Minima Cardiniana 358/7

Domenica 26 dicembre 2021
Celebrazione della Sacra Famiglia, Santo Stefano Protomartire

I RACCONTI DI NATALE DI FRANCO CARDINI/3
QUELLI DEL QUARTO PIANO, OVVERO I TRE RISVEGLI DELLA VIGILIA
– Buongiorno, Professore, mi scusi: sono le otto e mezza. La colazione è pronta in soggiorno. Ho acceso anche il caminetto, come piace a Lei.
La ragazza sorrideva radiosamente, con quel bell’accento russo dalle liquide consonanti della sua Suzdal.
– Grazie, Svetlana. Wotan ha già mangiato?
– La pappa di carne, sì. Il riso con verdura non lo vuole.
– Eh, la bestiaccia…
– Se non le spiace, Professore, esco per le solite cose e faccio qualche compera. Torno fra un paio d’ore, per preparare il pranzo. Desidera qualcosa di speciale?
– Fa’ pure come vuoi, Svetlana: scegli tu. Magari una bella insalata.
– Arrivederci, Professore.
Era proprio una bella giornata: una perfetta vigilia di Natale. Il cielo terso, l’aria fredda e pulita. Davvero uno spettacolo che allargava il cuore, goduto dalla finestra di un attico al sesto piano di quell’alto palazzo di Porta Romana, con Firenze distesa davanti e le colline di Fiesole lontano, nel grigiazzurro della foschìa. Il Professore era già in piedi da un pezzo: si era fatto la doccia e aveva indossato la sua veste da camera preferita, quella azzurra cinese ricamata a draghi d’oro. Era da tempo nello studio.
Prima di passare nel soggiorno attese qualche istante, il tempo di udire netto il rumore della porta d’ingresso che si chiudeva. Per una sorta di riserbo tra la timidezza e la superbia, amava mangiare da solo. In soggiorno, l’aria era satura dell’aroma del caffè bollente e delle note sommesse di un Lied di Schubert. Davanti al caminetto, il tavolinetto della prima colazione era inappuntabilmente apparecchiato: porcellane, argenteria, bicchieri di cristallo. C’era perfino una rosa gialla in un piccolo vaso.
– Grande, la mia Svetlana! – esclamò il Professore a voce alta, incurante del fatto che in casa nessuno lo stesse ascoltando; e aggiunse piano, come tra sé: – Ah, se avessi trent’anni di meno!
A quella ragazza d’oro, bella, brava, intelligente, il Professore aveva perfino permesso di montare in un angolo del soggiorno un piccolo albero di Natale: e sì ch’era da diversi lustri, da quell’anno maledetto in cui era rimasto solo, che non riconosceva né celebrava feste di sorta. Né civili, né tantomeno religiose. A ottantacinque anni, in vita sua non aveva mai avuto nulla più di qualche raffreddore: e, quando ci pensava, quasi quasi si dispiaceva di essere ateo, perché sarebbe stato bello poter ringraziare Iddio. Ma no, poi, non era vero nemmeno quello. Perché ringraziarLo? Se ci fosse un Dio – si andava ripetendo il Professore –, lui gli avrebbe chiesto conto di quella mattina, di quell’auto rovesciata, dei corpi di Alba e delle due ragazze che quelli dell’ambulanza avevano estratto dalle lamiere contorte e allineati sul prato vicino, coperti da pietosi lenzuoli.
Meglio non pensarci. Un’ombra era discesa sulle porcellane, sugli argenti, sul fumo del caffè della tazzina. Quel ricordo gli fece sparire la fame. Era un vecchio solo, la vigilia di un Natale che per lui sarebbe stato il solito giorno vuoto; parenti ne aveva tanti, ma tutti lontani, e non li vedeva né li sentiva al telefono da diversi anni; dei colleghi, non voleva neppur sentir parlare. Amici, poi, no: o meglio, uno. Uno solo. Il suo pastore alsaziano Wotan, che in quel momento era entrato rumoroso e festevole nella stanza ed era corso a posargli il muso in grembo, aspettando una carezza.
