Minima Cardiniana 355/2

Domenica 5 dicembre 2021, Seconda Domenica di Avvento

ITALIA, ANNO ZERO. LA SCUOLA AL TEMPO DEL COVID E DELLA CANCEL CULTURE. UN “CASO ESEMPLARE”
La verità in tasca non ce l’ha nessuno. Prendiamo spunto da un evento verificatosi in una scuola, dall’iniziativa di un gruppo di ragazzi in vena di contestazione e dalle reazioni di un docente per esaminare un po’ più da vicino e da punti di vista differenti che cosa sta succedendo in quel mondo che, se la nostra società fosse più responsabile, sarebbe la principale trincea sociale e culturale: la scuola.
Cominciamo con una riflessione di più generale respiro, che contestualizza il nostro rispetto ad altri casi, per passare poi all’esame dell’evento che ha fatto ultimamente scalpore.

DAVID NIERI
LA NOTTE OSCURA DEL BUONSENSO: TRE CASI RECENTI
Mi trovo spesso a domandarmi cosa avrebbe pensato (e magari scritto) Pier Paolo Pasolini, l’ultimo vero, grande intellettuale – illuminato e visionario – che abbiamo avuto la fortuna di conoscere tra i nostri confini (per poi farlo sparire), della modernità che ci troviamo a vivere; oppure, per esprimere il mio sentimento (del tutto personale, ovviamente), a sopportare. Chissà. Non passa giorno che non si manifesti un attacco al “buonsenso”: che non corrisponde, sia chiaro, a una mera decodificazione personale. Scrive il Dizionario Treccani, non proprio l’ultimo arrivato nell’interpretazione e nella corretta divulgazione della lingua italiana: “buonsènso (o bonsènso; più com. buòn sènso) s. m. [calco dell’espressione fr. bon sens]. – Capacità naturale, istintiva, di giudicare rettamente, soprattutto in vista delle necessità pratiche”. Giudicare rettamente significa anche mondare la propria opinione dai pregiudizi, dalle prese di posizione aprioristiche, dagli estremismi, dai fanatismi. Oggigiorno sembra che il “giudicare rettamente” sia diventata un’impresa eroica: spesso un’opinione non viene espressa per il semplice fatto che si trova a collidere con il pensiero unico politicamente corretto, che ormai ha assoggettato alle sue declinazioni la sfera delle relazioni (pubbliche e persino private), amplificato com’è dalla retorica politica e dai media compiacenti, poco inclini al confronto ed essi stessi depositari della “verità” da imporre (e quando è imposta, non è quasi mai verità “assoluta”) ai “sudditi” ormai intellettualmente genuflessi. Perfettamente calzante l’espressione di un grande letterato del tempo che fu, Alessandro Manzoni, la cui opera più famosa sconta e sconterà per sempre il peccato originale di essere “insegnata” a scuola: “Il buon senso c’era; ma se ne stava nascosto, per paura del senso comune”. Una “premonizione” che ha sulle spalle, ormai, quasi due secoli di vita. D’altronde i Promessi Sposi parlavano, tra le altre cose, della Grande Peste del 1629-31. Sembra oggi, più che ieri…
Diverse sono le “grandi questioni” sollevate nell’ultima settimana. Bazzecole, quisquilie, pinzillacchere, le definirebbe Antonio Griffo Focas Flavio Angelo Ducas Comneno Porfirogenito Gagliardi De Curtis di Bisanzio, anche se in alcuni casi – aggiungiamo noi – sono proprio le questioni all’apparenza insignificanti (o quasi) a rivelarsi epifaniche, come ci ha insegnato un grande scrittore irlandese del secolo scorso. E se la causa della “paralisi” della modernità fosse proprio da ricercare in questa attitudine che toglie la parola al dubbio imponendo ciò che deve essere senza timor di smentita, che si autoricicla (compiacendo in questo modo la svolta green) regalando diritti e sollevando dai doveri, setacciando quel che è giusto rispetto a ciò che è sbagliato in base a un’arbitraria interpretazione del progresso?
Mi limito a segnalare tre episodi, del tutto indipendenti l’uno dall’altro ma uniti da un medesimo filo conduttore, chiaro segnale di un processo in corso all’apparenza irreversibile.
Mi permetto, prima di tutto (preciso: da persona che si è vaccinata e si sottoporrà a qualsiasi “upgrade” tipo il Norton antivirus), di stigmatizzare l’atteggiamento di tale Enrico Mentana e di tutti coloro che si sono espressi con grida di giubilo in risposta alle sue parole affidate a un social.
