Domenica 26 dicembre 2021
Celebrazione della Sacra Famiglia, Santo Stefano Protomartire
I RACCONTI DI NATALE DI FRANCO CARDINI/2
CASA TUA
Alla fine, aveva deciso di provarci anche lui. In fondo, al punto cui erano arrivate le cose, che cosa c’era di male? Rubare o ammazzare, questo no, questo mai: anche se era ancora forte e al suo paese gli avevano pur insegnato come si usa il coltello e come si sgozzano le capre. Con un uomo, o magari con una ragazza, non sarebbe stato poi troppo più complicato.
Anzi, aveva pensato anche di peggio. Una ragazza, prima di farla fuori, avrebbe perfino potuto violentarla. Non è che ci sarebbe voluto granché. Da quando si era svegliato di prima mattina, fasciato dal buio notturno che appena appena cominciava a diradarsi nel crepuscolo e dalla coltre di nebbia umida, là sulla panchina del giardinetto pubblico, davanti alla stazione dove aveva passato la notte, ne aveva contate almeno cinque o sei transitargli a poca distanza, infagottate nei giacconi e negli impermeabili: e un paio gli erano anche parse carine. Saltarle addosso, trascinarla dietro una siepe, farci i propri comodi e poi giù una bella coltellata alla gola, come alle capre; frugarle nelle tasche, impadronirsi dell’orologio e della catenina d’oro e andarsene come se nulla fosse. Un orologino, una catenella da farci due soldi, è roba che hanno tutte. E ormai, dopo quasi un anno e mezzo passato per strada o negli “alberghi popolari” di quella maledetta città, di cose ne aveva imparate. Gli avevano insegnato tante volte come si fa a borseggiare la gente in autobus, come si riesce a non lasciare impronte digitali, com’è facile per esempio entrare in un bar, dare un’occhiata ai tavolini, afferrare una borsa o un soprabito lasciati un attimo incustoditi e zàcchete, ti sei guadagnato la giornata.
Ma quella era robetta, erano spiccioli. Gliel’aveva spiegato bene quel ragazzone alto di un villaggio vicino al suo, sulle montagne dalle parti di Marrakesh: quello con cui si ricordava di aver fatto il viaggio prima in corriera fino alla costa, quindi su una specie di peschereccio sgangherato e strapieno di poveracci come loro dove una donna aveva perfino partorito, poi a piedi, in autostop e su vecchi treni locali scendendo quasi a ogni stazione per non dover pagare il biglietto. Erano arrivati così in quella città tutta portici e torri, con tanti bei negozi e gente ben vestita, e avevano cominciato a cercar lavoro tra mercati e botteghe. Era una città dove ce n’erano tanti come loro, lo si vedeva bene dalle scritte in arabo scarabocchiate sui muri: brutte parole, insulti, slogan politici, tutta roba d’odio e di miseria per cui gli era sembrata sulle prime una bestemmia legger mischiato tante volte il santo Nome di Allah clemente e misericordioso.
Alla fine un uomo anziano del loro paese, uno dall’aria tranquilla ma che pareva molto più vecchio di quanto non fosse e faceva – beato lui – le pulizie in un supermarket, dopo averli arricchiti con una manciata di soldini e sfamati riempiendo i loro sacchi di prodotti scaduti (“è tutta roba buona comunque, anche tre o quattro mesi dopo la data scritta sulle etichette…”), aveva loro indicato l’indirizzo della Casa di Preghiera, una vecchia ex rimessa d’auto in periferia, dalle pareti riverniciate di verde e il pavimento sconnesso, nascosto da vecchi, lisi tappeti. Là, specie dopo la preghiera del venerdì a mezzogiorno, c’era parecchia gente che sembrava non passarsela male e si rimediava quasi sempre un lavoretto almeno giornaliero, nonostante la domanda superasse sempre l’offerta e ci fosse chi ogni volta restava a bocca asciutta.