Comunque, non aveva più appetito. Passò distrattamente al cane l’ultimo boccone di pane imburrato, si alzò, raggiunse lo studio e sedette alla scrivania: Svetlana gli aveva preparato, come sempre in bell’ordine, la posta arrivata negli ultimi giorni e ancora da evadere. Libri, riviste, due o tre quotidiani, alcune lettere e biglietti che scorse con noncuranza. Non rispondeva mai agli auguri. L’unica lettera interessante della giornata era quella del suo legale, che gli comunicava una buona notizia. L’eterna faccenda dei fastidiosi inquilini del quarto piano era finalmente risolta: l’avvocato del dottor Gaeta Giglietti assicurava che il suo intollerabile cliente avrebbe regolato entro quindici giorni le quote d’affitto degli otto mesi ancora scoperti; in caso contrario, s’impegnava a lasciar libero l’appartamento che occupava senza ulteriori dilazioni.
Già, il dottor Gaeta Giglietti, dai ridicoli cognomi tra lo snob e il floreale, tutto sorrisi e cerimonie, con il suo misterioso lavoro e relativa pretenziosa famiglia. Quello che aveva voluto a ogni costo un appartamento di lusso in un palazzo prestigioso e che poi aveva stentato per oltre due anni a regolare con inammissibile imprecisione il suo affitto, salvo sospendere dall’ultimo aprile in poi ogni pagamento. Il Professore era il proprietario dell’intero immobile di Piazza Porta Romana e gli alti affitti che ne ricavava erano, insieme con la discreta pensione universitaria, la sua principale voce d’entrata. Ma detestava parlar di soldi: per quelle cose c’erano il suo avvocato e il suo commercialista. Aveva sempre proibito a quel tal Gaeta Giglietti (che razza di cognomi, poi…) di abbordarlo personalmente con fastidiosi alibi e untuose promesse. L’inquilino era suo debitore e il debito alto; aveva violato da tempo i termini contrattuali: ora si rivolgesse al suo legale o se ne procurasse uno anche lui, migliore di quello che già aveva. Punto e basta.
Ma si verificò a quel punto una cosa spiacevole. Sul piano della scrivania era rimasta una sola, lunga busta di carta ordinaria, che recava il suo nome ma era priva d’indirizzo e di francobollo. Com’era finita là? Magari insinuata sotto la porta d’ingresso, nottetempo? Apertala, ebbe un moto di stizza: in una grafia svolazzante e quasi infantile, su un foglio di carta dozzinale che recava però in alto una vistosa sigla in azzurro di pessimo gusto, GGGG (“Gian Guido Gaeta Giglietti”: che sia un nobilastro?), l’inquilino moroso del quarto piano gli confermava quel ch’egli già sapeva dalla missiva dell’avvocato, aggiungendo però una tanto sleale e inopportuna quanto dolciastra e lamentosa richiesta di ulteriore dilazione. Lo pregava, anzi, letteralmente lo supplicava di aver pazienza ancora qualche settimana, non più di due-tre mesi al massimo, aggiungendo una spudorata serie di giustificazioni: spese impreviste, problemi di lavoro (ma di che razza di lavoro sta parlando, questo qua?…), ritardi nell’arrivo di misteriosi pagamenti dovutigli, esami specialistici costosissimi che la sua gentile signora di salute tanto cagionevole aveva dovuto affrontare…
Sbatté il foglio spiegazzato sul piano della scrivania, accompagnandolo con un pugno. Accidenti, ma come si fa ad essere così ipocriti, così privi di dignità? Quei soldi erano anche tanti, ma a lui non interessavano proprio. Non era questione di danaro: ne avrebbe tranquillamente fatto a meno. Ma era il principio, perdinci, il principio! Quel cialtrone del GGGG: gli abiti eleganti, la bella macchina, le vacanze, un appartamento decisamente al di sopra delle sue possibilità, uno stile di vita dozzinale ma dispendioso, tutta quella spocchia quando s’incontravano per la scale di casa o in ascensore, e poi eccolo là a mendicare, a piatire, a strisciar come un verme… Vabbè, quel cavolo di lettera l’avrebbe passata all’avvocato, che se la vedessero lui e il commercialista: ma dilazioni nel pagamento, perdinci, no, non se ne parlava. Nemmeno un giorno, nemmeno un minuto. Che imparasse a vivere, quel miserabile!
