotto attacco.
Jean Thiriart riprese l’attività politica nel 1981 in seguito ad un attacco di sionisti al suo ufficio di Bruxelles.
Riprese a lavorare al progetto di libro sul nuovo scenario geopolitico che si stava delineando e alle nuove prospettive che in questo quadro poteva (e può ancora) svolgere la Russia per sottrarre i popoli europei alla servitù statunitense.
Già dai tempi di Jeune Europe si era superato il concetto di “Occidente” individuato come un nemico, i confini del quale di fatto corrispondevano solo all’impero della Coca Cola.
In questa logica, caduto il Muro che divideva in due l’Europa, Thiriart nel 1992 qualche mese prima della sua morte, si recò a Mosca dove incontrò vari esponenti politici ed intellettuali dal leader eurasista Aleksandr Dugin a esponenti nazional-bolscevichi, all’esponente del Partito della Rinascita Islamica Gaidar Dzemal a Gennadij Zjuganov, esponente del Partito Comunista della Federazione Russa.
In quel contesto a Mosca incontrò anche l’ex dirigente di Jeune Europe di Parma, Claudio Mutti e il fiorentino Carlo Terracciano che del movimento JE non aveva fatto parte ma che da sempre era impegnato politicamente sul fronte della lotta di liberazione dei popoli.
Chi scrive questa nota potrebbe chiuderla ricordando i due incontri fiorentini di Thiriart e l’impressione che ne ebbe.
Invece la chiude con un aneddoto destinato a ridurre l’impatto della nostalgia per un tempo nel quale pareva che tutto fosse possibile anche… la Rivoluzione e la realizzazione del sogno di un’Europa unita, un’Europa dello spirito e della carne, della cultura e del bello, ben diversa da quella dei mercanti arruffoni e di fatto anti-europeisti di Bruxelles, per giunta fedeli alla NATO, inutile esercito ma minacciosamente schierato contro altri europei dell’Est.
Nel 1978 nel corso di un viaggio assieme ad un allora studente fiorentino dirigente del FdG e destinato a diventare un docente universitario, ci capitò di incontrare a Bruxelles nella redazione della rivista “Nouvelle Europe Magazine”, il direttore della stessa, Emile Lecerf, che aveva nel suo passato varie esperienze: da membro della sezione belga dell’Ahnenerbe a fondatore assieme a Thiriart del MAC nel 1960 e che per un certo periodo era stato anche uno dei maggiori dirigenti di Jeune Europe.
Dotato di senso dell’humor, ad una mia domanda sull’organizzazione che ci aveva visti, in tempi e ruoli diversi, entrambi militare, dopo un attimo di commozione disse: “Non avremmo mai potuto farla la rivoluzione europea con Thiriart se non al prezzo di perdere la Francia… i francesi ci hanno sempre considerato i cugini scemi, figuriamoci… essere guidati da un belga!”.
Frase paradossale, ma che probabilmente conteneva del vero se dopo il divieto delle attività da parte del Governo gollista non fu più possibile riattivare la rete francese, restando confinati i rapporti ad un piccolo nucleo parigino di militanti guidati da Gérard Bordes che dirigeva la rivista “La Nation Européenne” da casa sua, in un appartamento sopra l’ambasciata di Haiti dove fui ospitato anch’io nella calda estate del 1968.