Innanzitutto, tralasciamo la casistica “no-vax”, etichetta ormai abusata un po’ come il fascismo, talmente di moda in questo periodo storico da rivelarsi un ottimo investimento per tanti, troppi scrittorucoli senza coda ma con un capo ben definito. Di veri e autentici “no-vax”, in giro e tra quelli che occupano le piazze per contestare le iniziative dei vari governi, ne esistono veramente pochi. Chi continua a prendere posizioni ostinate e contrarie rispetto alla vulgata pandemico-sanitaria non è semplicemente un imbecille oppure un “accademico cretino”, come ho sentito definire, su un famoso social, una persona che stimo e che oltretutto è un “mio” autore: Francesco Benozzo nutre diversi dubbi e combatte la propria battaglia. Sbagliando, probabilmente (ma non sicuramente: chi ha la verità, quella indiscutibile e inattaccabile, a portata di tasca?). Ecco, inorgoglirsi per non aver mai chiamato un “no-vax” in trasmissione (ripeto: solo definire “no-vax” un “dissidente” al vaccino sarebbe degno, secondo me, in una società “civile” cui tanto si appellano i democratici moderni, di licenziamento immediato), mi fa riflettere sul fatto che la scienza (molto fallace, in questi ultimi due anni, visto e considerato che si è trovata un giorno sì e l’altro pure a contraddire la posizione espressa il giorno precedente, che oltretutto non è mai stata univoca, ma diversa da scienziato a scienziato) sia diventata il vero dio della modernità. L’unico possibile. E che i più grandi democratici del nostro paese, quelli che a parole si schierano apertamente con i meno fortunati e si mostrano sempre disponibili e amorevoli nei confronti del prossimo, onorano e candeggiano l’alterità, diano la miglior prova di loro stessi accogliendo con tifo da stadio la posizione del Mentana. Dunque, per lorsignori democratici, l’opinione dell’altro va sempre bene ma se riflette la loro stessa posizione. Non appena se ne allontana, non solo si prendono le distanze: no, non deve neanche avere la possibilità di esprimersi, di manifestarsi. Alla faccia di Voltaire. Tra le due categorie di “fascisti” individuate dal grande Ennio Flaiano mi sembra sia rimasta solo la seconda, che però fa fortuna (mediaticamente ed editorialmente parlando) criticando la prima, oltretutto fuori tempo massimo di alcuni decenni. “Sulla salute non ammetto il Bar Sport”, ha specificato il giornalista. Bene, occorrono due precisazioni: il Bar Sport, rispetto alle modalità di informazione che si sono via via delineate nel corso degli ultimi anni grazie all’avvento dei social, era un luogo di alta cultura e pure di confronto. E se “Bar Sport” in questa accezione non deve essere, mi spieghi, il signor Mentana, se i talk durante i quali i vari politici e intervistati si scannano tra loro sbraitando e sovrapponendo le loro voci, generando così una cacofonia insopportabile che annichilisce lo spettatore, siano da considerare appartenenti alla Premiata Pasticceria del Giornalismo. Fosse solo il problema della salute.
Altro “episodio” decisamente preoccupante (per il sottoscritto, s’intende) è quello che ha visto la Commissione europea proporre l’abolizione della parola “Natale”, per sostituirla con un generico “festa”. “La mia iniziativa di redigere linee guida come documento interno per la comunicazione da parte del personale della Commissione nell’espletamento del loro lavoro aveva un obiettivo importante”, ha dichiarato la commissaria europea all’Uguaglianza Helena Dalli: “Illustrare la diversità della cultura europea e dimostrare la natura inclusiva della Commissione europea nei confronti di tutti i percorsi di vita e i credi religiosi”. Ma il dossier che proponeva alcuni suggerimenti su cosa si potesse dire e cosa no, ha creato non poche proteste e alla fine è stato ritirato (anche perché, mi chiedo: ma chi offende?). Possiamo dire “per fortuna”, anche se il problema rimane e certamente si ripresenterà, come i canti di Natale da abolire nelle scuole o il crocifisso da rimuovere. Resta il fatto che, se questi ultimi due tipi di recriminazione si appellano alla laicità dello stato e della scuola – dunque, in teoria, avrebbero ragion d’essere, tanto che il sottoscritto eliminerebbe qualsiasi riferimento religioso dalle aule scolastiche –, l’utilizzo di un generico “festa” al posto di Natale è un’idiozia bella e buona. Prima di tutto, perché offende solo il buonsenso (quello che c’era ma se ne stava nascosto); in secondo luogo, perché il Natale è Natale, cade il 25 dicembre e non è “sostituibile” in base ai chiari di luna e agli umori di lorsignori, nel senso che è Natale e nient’altro, a meno che, per una coincidenza di calendario, non cada di domenica. Dunque, chi decide in qualche modo di festeggiare qualcosa – che sia la nascita di un bambino che ha rivoluzionato i connotati della storia, un’occasione per far baldoria, magari per riunirsi una volta l’anno, per scambiarsi regali e via dicendo –, il 25 dicembre celebra il Natale. Altrimenti mi permetto di suggerire alla Commissione di spostare alla domenica successiva al 25 la suddetta celebrazione, in modo tale che ognuno festeggi la festa che vuole e “festa finita”. Il 25 dicembre, da adesso in poi, diventi pure un giorno feriale qualunque. Così non si offende nessuno.
Ultimo episodio, anche se non in ordine di tempo. So bene che, in questo caso, urterò senz’altro la sensibilità di qualcuno. Ma ho deciso di correre il rischio.
