Minima Cardiniana 358/1

Domenica 26 dicembre 2021
Celebrazione della Sacra Famiglia, Santo Stefano Protomartire

UN PIATTO NATALIZIO IN OMAGGIO
Arrivi tardi, forse direte voi. Ma non è detto. In realtà, il Natale è una festa che si porta addosso a lungo. Molti id voi hanno in salotto o altrove il presepio e l’albero, e magari ce li tengono fino a Natale. E poi il 25 dicembre, fra parenti regali eccetera, non c’è sovente il tempo di far tutto quel che vorremmo. Se però aspettiamo un paio di giorni, cioè anche Santo Stefano e San Giovanni, abbiamo ancora un paio di giorni dedicati a grandi santi e più sereni, meno rumorosi. Magari si può replicare il pranzo natalizio: meno ricco ma più intimo e meglio curato. Ecco un suggerimento, ad esempio, buono in realtà in qualunque giorno fino all’Epifania.

Dedicato a Massimo Montanari, in memoria del Maestro Tullio Gregory.

Che cosa si mangia, a Natale? Ogni festa ha la sua pietanza speciale: secondo usi che tuttavia sono locali, regionali, collegati alle risorse del territorio e alle tradizioni. Nel mondo cristiano, tuttavia, la Pasqua ripropone un uso desunto dalla Bibbia e dalle tradizioni ebraiche: l’agnello, solitamente arrostito come appunto prescrive l’Esodo, è solitamente di rigore (mugugni animalistici e vegani a parte).
Ma il Natale? Come mai una solennità liturgica si dovrebbe automaticamente festeggiare anche a tavola? Qua entrano in gioco anzitutto l’analogia con la pasqua, quindi la tradizione già precristiana di festeggiare qualunque momento importante della vita con un banchetto.
Bisogna allora tornare all’occasione calendariale che fino dai primi tempi del cristianesimo ha tradizionalmente proposto almeno in Occidente il 25 dicembre come data di nascita di Gesù. Lasciamo che storici della società, del cristianesimo, delle religioni, degli usi calendariali e della liturgia si accapiglino sulla verosimiglianza di tale data, che a quel che pare corrispondeva nella Roma imperiale al giorno nel quale culminava la settimana di festeggiamenti per il solstizio d’inverno, sacro a quella divinità solare – il Sol Comes Invictus – che si riteneva protettrice dell’autorità imperiale. Il Dies natalis Solis Invicti divenne pertanto, con la cristianizzazione dell’impero, anche il giorno della Natività di quel Sol Iustitiae che è il Cristo.
Ma da allora la festa del Natale si è indissolubilmente collegata all’inizio dell’inverno, quindi al clima e ai cibi invernali. Ciò spiega la costante presenza del maiale, in molte forme e preparazioni (come, nel nostro mondo padano, gli zamponi, i cotechini e magari – per i più raffinati –, il divino “triangolo” o “cappello del prete”), sulle mense natalizie.
In un certo senso, tuttavia, la condanna della carne di porco quale cibo impuro perdura sottintesa nello stesso cristianesimo, che pur del cibo d’origine suina fa largo uso. Ciò spiega come altrove si preferiscano altri cibi: ad esempio i pesci (soprattutto la grossa anguilla, il “capitone”), che sono evidentemente legati alla cena natalizia “di magro” che si faceva alla vigilia e durante al quale si rispettava il principio dell’astinenza dai cibi carnei. Ma in quanto cibo penitenziale il pesce è meno adatto, nel mondo euromediterraneo cristiano, a figurare come piatto principale delle feste vere e proprie. Ed ecco allora la gloriosa comparsa, sulle tavole natalizie, dei grossi volatili: soprattutto il cappone, lessato o arrostito, principe delle mense natalizie toscane; o il tacchino, per consumere il quale tuttavia si è dovuto per forza di cose aspettare la scoperta dell’America. Cappone o tacchino che si possono servire anche al forno con ripieni che variano da regione a regione ma che servono a “ingrassare” e “addolcire” quel tipo di carne che può apparire al gusto un po’ stopposo e insipido.
In effetti, capponi e tacchini, pur grossi che siano, non sono molto adatti a rappresentare il piatto forte di un’occasione nella quale a mensa ci si riunisce in molti. Ed ecco la ragione per la quale nel mondo europeo si ricorre in realtà a volatili quali l’anatra o soprattutto l’oca: grande, grassa, tronfia e perfino aggressiva (ricordate quelle del Campidoglio, oppure – chi l’ha conosciuta – la superba, isterica, ferocissima oca che per anni ha spadroneggiato nel giardino della casa di Marco Tangheroni, ad Asciano Pisano?); un animale che, nelle tradizioni latina, celtica e germanica è anche solare, come il suo stretto, nobilissimo ma ancor più irascibile e ben meno commestibile parente, il cigno.
