Domenica 2 gennaio 2022, San Basilio
AUGURI
“Credete che sarà felice quest’anno nuovo?”;
“Oh illustrissimo, sì, certo!”;
“Come quest’anno passato?;
“Più, più assai…”;
“Come quello di là?”;
“Più più, illustrissimo…”
Diamocelo così, il Buon Anno Nuovo: col pessimismo cosmico della ragione e del senso storico e con l’allegro, feroce ottimismo della volontà. Diamocelo come ci suggeriva il conte Giacomo Leopardi nel Dialogo d’un venditore d’almanacchi e d’un passeggere, perfettamente evocando la concordia discors di un miserabile ma furbo machiavellico intento a smerciare la sua roba e di un galantuomo affetto da impotentia agendi ma non cogitandi e ben provvisto della weberiana virtù del disincanto.
L’anno che verrà, il 2022 da alcune ore avviato, si apre su una nota tragicomica, involontariamente umoristica eppure, pur essendo gravissima, per nulla seria. La richiesta dell’impagabile e ineffabile Biden a colui che, per grazia di Dio, siede attualmente all’interno del Cremlino (e Dio ce lo mantenga). La richiesta incredibile e irresistibile nella sua involontaria comicità formulata da un (purtroppo) capo di stato che dispone anche della volontà e dei mezzi militari di troppi governanti a lui subordinati e rivolta a un altro capo di stato, ohimè suo collega, affinché quegli limiti la sua libertà di disporre le sue forze armate liberamente muovendole all’interno del territorio sovrano ch’egli governa: mentre, al contrario, il responsabile di quest’irricevibile pretesa muove le forze armate proprie ed altrui dove vuole all’interno di un territorio immenso – ben al di là dei suoi diritti e delle sue competenze istituzionale – ai margini dei propri confini. Si stringono Mosca e i suoi possibili alleati (a cominciare da Teheran) nel cerchio di fuoco di ordigni nucleari pronti ad entrare micidialmente in azione e collocati a poche centinaia di chilometri dai ben calcolati obiettivi; al tempo stesso, si starnazza senza ritegno sul fatto che eventuali ordigni russi potrebbero, dall’interno dei loro confini, minacciare di rispondere al fuoco. È la stessa vecchia logica dello “scudo stellare”: colpire e voler impedire al nemico designato il diritto del colpo di replica. Il tutto nel nome di un concetto a dir poco ridicolo di democrazia formale, alla luce del quale qualunque stato sarebbe libero di poter scegliere i propri alleati (cioè, nel caso specifico, di “entrare nel club” di quell’organizzazione potenziale a delinquere che è ormai divenuta la NATO) facendo ufficiale e dichiarato ingresso in un fronte ostile a qualcuno e definendo escalation qualunque misura da parte del minacciato volta a rispondere alla minaccia.
Allo stesso modo, anni fa, si attribuiva scherzosamente ai fautori sudafricani dell’apartheid il motto “Fuori i negri dall’Africa!”; oppure si raccontava di nuovo l’eterno apologo del buon Fedro, Superius stabat lupus, nel quale un lupaccio con tanto di bava che gli cola dalle fauci accusa l’agnellino, che si abbevera a valle del ruscello sulle rive del quale stanno entrambi, di star inquinandogli l’acqua.
Quindi, stando ad alcuni sinceri democratici, il governo ucraino ha da una parte tutti i diritti di negare l’indipendenza del Donbass (lo stesso diritto grazie al quale è nata l’Ucraina stessa come stato sovrano), ma Putin non ha dall’altra diritto alcuno di spostare una base missilistica o una divisione corazzata sul territorio della Federazione Russa da lui governata. La pena, se lo fa, è nella migliore delle ipotesi un aggravarsi di quella che è già una guerra economica a colpi di sanzioni: e poco male se i risultati di questa guerra (che è già una guerra) saranno i “danni collaterali” come, nel caso di noialtri italiani, l’appesantirsi esponenziale delle bollette di luce e gas a causa del “fuoco amico” di chi decide le forme di embargo da imporre ai danni di quello che sarebbe – lo dicono perfino Bernard-Henri Lévy, André Glucksmann e altri fior d’intellettuali, ch’è tutto dire… – uno “stato dittatoriale”.
Addentriamoci con queste premesse nel promettente anno del Signore 2022, nel quale salvo l’imprevedibile svolgersi delle promesse in atto assisteremo a un complicarsi – se non a un aggravarsi – dell’epidemia di Covid, a un approfondirsi del concentramento della ricchezza e della sparizione dei ceti medi, quindi del solco che divide i pochi e sempre meno arcirichissimi dai troppi e sempre più superpoveri, a un qualificante progresso della piaga costituita in tutto l’Occidente e in special modo in Italia dal decremento delle nascite, al dilagare di una miseria che sta ormai aggredendo anche aree del mondo e strati sociali che fino a ieri se ne sentivano immuni e al sicuro.
Eppure, qualche segnale c’è. I millennials critici nei confronti dell’edonismo individualistico irresponsabile dei loro genitori e dei loro fratelli maggiori e preoccupati invece di salvaguardare quel che resta della salubrità del paese e di uscire dalla ruota stritolante del meccanismo produzione-consumo-arricchimento-sfruttamento per conseguire nuove e più efficaci forme di solidarietà sono sempre più numerosi: e costituiscono un modello virtuoso per gente più anziana e meno giudiziosa di loro. Qualcuno sembra risvegliarsi dal sonno malefico e generatore di mostri che induce ancora oggi troppi scriteriati ad attaccare irragionevolmente il grande papa che la Provvidenza ci ha fatto il dono d’inviarci e uscire dal coro abbaiante dei detrattori. Il nostro noioso, velleitario, patetico gutta cavat lapidem del quotidiano Delenda NATO, che non è un tormentone da estremisti ormai fuorimoda (ricordate il tempo del “Buttiamo a mare le navi americane”?) ma semplicemente l’invito, modesto e concreto, rivolto a tutti gli europei affinché la facciano finita con il loro occidentalismo atlantista e si convertano a un europeismo deciso a far del nostro continente il mediatore costruttivo, l’ago della bilancia tra forze opposte, comincia a ricevere qualche interesse e qualche consenso, per quanto sia vano e inutile aspettarsi che i padroni del vapore internazionale e i loro ascari vi si convertano: ma quando una Meloni parla di “confederalismo europeo”, per quanto non abbia ancora affrontato uno sviluppo articolato di tale intuizione, e quando un Salvini esprime nostalgia per il tempo della leva militare obbligatoria (magari omettendo che, oggi, più adatta ai nostri bisogni sarebbe una leva obbligatoria che lasciasse comunque liberi ogni anno i giovani chiamati a una scelta tra l’àmbito del servizio militare e quello del servizio civile, secondo una quota percentuale da stabilire appunto annualmente), l’osservatore equilibrato non può che concluderne che, appunto, qualcosa si muove.
Sono segnali ancora deboli, pianticelle da coltivare. Con l’acqua della speranza e il sole della solidarietà.