Il misfatto riguarda un caso di palpeggio diventato improvvisamente “violenza sessuale”, con tanto di daspo e sicuramente condanna dell’imputato (o meglio, degli imputati, perché alla fine i palpeggiatori si sono rivelati due). È andata così: dopo la partita Empoli-Fiorentina di sabato 27 novembre, un’aspirante giornalista di Toscana Tv, Greta Beccaglia, cerca di intervistare qualche tifoso “a caldo” alla fine dell’incontro. Probabilmente troppo a caldo, visto che un supporter della Fiorentina, la squadra sconfitta negli ultimi minuti, passando velocemente davanti alla telecamera non si fa intervistare e la palpeggia. Sia chiaro: gesto volgare, brutto, stupido, da condannare senza appello. Il video diventa virale nel giro di qualche ora. Apriti cielo. L’ira funesta delle donne (che in effetti hanno ragione) si abbatte sul malcapitato, così scatta la caccia al mostro. Grazie alle immagini, il mostro è facilmente individuato e, come da copione, viene sbattuto immediatamente in prima pagina. Si tratta di Andrea Serrani, un ristoratore marchigiano di 45 anni che, grazie alla pacca sul sedere della giornalista, vede la sua vita trasformarsi in un incubo nel giro di qualche ora e andare in frantumi. L’opinione pubblica si divide tra la “goliardata” del Serrani (marginale) e la molestia sessuale, che, trascorrendo i minuti, diventa violenza grazie anche (e soprattutto) all’esasperazione dell’accaduto e alla gogna mediatica che si abbatte sul criminale. Chi scrive non giudica il gesto né una semplice goliardata, né una violenza sessuale, bensì una molestia. Una molestia che purtroppo viene vissuta, secondo declinazioni e modalità diverse, da moltissimi lavoratori (donne, ma anche uomini) ogni santo giorno, ma che purtroppo quasi sempre non fa rumore. Per fare un esempio, pur riferendomi a una problematica decisamente più grave e imparagonabile: le tre persone che in media perdono quotidianamente la vita sul posto di lavoro sono notizie “appetibili” solo quando parlano gli indici Istat. Il rumore mediatico lo scatena il caso che emozionalmente può smuovere altri indici, che purtroppo sono quelli di ascolto.
Nel caso di Greta, sono poche le attenuanti per il Serrani, anche se un po’ di buonsenso (quello che c’era ma se ne stava nascosto) dovrebbe farci riflettere. Distruggere la vita e rischiare di compromettere il lavoro di un essere umano che pure tiene famiglia, così, da un giorno all’altro, cercandolo sui social e sputandogli addosso le peggiori offese, non è un segnale incoraggiante sullo stato di salute del nostro tempo, pur lasciando da parte il Covid. Sorvolo sulle modalità utilizzate dalle varie testate giornalistiche per gettare benzina sul fuoco. Serrani si è scusato, ben sapendo che le scuse non basteranno. La Beccaglia sostiene di non aver più dormito e di aver vomitato continuamente. L’unica conseguenza “positiva” del misfatto sono i followers sui social che, nel giro di qualche giorno, sono aumentati di oltre centomila unità.
L’episodio è costato caro anche al giornalista Giorgio Micheletti, conduttore di “A tutto gol”, su Toscana Tv, reo, secondo l’opinione pubblica del massacro, di non aver difeso Greta durante l’aggressione. Ci sono immagini (e commenti) che parlano da soli, ed è meglio non lasciare ai post l’ardua sentenza, che ardua, in effetti, non sarebbe. Micheletti, sospeso (momentaneamente?) dalla trasmissione, è un’altra vittima sacrificale di un caso sì grave, ma mediaticamente sproporzionato e politicamente (purtroppo) correttissimo.
Vorrei concludere con una nota personale. Greta Beccaglia sta compiendo il proprio percorso professionale per diventare giornalista: le auguro di riuscirci al più presto. Ma vorrei che ci riuscisse per le sue doti, appunto, professionali, e per le sue capacità. Perché lo so, a pensar male si fa peccato, ma ho notato, soprattutto negli ultimi anni, una presenza sempre più consistente di ragazze (belle ragazze: attenzione) all’interno delle trasmissioni sportive. Presenze che poco hanno a che fare con la competenza e tanto con la bellezza. Ecco, secondo chi scrive per “pari opportunità” dovrebbe intendersi il compimento di un medesimo percorso, da parte di uomini e donne, per il conseguimento di un ruolo o una posizione professionale da raggiungere solo ed esclusivamente grazie alle doti manifestate e al valore del curriculum: non a fenomeni di “familismo amorale”, convenienza o, appunto, bellezza. Perché se una donna raggiunge il proprio obiettivo grazie alle proprie grazie (scusate il gioco di parole), non è anche questo sessismo, ma di segno opposto? Dove sono, in casi come questi, le recriminazioni di parte femminista sulla cosiddetta “donna-oggetto”?