Il ragazzone alto era molto più prestante e anche meno imbranato di Ibrahim: nel giro di qualche settimana aveva imparato a esprimersi passabilmente in quella lingua tanto diversa dall’arabo, ma vicina al francese e allo spagnolo che, in Marocco, un po’ masticavano quasi tutti. Aveva trovato nuove compagnie: gente giovane del loro paese o di altre parti del Maghreb, gente vestita fin troppo bene che fumava, prendeva in giro le ragazze in hijab che frequentavano la Sala di Preghiera (“Che ci fai con la testa fasciata? Ti sei fatta male?”) e si facevano vedere nei bar bevendo colorati liquidi alcolici.
Alla fine, si erano perduti di vista. Lo aveva incontrato di nuovo molti mesi dopo: stava con una ragazza occidentale bionda e truccata, aveva una bella giacca e portava al polso un pesante bracciale d’oro giallo. Gli aveva messo le mani sulle spalle e gli aveva detto che la vita poteva essere anche facile e bella, bastava svegliarsi e guardarsi intorno. Si cominciava a venducchiare un po’ di roba spacciandola ai ragazzi delle scuole, si entrava nell’ambiente, ci si faceva conoscere e si faceva capire di esser pronti anche a lavoretti più impegnativi. Certo, non ci si poteva mostrar schizzinosi e tirarsi indietro: queste cose hanno le loro regole e a sgarrare si rischia grosso.
Ma Ibrahim per queste cose non era tagliato. A fermarlo, non erano soltanto i precetti del Santo Corano: era soprattutto la memoria dei nonni che lo avevano tirato su fin da quando, da piccolo, era rimasto orfano e gli avevano insegnato come si governano le capre e le galline, come si tengono in ordine la casetta e l’orticello, come si cucina con poca spesa, come si rassettano gli abiti e ci si lava bene usando meno acqua possibile, come si prega cinque volte al giorno. Quello era il suo mondo, che aveva abbandonato solo quando i due vecchi erano morti, l’uno pochi giorni dopo l’altra. Al villaggio, ormai, non c’era quasi più nessuno; i giovani se n’erano andati tutti in cerca di fortuna, per quanto risultasse che nessuno l’aveva trovata. Allora Ibrahim aveva venduto per un buon prezzo agli anziani del villaggio la casetta e le due capre rimaste, aveva intascato i soldi, affidato il vecchio gatto alla nipote dello sheikh della tribù ed era partito a sua volta. E ora, nella spessa e fredda nebbia di quella città di mangiatori di porco salato e bevitori di vino rosso, rimpiangeva le rocce e i torrenti della sua terra.
Dalla nostalgia alla disperazione e alla superbia tinta di sogni di onnipotenza e di vendetta, così tipica di chi non ha e non può nulla, il passo è brevissimo. Vivendo di lavoretti e di espedienti, rimediando di notte un tetto e un giaciglio dove capitava – sempre tuttavia senza rubare e senza commetter violenze –, Ibrahim aveva cominciato a guardarsi sul serio attorno e imparato o creduto d’imparare tante cose. Perché tanta ricchezza in una città nella quale, tuttavia, sentiva di continuo la gente lamentarsi e assisteva quotidianamente allo spettacolo, rimbalzato dalle televisioni, di un’opulenza e di uno spreco che al suo paese non sarebbe mai stato neppure in grado d’immaginare? Da dove nasce quest’ingiustizia per cui pochi hanno troppo di tutto, molti hanno troppo poco, moltissimi nulla e chi dovrebbe aiutare i poveri come lui volta invece le spalle? Da quando ha cominciato, la gente, a essere insensibile alle pene di chi è più povero e a lasciarsi divorare dall’invidia per chi ha di più?
Credette di aver capito tutto quando l’imam, un giovane ruvido dalla lunga barba e gli occhi nerissimi, nativo di un villaggio non lontano dal suo, gli spiegò che in quella città era impossibile abbandonare la Casa di Preghiera per aprire una moschea. I fondi erano stati raccolti, il Comune aveva offerto il terreno, ma in città erano subito nate associazioni e comitati che raccoglievano firme contro l’iniziativa: si diceva che il nuovo edificio religioso sarebbe stato un insulto per le tradizioni e una minaccia all’identità dei cittadini, che ci sarebbe stato il pericolo di vederla trasformata in un centro di propaganda terroristica e così via.