Ora però, dopo lo sfogo, doveva darsi una calmata. Tornò in soggiorno, si versò un’altra tazza di caffè che era rimasto ancora passabilmente tiepido, accarezzò il testone di Wotan e gli offrì sul palmo della mano un paio di zollette di zucchero, che l’animale lambì con delicatezza affettuosa. Un vero amico, un po’ come Svetlana.
Si sedette comodo sul divano di fronte al caminetto, aprì il giornale, cercò qualcosa d’interessante da leggere. Da buon ateo, le faccende religiose non lo interessavano: comunque intraprese con un discreto interesse la lettura di un articolo che commentava una notizia curiosa. Papa Francesco aveva espresso forti critiche alla traduzione italiana del Pater Noster, sostenendo che “non c’indurre in tentazione” era una cattiva interpretazione dell’originale evangelico. Il Professore pensò che magari in un ritaglio di tempo sarebbe andato a ripescare in biblioteca Vangelo e vocabolario latino per rinfrescare qualche vecchio ricordo del tempo del catechismo. Già, non c’indurre in tentazione: che tipo, quel papa Francesco… E che sonno in quel mattino di troppa luce, in quella stanza troppo calda, con quel docile cagnolone accanto.

* * *

– Dai, sveglia! È tardi, sai, pigrone! Bisogna uscire!
In cinque anni, non aveva mai osato chiedergli di passare al “tu” (del resto, semmai, sarebbe spettato a me proporglielo) e ora, di punto in bianco, si permetteva addirittura di dargli del pigrone! E poi, quella strana luce… La stanza era immersa in una penombra ovattata: solo le luci dell’albero risplendevano in un angolo accanto a Wotan, ancora addormentato. Dalle finestre s’intravedeva una nebbia leggera, fuori, e la neve che scendeva a larghe falde.
Svetlana sedeva accanto a lui, sul bordo del divano: ma come si era conciata? Aveva raccolto i capelli biondi in due lunghe trecce e, sulla fronte, portava un leggero diadema d’argento dorato legato alla nuca da una cascata di nastri rossi. Il suo abito consisteva in una camicia di seta rosso fuoco, in un corpetto e un’ampia gonna entrambi neri e ricamati; dal petto, le scendeva fino alle ginocchia un grembiale di candido lino ricamato; calzava morbidi, alti stivali di pelle rossa. Era l’abito della festa delle ragazze di Suzdal. Ridendo, gli tirò via di dosso la coperta che evidentemente era stata lei stessa a stendergli sul corpo quando lo aveva trovato immerso nel sonno, sul divano. Ma com’è che si era addormentato così profondamente, che aveva dormito fino a sera? Intanto, Svetlana lo aveva preso per mano – serrando la sua con una grazia molto energica – e lo stava conducendo, quasi trascinando verso la porta. Wotan, svegliatosi, li seguiva docilmente.
– Non è che tu verrai fuori in codesto abbigliamento da carnevale russo, spero; e tantomeno io, in veste da camera cinese, con tanto di draghi ricamati!
– E perché no, poi? Dai, che siamo bellissimi!
Forse era divertente: eppure qualcosa non tornava. Erano usciti dalla porta dell’appartamento ma, anziché nel corridoio dell’attico dinanzi all’ascensore, ora si trovavano direttamente sul marciapiedi della piazza, di fronte alle mura cittadine e alla grande porta dai battenti chiodati che a Svetlana aveva sempre ricordato la “Porta di Kiev” dei Quadri di un’esposizione di Musorgskij. Piegarono a destra e imboccarono il grande viale in salita che porta verso la villa di Poggio Imperiale. O meglio, quello che tale avrebbe dovuto essere: perché era stato davvero sistemato splendidamente. Tra gli alti alberi, ch’erano tutti robusti abeti addobbati di decorazioni e luci colorate, erano sistemati archi luminosi; e ai lati dello stradone in dolce salita erano collocate due lunghe file di baracchette di legno policrome riccamente illuminate e piene d’ogni ben di Dio: dolci, bottiglie di vino e di liquori, barili di birra, intere cucine sfrigolanti e stracolme di cibi, giocattoli… Per la strada, la gente parlava allegra, cantava, mangiava, beveva, rideva; ogni tanto si vedevano passare slitte tirate