MARINA MONTESANO
(TRA)VESTIRSI DA DONNA A SCUOLA. ALCUNE CONSIDERAZIONI SU UN CASO RECENTE
Gli insegnanti, in particolar modo i docenti che lavorano nella scuola, sono una categoria che nell’insieme merita di essere difesa: lavorano con stipendi bassi, con pochi mezzi e in classi spesso troppo affollate; talvolta gli studenti mancano loro di rispetto, al pari dei genitori, e in casi sia pure rari subiscono violenze che poi sono punite in modo lieve, come se aggredire una professoressa o un professore fosse una ‘ragazzata’. Questo, tuttavia, non significa che tutti gli insegnanti abbiano sempre ragione e siano bravi. Ricordo fra ginnasio e licei docenti ai quali devo molto, e altri che non avrebbero dovuto insegnare dati i loro problemi caratteriali o di preparazione. È così in tutte le categorie, naturalmente. La premessa è necessaria per parlare del caso, che ormai è stato commentato sui giornali e in tv, del prof. Martino Mora, il docente che si è rifiutato di far lezione in una classe dove alcuni ragazzi erano vestiti da donna; in seguito al suo rifiuto alcune classi sono scese in sciopero e adesso si attende di conoscere in quali sanzioni disciplinari incorrerà il docente per aver abbandonato il posto di lavoro.
Verrebbe quasi da difenderlo, solo contro tanti ragazzi e contro una istituzione che non lo protegge. Le cose, però, non stanno esattamente così. Il professore ha ricevuto la solidarietà di forze politiche come Fratelli d’Italia e di tanti giornali di destra; la sua pagina Facebook, che volutamente rende pubblica, è ricca di followers che lo accompagnano nelle sue battaglie: contro i vaccini; contro Draghi del quale scrive: “Con il suo sguardo freddo, da rettile, il sacerdote del dio denaro, il banchiere dei banchieri, il delegato di Wall Strett (sic), l’amico di Big Pharma, l’uomo di fiducia degli strozzini globali, il mandatario degli usurai, il freddo tiranno del capitale ha emesso le sue sentenze. Tra queste l’obbligo vaccinale per gli insegnanti. E poi per le forze dell’ordine. È questo il nuovo giuramento di fedeltà al regime pluto-psico-sanitario, il nuovo assenso forzato preteso dal dispotismo assoluto del freddo plutocrate con lo sguardo malvagio da rettile”. Contro il pontefice, definito “nella sua essenza, una bestia bicefala. È un mostruoso animale con la doppia testa. Un (sic) testa è l’ignoranza, l’altra è la malignità. Entrambe si sostengono e si alimentano a vicenda. La sua manifesta ignoranza teologica, la sua assoluta insipienza e rozzezza intelletttuale (sic), sono inscindibili dalla malvagità di che (sic) volle organizzare in Vaticano la scandalosa, abominevole (nel senso del biblico ‘abominio della desolazione’) idolatria della dea Pachahama (sic: è Pachamama). Se rimaniamo nei paragoni ispirati alla zoologia, potremmo anche dire che Bergoglio ricorda molto il capro. Infatti spesso diciamo ‘ignorante come una capra’, perchè essa è simbolo di chi nulla sa. Ma il caprone è anche simbolo di preternaturale malvagità. Ed è in entrambi i sensi a non essere affatto peregrino l’accostamento di tale bestia a Jorge Mario Bergoglio”.
Il senso delle istituzioni, il professor Mora, pensa di rappresentarlo bene con la sua giacca e cravatta; mentre questo evidentemente gli pare un linguaggio consono; certo, non lo esprime in classe (spero), ma nella scuola di Gentile e Gramsci alla quale sostiene di ispirarsi non credo che i docenti si esprimessero così pubblicamente.
Veniamo comunque al caso che l’ha reso celebre. Nella giornata dedicata alla violenza contro le donne, in segno di solidarietà con le compagne, molti studenti si sono presentati in classe vestiti di rosso, altri un po’ ovunque hanno indossato una gonna. Non è chiaro se abbiano voluto provocare indossando più di una gonna, cioè rasentando il vestirsi in maschera, come sembra di capire da qualche giornale, ma questo il docente non lo dice, anzi sul tema dichiara con estrema chiarezza il suo pensiero: “non potrò mai accettare nessun travestitismo, di nessun tipo, durante le mie ore di lezione, poiché esso è oggettivamente inaccettabile per il rispetto che mi è dovuto, sia in quanto persona che in quanto pubblico ufficiale, ma ancora di più per il rispetto che si deve all’istituzione scolastica. […] Sui principi non si negozia. Non esiste alcun diritto al travestitismo (di qualsiasi tipo) in classe, nè mai esisterà”.
Ora, non so quali siano i principi del prof. Mora, anche se dai suoi post qualcosa si capisce, ma certamente non sono i principi di legge. Non c’è alcuna legge, infatti, che proibisce a un uomo di vestirsi con la gonna. Rievoco un aneddoto simpatico accaduto negli anni ’80: un membro di una band irlandese, i Virgin Prunes, in tour in Italia, si fece una passeggiata per Firenze in abbigliamento punk e in gonna. Fu fermato da polizia o carabinieri, non ricordo esattamente, brevemente tratto in arresto, ma poi rilasciato perché i tutori dell’ordine si resero conto che, per quanto strampalato potesse sembrargli l’abbigliamento, non era reato. Nemmeno nell’Italia degli anni ’80.
