Domenica 19 dicembre 2021, IV Domenica d’Avvento
Magnificat Anima Mea Dominum
I RACCONTI DI NATALE DI FRANCO CARDINI
L’ORAFO MATTEO, GIUDITTA E L’ANGIOLETTO
Si svegliò ancora più tardi del solito, e col solito cerchio alla testa: ma, dopo una vita, non ci faceva più caso. E poi, ormai non aveva più importanza. Guadagnò svogliatamente il bagno, dove impiegò come sempre un tempo esagerato per le abluzioni mattutine. Poi salì i tre stretti scalini fino al cucinotto sistemato nella piccola mansarda: mise su la napoletana per il caffè, riflettendo che a quell’ora sarebbe stato piuttosto il caso di farsi due uova o un piatto di pasta in bianco, i malinconici manicaretti da single dei quali viveva da anni.
Certo però, dalla finestrella della mansarda la vista lo rinfrancava: un pezzo d’Arno, lo scorcio di Piazza Demidoff e la facciata di San Miniato lassù in alto. Trovar quell’appartamentino di trentacinque metri quadrati in cima a una vecchia casa-torre, a due passi dal Ponte Vecchio, era stata una delle poche fortune della sua vita.
Tornando nel minuscolo soggiorno con la tazzina di caffè in equilibrio, lo sguardo gli cadde come ogni mattina sull’unico quadro appeso alla parete: una falsa pergamena fiorentina, scritta in un improbabile gotico pieno di fregi dorati e colorati e chiusa in una semplice cornice. Era datata 1° dicembre 1965, giorno di sant’Eligio, patrono di orefici e argentieri, e recitava: Al Piccolo Principe degli Orafi fiorentini, il Matto Matteo, i colleghi di Ponte Vecchio. Con ammirazione. Sotto, appuntata, una piccola medaglia d’oro che riproduceva il fiorino di san Giovanni.
L’“Orafo Matteo”, o il “Matto Matteo”, come lo chiamavano tutti fin da piccolo per le sue stranezze e i suoi improvvisi e immotivati scoppi di rabbia, quella medaglia se l’era guadagnata ad appena cinque anni con un piccolo capolavoro, un modellino di cera intitolato “L’Angioletto allegro” da cui suo padre – uno dei più celebri orefici di Firenze – aveva tratto una deliziosa statuetta d’argento venduta poi a caro prezzo e finita chissà in quale appartamento di Manhattan o di Beverly Hills. Quell’angioletto, il bambino-prodigio di cinque anni sosteneva di vederlo spesso, e anche di parlarci: era il suo compagno di giochi, l’Angelo custode. E lo chiamava così, familiarmente: Angelo.
Ebbene: ora, quel 24 dicembre, il Matto Matteo si apprestava a celebrare, solo come sempre, il suo cinquantesimo compleanno. L’Angelo, non lo vedeva più da almeno un paio di lustri. Del resto, le ultime volte che si erano visti erano state penose. Stavano tutti e due lì, seduti di fronte, nel soggiorno: e non parlavano. L’Angelo gli somigliava ancora, erano quasi due gocce d’acqua: era solo un po’ più alto e un po’ più magro di lui. L’ultimo piccolo modello di cera che aveva plasmato, e che non sarebbe mai diventato una statuina d’argento, era un ritratto dell’Angelo: in piedi, la testa un po’ reclinata, due ali appena accennate dietro la schiena, lo sguardo pensoso dinanzi a sé. L’aveva chiamato “L’Angelo triste”: e la figurina, ora, lo guardava dall’alto di un mobiletto a vetri. La cera aveva perduto i riflessi d’oro: era bigia, impolverata. E lui non si era fatto più vedere. Povero Angelo.
Comunque, la sua cena di compleanno era là, già pronta sul tavolo. In frigo, per accompagnarla, c’era a freddarsi una bella bottiglia di champagne Feuillatte debitamente millesimée. Si debbono pur rispettare gli anniversari. Le portate stavano disposte in fila, su un bel vassoio di terracotta dipinta. Il primo: un flacone con una decina di pillole rosse e rotonde, per cominciare, e poi un primo calice di champagne. Quindi, il piatto forte: quelle bianche e oblunghe, una buona trentina, e giù un altro bel bicchiere gelido di quel vino prezioso. Infine, il dessert: cinque o sei compresse rettangolari, blu, quasi nere. Colori alchemici, si disse: e sorrise. Dopo l’ultimo bicchiere di champagne, sarebbe arrivata la nigredo. Pallida, sonnolenta, indolore.
Un suono di campanello petulante, stridente, lo fece sobbalzare. Non aspettava mai visite: erano anni che nessuno saliva quelle vecchie scale strette fino a lassù in cima. Si accostò al citofono:
– Sììì… – disse piano, con eccessiva gentilezza, per far meglio notare all’importuno che la visita era sgradita.
– Apri, accidenti, che fa un freddo boia! – gli urlò nelle orecchie una voce fresca, un po’ metallica, con la “c” di San Frediano ma la “r” all’americana.