Strana gente, questi cristiani, che tuttavia a lui non avevano mai dato l’impressione di essere granché religiosi. Vicino al suo villaggio, in Marocco, Ibrahim aveva conosciuto il convento dei “Padri Bianchi”, dove la nonna lo aveva anche condotto un paio di volte, quando aveva avuto bisogno del medico o del dentista. Tutti dicevano che erano brave persone che aiutavano i poveri, anche se avevano quella strana idea che il profeta Issa figlio di Mariam fosse anche Dio (come può un uomo, sia pur il migliore fra tutti, essere Dio?); erano in buoni rapporti con i sufi di tutte le tribù vicine e non avevano mai cercato di distogliere nessuno dalla fede o di allontanarlo dagli insegnamenti del Profeta. Come si faceva a non voler bene a cristiani come quelli?
Ma ormai, adesso e qui in Occidente, l’imam spiegava che tutto era diverso. Da secoli gli occidentali avevano invaso le terre dell’Islam e le avevano predate di ogni ricchezza; e ora, dopo quel che era successo in America quell’11 settembre del 2001, erano tutti convinti che i musulmani fossero in blocco dei terroristi assassini e l’Islam una fede di fanatici. E allora bisognava tenersi uniti, difendersi, se necessario rispondere alla violenza con la violenza: Ibrahim aveva imparato che gli occidentali avevano da sempre organizzato contro i musulmani delle spedizioni militari, dette “crociate”, e che ad esse bisognava rispondere con lo sforzo unanime gradito a Dio, il jihad. Chi non la pensava così era un rinnegato, un traditore della sua fede e della sua gente che meritava a sua volta la morte. Però, quell’Islam non era il medesimo che gli avevano insegnato i suoi nonni. Quell’imam che parlava solo di odio non usava il medesimo linguaggio di quello che, nel suo villaggio, gli aveva insegnato a leggere e a capire il Santo Corano. In quel paese strano e straniero, Ibrahim aveva capito non solo di non aver trovato una nuova patria, ma addirittura di aver perduto la sua gente. Quando si è poveri, chi è forte o malvagio – o chi, senza esserlo, tale diventa per disperazione – si dà alla violenza; chi si sente troppo stanco e sfiduciato per continuar a lottare, trova il coraggio di uccidersi; gli altri, più paurosi e più rassegnati, alla fine si adattano ad abbandonare qualunque dignità e cominciano a stender la mano affidandosi alla compassione altrui. Ma Ibrahim, dal sangue nobile e guerriero dei suoi antenati tuareg aveva imparato l’orgoglio: l’uomo libero non cede mai le sue vere uniche ricchezze, la sua fede in Dio e il suo coltello; il vero musulmano ha il dovere di far l’elemosina secondo i Cinque Precetti dell’Islam, però non si abbassa a chiederla; e, quanto al piangere e all’invocare aiuto, possono farlo solo le donne e i bambini.
Ma la vita, se accetti il gioco di continuare a viverla, può esser tanto dura da piegare il miglior acciaio. E così, in quel triste e freddo fine dicembre, in quella impura città di mangiatori di porco e bevitori di vino che si era magicamente riempita di vivide luci, di luminosi colori, di allegri addobbi e di struggenti profumi di buone cose da mangiare, il povero tuareg aveva imparato a vivere nei pressi della stazione ferroviaria chiedendo la carità di giorno e dormendo in un vecchio sacco a pelo, su una panchina del giardino pubblico antistante di notte.
Pensò che in fondo Allah era sul serio misericordioso e compassionevole. Se fosse stato cristiano, trovarsi in quelle condizioni la vigilia di Natale sarebbe stato ben più amaro. Ma era dura anche così.
Passò un ragazzo che portava pesanti scarponi di cuoio, una lisa giacca imbottita e un passamontagna: aveva gli auricolari e canticchiava. Ibrahim stese timido la mano e il giovane ci lasciò cadere una gialla monetina da cinquanta centesimi.