Certo, ma a scuola? Molti istituti hanno un dress code, per esempio per proibire ai ragazzi di andare contro il decoro pubblico arrivando in ciabatte d’estate: la scuola non è una spiaggia. Ma se il ragazzo si presenta in elegante tailleur con gonna, quale decoro infrange? Di fatto, con buona pace di quanti straparlano di “ideologia gender” (espressione usata da quelli che non sanno bene qual è il dibattito oggi in corso su sesso biologico, genere e così via), come potrebbe mai essere proibito? Significherebbe in primo luogo proibire a uno studente (o studentessa) transgender di presentarsi in classe con l’abbigliamento che ritiene consono al suo status: tale proibizione sarebbe un atto palesemente discriminatorio, punito dalla legge (per fortuna). Sfido chiunque a portarmi un passo di legge in cui si parla di tale proibizione: non c’è. Certo, c’è un passo del Deuteronomio (22:5) nel quale si legge: “La donna non si vestirà da uomo, né l’uomo si vestirà da donna; poiché chiunque fa tali cose è in abominio all’Eterno, il tuo Dio”. Da cattolico tradizionalista, magari il prof. Mora pensa appunto a quella pagina biblica: però a quel punto egli dovrà fare attenzione al tessuto dell’abito buono che indossa a scuola, dal momento che la stessa lapidazione prevista per le inversioni d’abito è nel Libro Sacro riservata anche ad altri: “Non ti vestirai con un tessuto misto, fatto di lana e di lino insieme”, prosegue difatti il testo deuteronomico.
Ma lasciamo pure perdere le leggi dello Stato e quelle del Vecchio Testamento. Al di là di esse, infatti, l’episodio è un’occasione persa per parlare con i ragazzi della violenza certamente, che era il tema del giorno, ma anche del fatto, magari, che è interessante vedere come, per ‘vestirsi da donna’ i ragazzi immediatamente pensino alle gonne; che molte ragazze non indossano, perché portano i pantaloni. Il genere meno ‘libero’, quello femminile, è negli abiti assai più fluido di quello maschile, che appare legato a un concetto di mascolinità a senso unico, per cui i pantaloni sono maschili e femminili, ma gonne e sottane solo femminili, mai maschili, se non sei nelle Highlands scozzesi (o fra i prelati della Chiesa romana ancora fedeli alla talare). Tutto questo evidentemente viene sentito come ‘ideologia gender’, per stare nei termini del docente e dei suoi sostenitori, che hanno ormai preso come Leitmotiv il libro di Paola Mastrocola e Luca Ricolfi, Il danno scolastico. La scuola progressista come macchina della disuguaglianza, citato a tutto spiano per mostrare i danni del politicamente corretto, del (parola orribile, scusate) ‘buonismo’, dei progressisti di sinistra (ma dove sono le proposte concrete delle destre, qual è il loro modello di insegnamento? Eppure di anni al governo ne hanno passati…) che hanno ucciso la meritocrazia, e mettiamoci pure anche del ‘gender’. Il tutto, credo, ben al di là di quanto voluto dai due autori. Di fatto, è in primo luogo la mancanza di fondi a uccidere l’istituzione: fondi per il doposcuola, per il tempo lungo, per insegnanti di sostegno, per offrire ai docenti la possibilità di aggiornarsi seriamente, per un’edilizia decorosa, ossia per gli unici strumenti che davvero potrebbero qualificare diversamente la scuola, succube della poca attenzione, del poco peso che la società nel suo complesso ha deciso di dedicarle.

FRANCO CARDINI
MALA SCHOLA, PEIORES MAGISTRI, PESSIMA TEMPORA CURRUNT
La magari doverosa, forse dolorosa, senza dubbio a tratti anche ridicola discussione “a più voci” di questo “caso” (una fra i millanta) di malascolarità italica è durata anche troppo. Lungi da me la tentazione di arrogarmi il diritto di pronunziare al riguardo una parola definitiva. Ma siccome tutto è cominciato da qui – dall’idea di un caro Amico ch’è a tutt’oggi pregiato collega e che a suo tempo (Dio lo perdoni) è stato anche mio allievo universitario e postuniversitario – di rivolgersi a me per chiedermi solidarietà nei confronti di un soggetto che non ho il dispiacere di conoscere (e che non chiamerò qui per nome) ma ch’è a sua volta, in quanto insegnante, suo e mio collega, e dal momento che non è mio costume nascondermi dietro a un dito, dirò sinceramente, lealmente e serenamente quel che penso al riguardo.
In questa specie di novella batracomiomachia ch’è stato, e continua ad essere, lo scontro fra un (lo definirò gramscianamente) “Nipotino del Padre Bresciani” e alcuni giovani emuli di Mrs. Doubtfire, non avrei voluto entrarci: e avevo del resto molto altro da fare. Ma Domenico Del Nero, valente professore di scuola secondaria amatissimo dai suoi allievi (anche da molti che la pensano – e ci vuol poco – in modo molto diverso dal suo) mi chiede solidarietà per un collega fatto segno di grave mancanza di rispetto se non addirittura di vero e proprio linciaggio etico-politico prima di tutto da alcuni studenti interpreti di malintese libertates decembris, quindi di tutto un settore del nostro mondo politico o quantomeno della ohimè alquanto estesa parte di esso che usa esprimersi attraverso i social.