da animali che sembravano – ma era certo un camuffamento… – cervi, alci o renne; ai crocicchi, giostre rumorose e allegre piccole orchestre o gruppi di clowns o prestigiatori issati su alti podi intrattenevano un pubblico di uomini, donne, ragazze, bambini tutti abbigliati come se stessero recitando in un’immensa Christmas Carol di un Dickens slavizzato. Perdinci, si sorprese a pensare il Professore, il sindaco Nardella ha davvero fatto tutto alla grande! Quasi quasi gli si potrebbero perdonare gli eterni lavori della tranvia e, perché no?, addirittura quell’immenso obbrobrioso orrore, quella specie di monumento escrementizio color piombo alto nove metri e sistemato – si spera ancora per poco – al centro di Piazza della Signoria: un ridicolo ammennicolo megakitsch a rovinare la più bella piazza del mondo… D’altronde tutto era davvero strano: molto, troppo strano. I fiocchi di neve continuavano a cadere, e quando nevica notoriamente non fa poi tanto freddo: era comunque bizzarro che né lui né la sua compagna provassero il minimo senso di gelo, mentre molto meno strano era che nessuno si meravigliasse di fronte al loro abbigliamento. D’altronde erano circondati da cosacchi, da mujiky, da affascinanti djevushky dalle gonne policrome, da truci streltzy con i lunghi caffettani paonazzi e le asce da guerra, da severi gospody impellicciati, da signore ingioiellate e in veletta alla Anna Karenina che sembravano davvero uscite da un racconto di Anton Čechov. O da una novella di Puškin. O da una fiaba di Afanasiev. La bella Svetlana, tenendolo per mano, gli sorrideva enigmatica e perfino un po’ sfacciata mentre lo trascinava verso la baracchetta dove si preparava quello che i tedeschi chiamano Glühwein, vino bollente e speziato.
– Ma che cos’è questa storia? Che cosa significa questa pagliacciata? – chiese fra l’indispettito e il divertito il professore, mentre lei gli porgeva un bel boccale di ceramica rossa dal quale usciva un denso profumo di chiodi di garofano e di cannella. – È per caso un omaggio del tuo amico Putin al popolo di Firenze?
– Ma no, Bàtrushka, sta’ tranquillo: Vladimir Vladimirovich, che Dio lo protegga, festeggerà al Cremlino il suo Natale nel giorno dell’Epifania, secondo il nostro calendario. Questo è solo un gioco.
Lo aveva chiamato proprio così, Bàtrushka: “Piccolo Padre”, “Babbino”.
– Bada, ragazzina, piano con le confidenze: non chiamarmi così. Io non sono né lo zar, né Stalin.
Per tutta risposta, lei gli si fece dappresso e lo abbracciò:
– Tu sei molto di più, Bàtrushka: tu mi hai dato una casa, un lavoro. E poi lo so che mi vuoi bene!
Doveva essere il vino bollente buttato giù a digiuno che cominciava a lavorare nella testa e dentro lo stomaco. Bisognava ingurgitare qualcosa di solido. Si diressero verso il banco delle ciambelle, poi passarono a quello delle salsicce con i crauti. Mentre mangiavano, seduti su due sgabelli accanto alla baracchetta degli arrosti, Svetlana cominciò a spiegargli finalmente che cos’era quello spettacolo.
– Vedi, Bàtrushka, oggi si è deciso (ma chi l’ha deciso? Boh!) di festeggiare la nuova traduzione del Pater Noster, quella che sta preparando il Papa e che credo andrà bene anche a noialtri ortodossi.
– Cioè?
– Be’, tu vedi qui gente piena d’allegria perché a Natale si è ancora più sicuri che Dio è buono e che ci perdona tutti…
– Ragazzina, lo sai che non credo in Dio.
– Sì, ma non fa differenza: è Lui che crede in te.
– Bene, ammettiamolo pure: e allora che cosa succede?
– Succede che, per assicurarci che la Sua volontà sta per esser fatta e il Suo regno sta per arrivare, Dio esaudisce ora, qui, tutte le richieste che gli rivolgiamo nel Pater Noster. Ci dà il pane quotidiano (e anche il vino, e le salsicce, e le ciambelle…), ci rimette i debiti come noi li rimettiamo ai nostri debitori, non c’induce in tentazione…
– E tutto questo lo sta facendo adesso, con tutti?
– Sì, naturalmente, lo stai vedendo: stavolta è proprio questo il Suo regalo di Natale.