– Via, dammi qualcosa di più! – trovò il coraggio d’implorare. – Fammi fare un Natale un po’ migliore di così!
L’altro stava passando oltre: si fermò interdetto. Si frugò in tasca, ne ritirò fuori un biglietto spiegazzato da cinque euro e glielo allungò dicendo:
– Guarda che anche a me non va mica tanto bene… e poi, scusa, almeno per Natale va’ a “Casa Tua”.
La voce gli uscì triste e risentita, resa ancor più greve dall’accento gutturale degli arabi e dei berberi:
– Ci andrei sì, che ti credi… solo che non ce l’ho più, una casa mia!
– Codesto l’avevo capito. Ma io non ti ho detto di andare a casa tua. Ti ho detto: va’ a “Casa Tua”. Ci sono stato anch’io, un paio di volte.
Nel dir così il ragazzo gli stava indicando una palazzina d’angolo, proprio sulla piazza, sul portone della quale spiccava in neon rosso la scritta “Casa Tua”, accompagnata per l’occasione da una stella cometa gialla e da un ramo verde di agrifoglio, anch’essi al neon.
– È un ristorante, un albergo? E ti pare che io…
– Macché! È una specie di ricovero, cose di preti. Ti fanno mangiare, dormire e non spendi un quattrino.
Ibrahim sapeva bene che esistevano varie istituzioni di quel tipo, ma non aveva mai osato ricorrervi. Nel mondo dei senzatetto circolavano al riguardo leggende poco simpatiche: se ci entri ti schedano, fanno la spia ai poliziotti, ti dicono che è tutto gratis e poi ti rifilano un conto magari modesto, ma di quelli che tu non puoi permetterti. L’imam aggiungeva che quei posti erano delle trappole tese ai musulmani poveri per indurli ad abbandonare l’Islam, a divenire apostati. Però la nebbia era troppo umida ed entrava nelle ossa, mentre dalla finestra del primo piano di quel posto, al di là degli spessi doppi vetri, si intravedevano invitanti le luci di un grande albero di Natale. Gli piacevano, l’albero e il presepio: al suo villaggio la nonna lo portava sempre, per Natale, a vedere quelli allestiti dai “Padri Bianchi”, e in quelle occasioni c’erano sempre dolci e regali. Ci sarebbe stato anche un presepio, in quel posto chiamato “Casa Tua”?
Pensò che ci avrebbe riflettuto: frattanto, però, si accorse di aver attraversato il giardinetto e la strada e di aver già sonato il campanello elettrico. Dopo qualche istante la porta si aprì e dietro di essa c’era una ragazza dalla pelle bruna e dagli occhi nerissimi, con un bel sorriso e la testa fasciata da una specie di hijab grigio.
– Sei musulmana? – le chiese Ibrahim d’un fiato.
Sorrise di nuovo.
– No, ma a giudicare dal tuo aspetto direi che siamo quasi dello stesso paese!
– Guarda che io sono marocchino…
– Che ti dicevo? Io sono siciliana. Entra, che fuori è freddo. Lo vuoi un bel caffè?
– Veramente, se posso scegliere, preferirei un tè.
– Come no? Anzi, sei fortunato. Ieri è venuta a trovarmi mia sorella da Trapani e mi ha portato una straordinaria cassata.
– È roba da mangiare? Non ci sarà del maiale dentro?
Rise di nuovo. Dio, com’era carina quando rideva!
– Ma no, che dici? È un dolce fatto di pasta di mandorle, acqua d’arancio e zucchero!
– Allora è un dolce arabo…
– Certo che è arabo! E se ti fermi a cena, stasera che è vigilia, non corri il rischio di mangiar maiale. Ho fatto il cuscus di pesce, come si fa al mio paese…
– Anche al mio, nei posti di mare…
– Vedi che siamo paesani? Ora beviti il tuo tè, che intanto ti chiamo don Mario.