Agli amici non dico mai di no. Inoltre, per principio – e tanto per rievocarla a mia volta come ha fatto il protagonista di queste nostre pagine –, anch’io preferisco di gran lunga la scuola “di Croce, di Gentile, di Gramsci” a quella ch’è divenuta da noi dopo gli Anni Settanta e al baratro nel quale è precipitata da qualche tempo. D’altronde, sono purtroppo un contemporaneo non già di Croce, di Gentile e di Gramsci, bensì di giganti quali la signora Gelmini e altri peggiori di lei che ci hanno ridotto a questo punto.
Tuttavia, prima di presentare il mio debole e sommesso pensiero, sento l’obbligo di ricordarvi un’ulteriore cosetta. L’autorevole scuola posteriore alla Riforma Gentile e ch’è rimasta in piedi sino alla Prima Repubblica (e, per gran parte di essa, decorosamente) aveva a sua volta eccome il suo bravo Peccato Originale: era nata come la scuola di Lorsignori che avevano fondato l’Unità italiana e che peraltro con essa e con il provvedimento (che a ragione molti oggi rimpiangono) della leva militare obbligatoria avevano a loro volta inteso – e sia detto a loro gloria, per quanto abbiano fallito – “fare gli italiani” dopo che l’Italia unita era stata fatta e, com’essi stessi si erano ben presto accorti, era nata maluccio. Tale scuola, con i suoi tetri fasti malamente incensati dall’intollerabile Cuore di De Amicis con il buon maestro Perboni e il virtuoso e stupidissimo padre di Enrico dalle indigeribili performances epistolografiche, era una maledettissima scuola di classe: e ribadisco con orgoglio di essermi a suo tempo associato con tutta l’anima all’Elogio di Franti del grande Umberto Eco. Peccato solo che gli emuli di Mrs. Doubtfire non siano riusciti ad adeguatamente rispondere al Nipotino del Padre Bresciani come Nipotini di Gianburrasca, ché in tal caso avrebbero avuto diritto al mio imperituro elogio. Non ce l’hanno fatta. Carenza di humour o – in tempi di tablet e di e-book – solo di buone, adeguate letture?
Torniamo quindi al protagonista involontario di questo Minimum Cardinianum 355 che, sia chiaro, gli dedico malvolentieri. Ho già detto che non lo chiamerò per nome e cognome: poiché il far ciò indicherebbe comunque un segno di stima che non mi sento di concedergli. Sia chiaro che non assumo questo atteggiamento in quanto l’amico Del Nero mi ha avvertito ch’egli ha preso in alcune circostanze posizione in modo sfavorevole rispetto a questa o a quella delle mie dichiarazioni: non ho approfondito in materia e non ho alcun interesse a venir a conoscenza di quanto egli pensa di me; tantomeno a replicargli. Egli però – a quanto mi dicono amici esperti di quel chiacchiericcio informatico che ama tanto e dal quale invece io aborro – ha più volte proferito in modo irriguardoso e osceno i suoi miserabili apprezzamenti negativi nei confronti del grande pontefice che la Volontà divina Dio ci ha fatto la grazia e l’onore di ricevere dopo l’abdicazione di Benedetto XVI. Come dice Tamino a proposito di Sarastro, das ist mir schon genug!: con chi insulta bassamente papa Francesco non voglio aver nulla a che fare. Mi concedo un’eccezione solo per un amico quale Domenico Del Nero: mea culpa se gli sono stato a suo tempo Maestro involontariamente cattivo al punto da spingerlo ad aberranti, blasfeme poesiole che peraltro non gli perdono.
E, già che ci siamo, insisto su questo argomento ribadendo per chi ancora non lo conoscesse il tormentone del mio Identikit politico-culturale: ormai da parecchi anni io sono e mi definisco semplicemente Cattolico, Socialista, Europeista, nell’ordine (di valore decrescente) di questi tre aggettivi: e siccome ho sulla coscienza varie migliaia di scritti tra volumi, saggi, articoli, elzeviri e recensioni, mi esimo qui dal ribadire in che senso ho scelto di declinarli. Ma, come ho confermato nelle prime righe di un mio libro che molto amo in quanto breviario del mio “reazionarismo guevarista”, Gesù, la falce, il martello (Edizioni La Vela), sono e resterò sempre un cattolico tradizionalista e un allievo della Compagnia di Gesù perché là, in quel terreno fecondato a partire da Francesco d’Assisi, da Iñigo de Loyola e da Donoso Cortés fino ad Attilio Mordini, sono profondamente piantate le mie “radici che non gelano”. E il cattolicesimo romano – lo ricordava gravemente appunto Mordini a noialtri suoi allievi, quattro gatti tentati al tempo del Vaticano II dall’irriverenza nei confronti di papa Giovanni XXIII – è anzitutto disciplina, inscindibile peraltro dalla carità cristiana. Fummo richiamati all’ordine allora, nei tempi lontani di quasi mezzo secolo fa in cui l’albero della Chiesa fiorentina di Dante, di Papini, di Giuliotti, di Facibeni, di Dalla Costa e di La Pira veniva scosso dal vento impetuoso dei don Milani, dei monsignor Bensi, dei padre Balducci, dei padre Turoldo, dei tempi dell’Obbedienza-Non-È-Più-Una-Virtù ai quali siamo poi stati più volte invitati a ripensare a partire dal paradossale, tragico magistero filologico-spirituale di Pier Paolo Pasolini. E proprio a Lui, al Grande Friulano, mi è capitato di ripensare qualche giorno fa allorché Del Nero mi ha invitato a dare un’occhiata alla bagarre tra colui che, non degnandomi di chiamarlo per nome e cognome, designerò d’ora in poi come “il Collega”, e i ragazzacci suoi allievi contestatori. Mi domando infatti, pasolinianamente, se in fondo il Collega che – al pari dei questurini di allora – è probabilmente un “figlio del popolo” non sia pur sempre da preferirsi ai ragazzacci i quali in fondo sapevano bene (e sanno) di non rischiar nulla di serio e che sono probabilmente “figli di fascisti” (almeno in quel senso vastissimo e malinteso secondo il quale è ormai uso parlar di “fascismo”: un senso nel quale rientra anche il “fascismo degli antifascisti” dell’indimenticabile Ennio Flaiano, tanto simile e parallelo al “razzismo degli antirazzisti”).