– Intanto, dovresti sapere anche tu che è Lui ad essermi debitore di tutta la famiglia, che mi ha strappato per Suo capriccio: e quello è un debito che io non intendo affatto rimetterGli. E poi, a te chi te lo ha detto che non c’induce nemmeno in tentazione?
– Che vuoi dire? Non capisco…
– Non ti preoccupare, capisco io (mandarmela ora, con trent’anni di ritardo… ah, ma se esiste e Lo incontro gliene dico quattro sul serio!).
Comunque, chissà perché, in tutta la perorazione di Svetlana sul Pater Noster era la faccenda dei debiti e dei debitori a colpirlo di più. Il Professore non era credente, però nella sua lunga vita aveva sempre fatto volentieri molta beneficenza: sosteneva i “Medici Senza Frontiere”, aveva quattro o cinque “adozioni a distanza” che seguiva con attenzione in ricordo di Alba e delle ragazze. Non cercava il Paradiso, non temeva l’Inferno, non amava il genere umano: ma era fermamente convinto che, in questo miserabile pianeta, chi ha qualcosa di più deve spartirlo con chi ha qualcosa di meno. D’altronde, siccome non si sentiva affatto debitore di Dio (al contrario!), quella faccenda di rimettere i debiti gli era del tutto estranea: anzi, cozzava col suo vivo senso di giustizia, con il suo senso civico di vecchio socialista.
Tuttavia, sul momento era distratto da qualcos’altro. Dicono che il cuore non invecchi: peccato solo che invecchi il resto. A quel punto però gli venne una gran voglia di buttarsi allo sbaraglio: e il vino bollente gli stava venendo in aiuto.
– Svetlana, dimmi: Dio sta quindi anche proteggendoci dalle tentazioni?
– Senza dubbio!
– Ma tu ci credi alle cotte senili?
– Alle cotteseché?
Decisamente, per quanto – a parte l’accento di Suzdal – la ragazza conoscesse benissimo l’italiano, quell’espressione, “cotte senili”, doveva non averla mai sentita.
– Sì, non fare la tonta, hai capito benissimo: è quando per esempio un signore d’età avanzata s’innamora di una bella ragazza che gli vive accanto…
– Ah, quello! Ma dai, Bàtrushka, è roba da romanzo! Gli anziani signori non s’innamorano mai delle ragazze: sono innamorati dei loro ricordi, delle loro nostalgie, della loro fantasia, della loro gioia di vivere. Sono innamorati dell’amore: e che Dio li benedica! Se un anziano signore è tanto fortunato da mantenere il cuore giovane fino a desiderare ancora una giovane donna, anche se è tutta illusione, vuol dire che Dio lo ama!
– Dio, Dio, Dio! Sempre Dio, con voialtri russi! Via, smettiamola. Svetlana: dammi un bacio…
– Come no, Bàtrushka, con immenso piacere!
La ragazza si alzò in punta di piedi e stampò un sonoro bacione sulla guancia destra del Professore. Non era esattamente quanto egli avrebbe desiderato, quella sera: ma si sorprese a riflettere che in fondo, a ottantacinque anni, era già qualcosa. Un gran bel regalo di Natale.

* * *

– Professore, mi scusi: sono le una passate. Le ho preparato una bella insalata mista e le avrei aggiunto un po’ di formaggio e di frutta. Ma la giornata è così fredda, anche se in casa si sta bene: allora ho pensato che avrebbe gradito anche una tazza del mio borsch.
Il Professore andava matto di quella ruvida zuppa di cavolo, barbabietole e cipolle:
– Brava, Svetlana, sei un angelo! Ma, ti prego, non mi ci metter dentro la solita cucchiaiata di panna acida…
– Eppure Professore, da noi in Russia…
– Lo so, bambina mia, lo so: ma a me non piace, che ci vuoi fare? Prova a darla a Wotan!
– Non piace nemmeno a lui: eppure è una nemietzka sabaka, un cane tedesco…
– Lo vedi?