Dal Baltico all’Italia centrosettentrionale, dall’Atlantico alla Russia, l’oca natalizia dunque trionfa. Va scelta bella grossa, per soddisfare un numero elevato di commensali; e va frollata bene perché le sue carni sono compatte, saporite ma dure. Per la medesima ragione, la si può anche consumare allo spiedo, ma richiede continue unzioni di olio o di grasso mentre gira sul fuoco; e soprattutto dev’essere riccamente ripiena, se si vuol conferirle sapore, morbidezza e sostanza.
Il segreto quindi, a parte la lunga e sapiente cottura in forno (e qui le cucine moderne, con i loro angusti e modesti forni elettrici, non sono adatte: e sconsigliabile anche il rosolarla in pur ampie e capaci casseruole), sta tutto nel ripieno, nello stuffing, come dicono gli inglesi. Ed è appunto alla tradizione britannica, ma più ancora a quella austro-bavaro-tedesca, che personalmente mi rivolgerei. In Tirolo si confezionano i ripieni che personalmente prediligo: ma fate voi.
La varietà e la quantità del ripieno da preparare varia quindi a seconda dell’animale che – decapitato, privato delle zampe al di sotto della coscia e svuotato delle interiora – dev’essere riempito. Molti consigliano di “ammorbidire” l’oca, prima di farcirla e di sistemarla in forno, sottoponendola a una leggera bollitura. “Cottura plurima”, dicono i dotti. Fate voi, ancora una volta.
Ma il ripieno è importante: e va preparato almeno un giorno prima e lasciato riposare prima d’introdurlo nel cavo della carcassa. Gli ingredienti di base sono buon pane scuro (in qualche tradizione regionale sostituito da grano precedentemente bollito), latte, salsiccia e/o speck affumicato, magari qualche buon pezzo di lardo in pezzi oppure tritato, qualche patata bollita – facoltativa –, soprattutto una congrua quantità di mele ovviamente sbucciate – la buccia può essere gustosa, ma dà fastidio nella masticazione –, castagne bollite (molte) e parecchia frutta secca (prugne e magari albicocche sono di rigore, ovviamente con uvetta, noci, mandorle, pinoli, meglio se passati un po’ al mortaio e, se non proprio polverizzati, almeno infranti). Una buona dose di buccia di limone e/o d’arancio grattata è caldamente consigliabile. Al sale e al pepe quanto basta aggiungerete gli aromi che preferite: sono di rigore comunque cannella, noce moscata, ginger zuccherato e affettato, rosmarino, bacche di ginepro. Si consiglia d’irrorare il preparato, alcune ore prima d’introdurlo nella carcassa, con del buon vino – meglio se un bianco renano – o dell’acquavite di frutta (preferibile il Kirschwasser della Foresta Nera, o lo Slivovitz serbocroato oppure, sovrano fra tutti i liquori del mondo, l’ineguagliabile, inarrivabile Baracz ungherese di albicocche). Per il dosaggio degli ingredienti, regolatevi come vi pare.
Molti amano aggiungere al ripieno alcune interiora tritate dell’animale stesso, estratte dalla sua carcassa: soprattutto fegato (il glorioso “fegato d’oca”: del pâté, appunto) e reni. Regolatevi a piacere. Inutile mi sembra invece spalmare generosamente la pelle dell’animale, prima d’infornarlo, di burro o margarina. Il grasso naturale dell’oca, insieme con quello suino massicciamente contenuto nel ripieno, dovrebbe bastar a fornire il gusto e la morbidezza necessari. Se proprio ci tenete, una spennellatura di buon olio d’oliva alla superficie subito prima dell’infornare sarà sufficiente.
Come contorni, si suggeriscono dei purè: di patate ovviamente, di latte e spinaci, di carote, soprattutto di castagne; qualcuno suggerisce anche la polenta di mais, ma io ci andrei piano. Ovviamente le vecchie patate al forno, magari condite con molti spicchi d’aglio lasciati cuocere nella loro camicia, vanno comunque bene. La grande, gioiosa, gloriosa mostarda dolce e piccante di frutta candita – quella soprattutto di Cremona – è sempre la benvenuta (soprattutto l’arancio e il cedro). Vino rosso generoso, aromatico, tipo un Amarone e un Marzemino o un rosso tirolese (Blauburgunder, Sankt-Magdalener, Sankt-Laurent). Massì, ci stanno bene anche lambrusco o bonarda. E naturalmente, averne!, Champagne. Buon appetito e buone feste.