Era bello caldo, lì dentro, e da chissaddove arrivava una musica dolce che invadeva le stanze. C’era odore di pulito, di buono. Don Mario era un tipo sulla quarantina, dagli occhiali spessi e sguardo deciso.
– Ciao. Io sono Mario e ti conosco; ti ho notato, lì nel giardinetto. Ho visto come ti comporti, come ti muovi. Me ne intendo, di gente. Tu devi essere un bravo ragazzo, si vede.
– Senti abuna… posso chiamarti abuna, padre, vero? Io mi chiamo Ibrahim, non ho né casa né tetto ma non posso nemmeno pagare la tua ospitalità perché non ho un soldo; e l’elemosina non la voglio.
– Ma io non voglio farti l’elemosina. Qua in casa c’è un sacco di lavoro da fare e noi siamo in pochi: io, Lucia e una sua consorella. In questi giorni abbiano sei ospiti: due nordafricani come te, due rumeni, un albanese e un tedesco.
– Un tedesco?
– Ci sono anche i tedeschi poveri, sai? Qui da noi i nostri ospiti lavorano tutti, secondo quello che sanno fare. Tu parli discretamente l’italiano: ma capisci la differenza tra elemosina, carità e misericordia? E quella fra miseria e povertà?
– Credo di sì: io sono povero, ma mi sento miserabile solo davanti a Dio. E Lui solo è misericordioso.
– Bravo Ibrahim. Hai capito tutto. E qui noi facciamo carità, non elemosina. Quanto alla misericordia, abbiamo tutti bisogno di quella di Dio.
– Ma io non posso stare con voi. Non ho nemmeno documenti.
– Oggi è la vigilia di Natale, gli uffici del Comune riaprono solo il 27; quel giorno Lucia ti accompagnerà e vedremo di procurarti un permesso temporaneo di residenza. Intanto resti con noi, ma dovrai adattarti a dormire col tedesco. E ti avverto: lui ama gli alcolici e mangia quasi solo carne di maiale, però è un buon uomo. E comunque nel menu di Natale c’è anche del cappone, quindi caschi bene. Il cappone è halal.
– Tu sai che cos’è halal?
– Oh, io so un sacco di cose. E altre le capisco. Ad esempio, ho capito subito che tu hai bisogno intanto di una bella doccia: va’ in camera, spogliati completamente, lascia i tuoi abiti sul pavimento e Lucia penserà a lavarli, a disinfettarli e a ricucirti strappi e bottoni; se ti serve qualche altro capo, te lo darà lei. Poi, stasera passa qui da noi il medico: ti faremo fare una buona visita generale. Se ti servisse un esame specialistico, ti spediremo a farlo il 27 o il 28. E certamente hai bisogno dell’oculista e del dentista: questo si vede subito.
– Un’altra cosa, abuna… se riuscissi a sistemarmi e a trovare un lavoro…
– Ti aiuteremo anche in quello.
– Sì… ma in questo caso pensi che se lei vuole potrei fidanzarmi con Lucia?
Don Mario scoppiò in una sonora risata:
– Lucia, eh? Mica perdi tempo, tu. Ma in questo devi metterti l’animo in pace. Lei è già fidanzata, e anche con un tipo molto in gamba; uno più o meno delle vostre parti.
– Davvero? Uno che viene dal Marocco? O vuoi dire dalla Sicilia?
– No, viene dalla Palestina. Ma rassegnati: quello tra lui e Lucia è sul serio un grande amore.
– Be’, peccato; cercherò altrove. Però spero che Lucia mi faccia vedere almeno il presepio, se lo avete fatto.
– Come no? È al piano di sopra e bisogna ancora finirlo. Se ne sta occupando l’albanese, ma ha certe manone grosse che bisogna evitare di fargli combinar guai. Fatta la doccia, potrai lavorarci anche tu…
(Pubblicato originariamente sul settimanale “Toscana Oggi”, dicembre 2012 e riproposto, in versione leggermente modificata ma rispettando l’ambiente “datato” in Cantico postmoderno di Natale, Lucca, Edizioni La Vela, 2019, pp. 46-60)