Si alzò un po’ stordito dal divano, la seguì in soggiorno e si sedette a tavola, osservandola mentre era intenta a servirgli il borsch. Era vestita come al solito con inappuntabile modestia, i capelli biondi raccolti sulla nuca. Era incredibile come quella ragazza, che se avesse voluto sarebbe diventata una splendida strapagata entreneuse a Londra o a Parigi, si fosse adattata al modesto salario come colf di un pensionato. Vero è che ormai era piuttosto una governante. Forse il Professore avrebbe dovuto rivedere il loro rapporto di lavoro, per quanto sapesse bene ch’esso era correttissimo ai sensi della legalità: socialista di ferro, di quelli all’antica, il Professore detestava lavoro “in nero” ed evasione fiscale.
– Svetlana, ricordami che bisogna parlare del tuo salario con il commercialista.
– C’è qualcosa che non va, Professore?
– Sì: non va che è troppo basso.
– Io ne sono soddisfatta…
– Questo va’ a raccontarlo al tuo amico Putin: qui in Italia tu sei una sfruttata e io non voglio far la parte dello sfruttatore.
– Come vuole: grazie, Professore!
E gli regalò un sorriso timido e radioso. Dio, com’era bella quando sorrideva: e se lui si fosse azzardato a chiederle di nuovo la stessa cosa che le aveva chiesto in sogno? Per un attimo, sentì che ci stava scivolando: ma si riprese in tempo. E poi, anche in quella faccenda c’era qualcosa che non andava. “Come noi li rimettiamo ai nostri debitori…”. Ma Svetlana, dati i servizi che gli prestava, era semmai una sua creditrice.

Quanto a Dio, poi, certo che non c’è. Ma se c’è ed è vero che ci giudica e che il Giorno del Giudizio non ci chiederà nulla di teologia o di diritto canonico, bensì ci rinfaccerà di non aver dato da mangiare agli affamati, da bere agli assetati, da vestire agli ignudi, gli risponderò anche se sono ateo, caro il mio buon Dio! Io verso bei soldi ai “Medici Senza Frontiere” e alle buone suore che gestiscono le adozioni a distanza. Ma Tu, Tu che senza ragione mi hai tolto quanto avevo di più caro, che accidenti vuoi da me, proprio la vigilia di Natale? Rimettere i debiti ai debitori! E poi, che genere di debitori? Capirei i poveracci: ma i furbastri che magari non pagano perché sono dei buoni a nulla o dei disonesti, degli avari bugiardi che piangon miseria e poi sono più ricchi di te, con le loro auto costose e le loro famiglie viziate… Ti prego, Signore, piantala di parlarmi nelle orecchie così forte, come se Tu esistessi sul serio! E poi, quando ci vediamo, dobbiamo ben regolare questa faccenda di Svetlana: Ti piace scherzare, vero? A me no, perdinci!…

Quello però non si chetava. Allora il Professore si alzò di scatto e si diresse verso lo studio, quasi impaurendo il buon Wotan che gli stava accucciato ai piedi; si sedette alla scrivania, prese uno dei suoi bei fogli di carta da lettere che quelli del “Papiro” di Piazza Duomo confezionavano ogni anno apposta per lui (glielo insegno io a quel pezzente com’è una carta da lettere di qualità…) e vergò nervosamente due o tre righe; piegò il foglio, lo imbustò, se lo cacciò nella tasca della veste da camera cinese e uscì lasciando la porta dell’appartamento aperta, Wotan impietrito dalla sorpresa e Svetlana di stucco.
Evitò l’ascensore, che gli stava antipatico (in realtà era un vecchio claustrofobo). Fece quasi di corsa i due piani in discesa, arrivò alla porta dell’appartamento di destra del quarto piano e suonò energicamente il campanello. Cacciò bruscamente nelle mani dello spregevole GGGG – che, venuto ad aprire, non era riuscito a frenare un moto di sorpresa e quasi di paura – la busta chiusa; fece dietrofront e aveva già risalito mezza rampa di scale quando un “Professore!” gridato con una voce quasi strozzata lo fece voltare all’indietro.
– Che c’è, adesso?
– Ma, Professore Illustre, questa è una ricevuta!
– Dottore illustre, le mie felicitazioni: vedo che sa leggere. Sì, è per l’appunto una ricevuta: lo so anch’io!
– Lei dichiara che io Le ho corrisposto in data odierna otto mesi d’affitto, secondo gli accordi dei nostri due legali…
– E allora?
– Come, allora? Ma non è vero!
– Vuol dire che sono un bugiardo!
– E adesso?