– Scusi, ma lei chi cerca?
– Dai, babbo, son Giuditta: chi ho a essere?
Il cuore ebbe un tuffo, il mondo si fermò di botto e solo la sua stanzetta si mise a girare come impazzita, sprigionando tutti i colori dell’arcobaleno.
– Come, Giuditta?… – balbettò aprendo la porta: ma fu investito da un uragano di baci, di profumo, di capelli bagnati, di mani lunghe piene di anelli che lo carezzavano dappertutto. Era sempre lei, proprio lei, i soliti occhi enormi, il solito sorriso da bambina.
Giuditta se n’era andata di casa, letteralmente sbattendo la porta, sei anni prima, quando ne aveva appena diciannove. Aveva lasciato quella casa troppo piccola dove ormai un uomo e una donna che non si amavano più erano condannati a vivere toccandosi e incrociandosi di continuo, in uno stato di mutismo perpetuo interrotto solo da liti che scoppiavano inaspettate, come temporali d’estate.
Quella ragazza, figlia di due che pur senza sopportarsi restavano insieme in fondo solo per lei, alla fine non ce l’aveva più fatta. Se n’era andata e aveva vissuto dapprima di espedienti, con equivoche compagnie, forse spacciando “roba”, forse peggio ancora, chissà… perché domandare? Ma nel suo nuovo mondo era andata meglio, a quel piccolo fiore d’acciaio. Aveva sfondato. Era riuscita a iscriversi a Stanford, aveva vinto una borsa di studio dopo l’altra, si era laureata in antropologia, tra pochi mesi sarebbe partita per una lunga spedizione in Asia centrale. Si occupava delle relazioni tra sciamani siberiani e sciamani native Americans. Un ciclone, una bomba. Del resto, mentre stavano lì nel soggiorno a chiacchierare fitto fitto, le mani nelle mani, Matteo rifletteva che l’aveva sempre saputo. Giuditta era stata un raggio nella bruma, l’unica cosa bella che lui e Maddalena fossero mai riusciti a fare di buono in vita loro. Forse era venuta così perché loro si erano sposati per amore, un amore fresco e pulito tra ventenni. Contro la volontà dei genitori, specie quelli di lei. Ma era vero che le cose non erano mai andate bene.
Meno di un anno dopo la festa dell’“Angioletto allegro”, quel maledetto 4 novembre del ’66 aveva sommerso il negozio e il laboratorio paterno, sul Ponte Vecchio. Matteo aveva continuato a studiare all’Istituto d’Arte, quindi era andato a bottega da Brandimarte, subito dopo da Penko. Il mestiere, l’aveva imparato eccome. L’ultima sua grande fatica era stata la partecipazione al restauro della Giuditta bronzea di Donatello: poco dopo era nata la bambina, e le avevano dato il suo nome. Poi la scalogna nera, i debiti, qualche malattia: Maddalena aveva sentito di averne davvero abbastanza; o magari aveva trovato un altro per consolarsi, chissà. Comunque, pochi mesi dopo la fuga di Giuditta, se n’era andata anche lei. Ma non era a nulla di ciò che Matteo stava pensando in quel momento. Si ricordò d’un tratto che non era solo il suo cinquantesimo compleanno: era anche la vigilia di Natale.
Si attaccò al telefono e chiamò il suo vecchio amico Fabio Picchi, il leggendario chef del “Cibreo” e del “Teatro del Sale” di Via de’ Macci.
– Fabio, m’è tornata ora senza preavviso la Giuditta dall’America: lo sai che ti adora. Trovami un tavolo per due stasera, voglio festeggiar da te con lei la vigilia di Natale!
– O Matteo, bischeraccio che ’un tu se’ altro! O che mi telefoni a quest’ora per chiedermi subito un tavolo? La vigilia di Natale? Guarda, ’un son mica Gesù Bambino che fa i miracoli! ’Un c’è libero nemmeno lo spazio d’una capocchia di spillo!
– Dai, ti prego!
– Ma che ti pare che se potessi ’un te lo troverei?
Non c’era nulla da fare. Salutò e riattaccò il telefono:
– Non ha proprio posto il Picchi, sai!? – annunziò mestamente alla ragazza.
– Si fa il cenone in casa! – replicò lei con esplosiva decisione. E senza aspettar la risposta del padre si fiondò per le scale. Tornò una buona ora dopo, carica di pacchi e pacchetti: il salmone affumicato, l’insalata russa, due piccoli salami d’oca, due porzioni di torta di mele, burro salato alsaziano, perfino un vasetto di caviale. Quanto allo champagne, c’era già: aveva sbirciato la bottiglia in frigo.
– Un’avventura, eh? Come nella canzone di Lucio Battisti… – aveva chiesto al padre, strizzandogli l’occhio. Matteo si era stretto nelle spalle.
Aveva preso anche i fagioli, i pinoli, le mandorle, i ceci e le castagne già bollite e mondate, per la zuppa della vigilia come faceva la nonna che veniva dalla Garfagnana.