E, giunto al fin della licenza, io tocco: almeno così avrebbe detto il mio prediletto Cyrano de Bergerac, ermetista e libertino ormai purtroppo dimenticato dalla cialtroneria intellettuale sia della destra, sia della sinistra; monsieur Cyrano, che amo nonostante sia un loyolista. Del Nero e altri amici cari mi chiedono solidarietà nei confronti del Collega. Non sono per nulla convinto ch’egli apprezzi tale solidarietà, visto da chi gli proviene: ma, dal momento che di quel che pensa lui sovranamente io mi strafrego, gliela concedo in tutta serietà concettuale, facezie a parte. Tuttavia essa non è, sia chiaro, solidarietà totale e incondizionata. Eccone i limiti.
Il rispetto reciproco dev’esser la prima cosa, in una società civile: è quel che abbiamo da tempo dimenticato e che ci perderà, se non ci ravvediamo in tempo. Ma reciprocità non significa affatto egalitarismo: il rispetto sacrosanto che il docente deve ai suoi allievi, e che è o dovrebb’essere sostanziato di affetto e di senso della responsabilità, è diverso e meno intenso a paragone di quello dagli allievi dovuto al docente, che è o dovrebb’essere sostanziato di gratitudine e di ossequio all’autorevolezza e alla magisterialità. Lo studente della media superiore, ch’è quasi e in certi casi addirittura già un adulto, anche nei giorni dedicati al rispetto per la donna deve disporre di strumenti intellettuali e di dignità che gli consentano di manifestare il proprio disagio nei confronti di una scuola ch’egli ritiene inadeguata o perfino di un docente gli insegnamenti del quale non voglia o non possa in tutto o in parte condividere. Proviamoci, amici studenti, a sostituire il rossetto, le gonne e i tutù (indossare e ostentare i quali non costituisce reato, ma offende la proprietà e la dignità di chi in certi contesti li indossi oltre a quella dell’istituzione scolastica, che richiede proprietà e decenza) con il dibattito costruttivo, con la conversazione pacata. Il punto è che per voi e per la preparazione alla quale decenni di débacle scolastica vi hanno ridotto, costringendovi all’afasia culturale e intellettuale, le piazzate clownesche sono una comoda scorciatoia e un succedaneo che voi considerate efficace rispetto alle idee serenamente espresse e severamente esposte e articolate. Le giullarate medievali (rileggetevi il Curtius, leggete il Boitani…) erano ben altro. Qui sta la buccia di banana sulla quale scivolate voi, scivola la scuola e scivoliamo tutti.
Ma all’estremo opposto dello squallore della proposta che almeno teoricamente gli studenti intendevano presentare attraverso l’ostentazione della protesta, c’è l’arcigna afasia del docente il quale, comportandosi da divinità offesa, tenta maldestramente di sottrarsi al confronto che ha il dovere di sostenere: e lungi dal maestosamente ritirarsi nei suoi penetrali scappa come un grosso conigliaccio abbandonando a se stessa la classe tutta, affidandosi a una “ritirata sull’Aventino” che nelle intenzioni sarebbe una dura condanna di chi lo ha offeso mentre, nella realtà delle cose, è come tutte le ritirate sull’Aventino (quella del ’24 insegni…): una fuga e un’abdicazione. Vana pertanto vana risulta a quel punto la chiamata di correo che il Collega cerca d’inviare alla preside, la quale anzi risponde – mi chiedo a sua volta quanto correttamente – rilevando le scorrettezze e gli atti irrispettosi di un docente che, ora, a lei vorrebbe ricorrere per ottenere appoggio autorevole (e autoritario) al fine di ristabilire a suo vantaggio uno squilibrio nei confronti dei suoi studenti che invece a quel punto a quel che mi dicono gli voltano compatti le spalle. E su ciò chiedo quale sia l’avviso di Domenico Del Nero, che in circostanze per nulla analoghe ma comunque segnate da polemici malintesi ha ottenuto la solidarietà dei suoi allievi compresi quelli che la pensavano politicamente in modo diverso dal suo. E sorgerebbe spontaneo il chiedersi se invece il Collega non disponesse magari, nella sua classe, di ragazzi che sarebbero stati di avviso politico affine al suo, ma la fiducia e il rispetto dei quali ha perduto col suo comportamento.