– Ora, tutto è in regola e si ricomincia da capo. Se però dal prossimo mese Lei non mi paga l’affitto regolarmente ogni 27, parola d’onore la butto fuori da casa mia seduta stante e a pedate nel culo.
– Ma come, mi condona il debito?
– Evidentemente: e non me ne faccia pentire.
– Io non so come ringraziarla…
– Allora stia zitto.
Aveva di nuovo fatto dietrofront e ricominciato a salire le scale. Un altro grido angoscioso lo raggiunse:
– La prego, Professore, domani venga a condividere il pranzo di Natale con me e la mia famiglia! Ci conceda quest’onore!
Ah, no, era davvero troppo!
– Badi che a Natale io bevo solo champagne millesimato…
– Quello, mi dispiace, non ce l’ho: tuttavia…
– Lo vede?
E riprese a salire le scale.
Nuovo richiamo accorato, strappacuore:
– La imploro!
Sempre a scongiurare, quello là. Ma, chissà perché, al Professore tornò a mente a quel punto il racconto d’un altro russo, forse era Turgenev, o Gogol’ o Dostoevskij, vallo a ricordare: se fai l’elemosina a qualcuno ma gliela fai altezzosamente, senza metterci il cuore, è peggio che se tu non gli avessi dato nulla. Ah, Svetlana, sempre i tuoi benedetti compatrioti fra i piedi! E il tuo Dio, quel tiranno pieno d’amore per tutti che rompe la scatole solo ai galantuomini!
Tornò indietro e provò a essere gentile, quasi dolce. Tanto valeva accettare l’invito di quei tangheri: fra l’altro nei giorni di festa Svetlana lo lasciava solo, si prendeva le ventiquattr’ore libere e il Professore sapeva bene che lei aveva anche un amico (ma che fai, vecchio imbecille? Mi diventi anche geloso?). Avesse almeno potuto starsene in santa pace con Wotan, farsi un piatto di riso o di pasta e ascoltare un po’ di musica oppure godersi un film in tv. Ma sì, in fondo, alla malora…
– Mi dica: che cosa prevede il menu di casa Gaeta Giglietti, per Natale?
– Ah, vedrà, facciamo uno splendido bollito misto!
– E la mostarda dolce di frutta, quella di Cremona, ce l’avete?
Nuova espressione da cane bastonato del turpe gggg:
– No, quella no: sa, da noi non usa, la nostra tradizione di famiglia prevede la maionese, la salsa verde…
– I soliti pidocchi fiorentini! Vabbè, che vuole che Le dica: la mostarda ve la porto io, dovete pur imparare a saper vivere! E porterò anche lo champagne…
– Noi avremmo dell’eccellente Chianti…
– Non dubiti, me lo immaginavo: si fa il bollito, e nemmeno un goccio d’Oltrepò pavese! E poi il Chianti, quell’immonda mistura di uve a casaccio inventata da quel traditore spergiuro del barone Ricasoli…
– Professore, le giuro, non capisco…
– Lasci perdere, lo so che non capisce. A domani, con mostarda e champagne. Lei tiri fuori un secchiello per il ghiaccio: ce lo avrà, almeno quello, no?
Oh, i sogni! La tundra innevata, correre su una slitta tirata da quattro cavalli neri, lui e Svetlana, soli nel vento, come Lara col dottor Živago… e invece gli sarebbe toccato, quell’anno, il bollito misto in compagnia di gggg.
Eccola, Professore, la prova che Dio esiste! Chi ci avrebbe mai pensato a un tiro mancino come questo, se non il Grande Giocoliere? Questo è genio, altroché! E non Lo senti come sta allegramente ridendo di te, lassù nell’alto dei cieli?

(Pubblicato originariamente sul settimanale “Toscana Oggi”, dicembre 2017 e riproposto, in versione leggermente modificata ma rispettando l’ambiente “datato” – la Firenze di Dario Nardella sindaco, l’anno nel quale fu esposta in Piazza della Signoria un’opera d’arte consistente in una immensa colata di metallo grigio che ai fiorentini ricordò in realtà altro materiale colante – in Cantico postmoderno di Natale, Lucca, Edizioni La Vela, 2019, pp. 74-60. L’attico è molto simile a quello ancor esistente in realtà all’ultimo piano di un palazzo di Piazza di Porta Romana nel quale a lungo visse il grande studioso Piero Sanpaolesi).