– Ma prima… – aveva annunziato, alzando l’indice destro in aria: lo stesso gesto che faceva quando da piccola annunziava cose solenni – si va alla Messa di mezzanotte a San Miniato, come quando si stava tutti insieme con la mamma.
Difficile immaginare quante cose turbinavano per la mente di Matteo, mentre tenendosi a braccetto assistevano in piedi alla Messa nella chiesa fredda ma riscaldata da una folla che li stringeva da tutte le parti. C’era tutta la Firenze cattolica che contava: dal conte Neri Capponi al marchese Giannozzo Pucci al regista Franco Zeffirelli al professor Antonio Paolucci al giovanissimo sindaco Matteo Renzi, amico e omonimo dell’orafo al quale aveva affidato qualche importante lavoro per il palazzo comunale. Renzi era, lo dicevano tutti, candidato a una grande, fulgida carriera politica: e bruciava davvero le tappe, filando come un treno. Si salutarono da lontano, con un cenno della mano.
Ma a un tratto, all’offertorio, Giuditta gli dette di gomito:
– Quel tipo che ti sta guardando, secondo me ti somiglia.
Matteo sobbalzò e si guardò attorno: ma, nella folla, non vide nessuno.
– Macché – rispose.
Dopo la Messa, si avviarono a piedi per la scalinata di Monte alle Croci. Arrivati a porta San Niccolò, già pregustando la cena notturna, si fermarono per un aperitivo in uno dei molti locali che quella notte stavano eccezionalmente aperti. Preferirono appoggiarsi al bancone e chiesero due Bloody Mary.
– Vedi? È quello lì! – esclamò a un tratto Giuditta, accennando con il mento a un tipo alto, che stava seduto a un tavolino con un bicchiere di whisky e una coppetta di mandorle salate davanti. – Sul serio, ti somiglia…
– Ma no… e poi è più alto, più magro. Non vedi? E non fissarlo, è da maleducati…
Vuotarono i bicchieri, fecero un altro giro di Bloody Mary, poi Matteo pagò e uscirono. Passando davanti al tavolino dello sconosciuto, quello sorrise appena:
– Ciao, Matteo. Ci si rivede.
– Ciao, Angelo… e grazie.
– Ma ti pare?
Fuori, esplose la girandola delle rimostranze:
– Sei un bugiardo insopportabile! – quasi gridava Giuditta. – Vedi che è un tuo amico, che lo conosci? Lo chiami per nome, addirittura! Magari è un mezzo parente, sembrate due gocce d’acqua. Che gusto ci provi a negare?
– Ma dai… e poi erano anni che non lo vedevo…
– E come, dopo tanto non ti fermi nemmeno a parlarci dieci minuti, a offrirgli da bere?
– No, non serve; si sta quasi sempre insieme.
– Ma se hai detto che non lo vedevi da anni…
– Eh, sì, è vero; ma lui vedeva me…
“È proprio matto, Matto Matteo”, ripeteva tra sé Giuditta. Che senso aveva quell’indovinello? Ma la notte fredda era chiara, il cielo pieno di stelle ed era inutile stare a pensare. E poi, a casa, c’era la cena ad aspettarli.
– Ma com’è possibile che arrivi la sera della vigilia dall’America e te ne rivai la mattina dopo, il giorno di Natale?
– Sarebbe una storia lunga: ho avuto un volo d’occasione tramite un collega di Stanford che ha il padre dirigente della PanAmerican: è addirittura un volo business andata-e-ritorno, lussuosissimo, ma è arrivato a Pisa a mezzogiorno e riparte a mezzogiorno di domani. In realtà è una specie di volo straordinario, organizzato per un tizio di Los Angeles che deve vedere un pezzo grosso della Pitti-Uomo. Prendere o lasciare: bisogna accontentarsi.
– Ma allora, quando tornerai a Firenze? – chiese Matteo.
– Non so, forse a febbraio: voglio far visita alla mamma. Le ho telefonato appena arrivata, le ho spiegato che non avevo tempo per tutti e due e lei mi ha risposto che non faceva niente e mi ha suggerito di fare un salto da te; ti vuole bene, sai.
– Lo so: le telefonerò per ringraziarla. Ma quando torni vieni a trovare anche me. O magari andiamo a pranzo tutti e tre. Da ’i Picchi sul serio, stavolta. E avrò un bel regalo per te.
– Che cos’è?
– Una statuetta d’argento.
– Dammela subito!
– Non è pronta; il modello di cera era lì da anni, ma il tempo di fonderla è arrivato solo adesso.
Si avviarono per Via de’ Bardi, tenendosi stretti come due innamorati.
(Pubblicato originariamente sul settimanale “Toscana Oggi”, dicembre 2011 e riproposto, in versione leggermente modificata ma rispettando l’ambiente “datato” – la Firenze di Matteo Renzi sindaco – in Cantico postmoderno di Natale, Lucca, Edizioni La Vela, 2019, pp. 35-45)