Eccoci quindi arrivati al nòcciolo della questione. Il Collega pretende da chi tratta con lui una disciplina che oggi più nessuno all’interno delle mura scolastiche è in grado di (e magari nemmeno disposto a) imporre dall’altro, ma che è necessario conquistarsi volta per volta: che nasce cioè non comodamente dall’autorità, bensì scomodamente dalla stima. Egli finge di non accorgersi nemmeno della sua iniquità allorché definisce baldamente “princìpi” le sue personali idee, come se esse coincidessero con una verità obiettiva, e derubrica sprezzantemente a “ideologie” le idee altrui come se fosse assodato ch’esse siano aberranti. Egli si aspetta dai suoi studenti e dalla sua preside un rispetto che d’alto canto non è affatto disposto a dimostrare per primo agli altri (e in effetti, da quel cattolico tutto d’un pezzo che è, non lo accorda nemmeno al papa). Egli si qualifica come “tradizionalista e anticomunista”: a me pare piuttosto che lo si potrebbe definire un theoconservative, e magari così come si dice nella douce France dove con perfida finezza l’abbreviazione théocon si risolve in un neologismo elleno-anglo-gallico flessibilmente ricco di doppi sensi che mi paiono adeguati alla nostra bisogna. E il Collega théocon, fedele all’estetica e alla dogmatica legittimate da un Grande Reazionario Brasiliano cui si deve un dotto saggio consacrato alla “funzione sociale del latifondo” (sic), Plinio Correa de Oliveira – il cui pensiero di traduce nel trinomio “Famiglia, Tradizione e (soprattutto) Proprietà” –, pensa alla scuola come a un Tempio al quale si acceda decorosamente solo se chiusi nell’uniforme all’Oliveira sommamente cara, la borghesissima giacca-e-cravatta considerata come una specie di abito cavalleresco laddove ormai è quel che è, vale a dire la mise prediletta dei Borghesi-Piccoli-Piccoli di monicelliana e sordiana memoria.
Ebbene: nossignori, la scuola non è un Tempio. Non lo è mai stata: neppure ai tempi della Scuola d’Atene chiusa da Giustiniano e dipinta da Raffaello, nemmeno ai tempi delle scholae di Chartres e di Parigi ai nostri giorni tanto magistralmente illustrate da Gregory e da de Libera. La scuola è un atélier civile e sociale nel quale ci s’incontra fra generazioni diverse per sviluppare dinamiche concettuali e metodologiche, per imparare a ragionare sistematicamente e quindi per stabilire il bilancio del passato, considerare il presente e pianificare il futuro: la sua crisi, se e quando si verifica, è la misura del pericolo che una società civile sta correndo e rispetto alla quale verifica e ridefinizione sono urgenti e indispensabili. Piaccia o no, questa è una guerra: e à la guerre, comme à la guerre. Siamo in prima linea: appellarsi alla maestà e all’autorevolezza degli studi non serve; la nostalgia del buon tempo antico nel quale i docenti insegnavano, le famiglie seguivano il loro lavoro con coscienza e gratitudine e gli studenti parlavano principalmente se interrogati può anche essere una panacea per professori in pensione, ma non serve più. Oggi bisogna ricominciare praticamente da zero, sulla base di un rinnovato rispetto reciproco e di un riconquistato senso del dovere civile.
La cosa triste è che da ora in poi per alcuni giorni il Collega sarà fatto oggetto di osanna e di crucifige, agli studenti che lo hanno provocato non succederà praticamente nulla (a parte che nessuno oggi può immaginare che cosa succede all’interno delle mura degli appartamenti di civile abitazione; e fatto salvo il caso di sparatorie, che nelle scuole italiane non si sono ancora verificate) e tutto procederà come prima, con l’avanzare dell’ormai galoppante degrado delle istituzioni scolastiche del quale lo stesso Messia Draghi – ormai affaccendato in altre faccende, dall’inflazione al dialogo per certi versi surreale con Macron – non sembra per il momento curarsi quanto forse dovrebbe. Nell’attesa che i sordi smottamenti, dei quali il “caso” del Collega è uno dei sintomi – divengano frana. Ma la popolazione italiana invecchia: gli studenti si vanno rarefacendo, il che concorre a far scendere un po’ la scuola di qualche riga nell’agenda delle priorità. A meno che tutto ciò non si trasformi in una prioritaria “questione morale”: ma, come diceva quel tale che nei primi giorni del ’25, allorché proferì a sua volta quella che suonò come una sinistra profezia, era capo del governo italiano, “tutti sanno che fine patetica fanno in Italia le questioni morali”.