Minima Cardiniana 359/4

Domenica 2 gennaio 2022, San Basilio

EFFEMERIDI DELLA CANCEL CULTURE
La cosiddetta Cancel Culture è una diffusa epidemia, una specie di Covid pseudointellettuale e pseudostorico, che intenderebbe estendere il principio della damnatio memoriae (un’operazione che, quando nasce come spontanea e immediata reazione nel contesto di grandi squilibri politici e morali, è del tutto comprensibile: ma che è ridicola quando voglia imporsi come postuma “pulizia della memoria”) all’insieme del nostro passato, riletto per giunta alla luce di valutazioni faziose e superficiali. Alla Cancel Culture – che può esprimersi con la rumorosa iconoclastia, ma anche con il silenzioso mantenimento del divieto di parlare di qualcosa e di qualcuno perpetuandone la memoria – dev’essere viceversa contrapposto il serio, continuo, sereno e sistematico lavoro critico di rilettura della storia: quello che invece, sulla base di altri pregiudizi a loro volta infami e ridicoli, è stato condannato in blocco sotto il nome – strampalato anche semanticamente parlando – di “revisionismo”.

A differenza della volgare e puerile Cancel Culture, invece, è proprio non già il revisionismo”, bensì la sistematica revisione storica che si deve reimparare a difendere. La storia è tessuta di realtà – fatti, istituzioni, strutture – le quali lasciano dietro di sé tracce che noi chiamiamo documenti. I documenti non parlano da soli: debbono esser letti, cioè interpretati. La critica storica s’incarica di ciò: senza di essa, la narrazione sarebbe impossibile (dal momento che la stessa narrazione è, in sé, critica). Nulla dell’eredità che la storia ci consegna va cancellato o distrutto: vi sono modifiche o addirittura censure che sono giustificate nel e dal momento nel quale vengono adottate, ma tutto va rispettato in quanto parte di un passato che ci appartiene anche negli aspetti peggiori, senza il quale non saremmo quello che siamo e che in quanto tale va rispettato. Lo stesso “dovere della memoria”, tanto sbandierato da certuni quando sembra loro comodo il farlo, è dovere totalizzante: anche perché qualunque offesa al passato può celare la volontà di nasconderne certi aspetti a vantaggio di altri da valorizzare in un’operazione truffaldina. Quanti mostri vengono “sbattuti in prima pagina” non già per denunziarli – operazione spesso inutile o superflua – con lo scopo di nascondere dietro la loro ombra terribile o inquietante molti mostriciattoli che si ritiene scomodo tornar o continuar a ricordare? Quante “denunzie” indignate sono, in realtà, operazioni di furbastra censura?
Prendiamo un caso particolare, tornato in superficie – ma è una polemica vecchia – nella nostra bella, gloriosa, illustre città di Modena. Là è da tempo in atto una specie di censura: sembra che una parte del suo passato, quella del ducato austrolorenese succeduto all’estense, si debba nascondere come una vergogna antistorica.
È vero il contrario. Non si nega certo che la Modena della Restaurazione abbia potuto diventare oggetto d’una sorte di
damnatio memoriae dopo gli esiti del movimento di unificazione nazionale: e ne sappiamo i motivi. D’altronde, ormai la critica storica più seria ha superato da tempo i motivi di quelle vecchie polemiche. Che l’unità d’Italia sia stata costruita sulla base di un gioco tra forze politiche locali e internazionali e che avrebbe potuto edificarsi su presupposti ben diversi – Rosmini e quindi Cattaneo lo avevano già a suo tempo affermato –, è un fatto ormai criticamente accettato; che quella d’Italia sia per sua natura una storia policentrica, il che l’avrebbe resa nel corso del secolo XIX del tutto inadatta a uno sviluppo unitario centralizzato “alla francese” come invece si affermò nel corso del trentennio fra Anni Quaranta ed Anni Settanta a causa dell’appoggio fornito ai disegni espansionistici del re di Sardegna da parte dell’imperatore dei francesi prima, del re di Prussia e imperatore di Germania poi, dei capitali bancari e imprenditoriali prima francesi e poi inglesi e tedeschi e delle borghesie interessate all’abbattimento delle vecchie frontiere e alla lotta contro il potere temporale della Chiesa (e contro la Chiesa tout court), è stato detto, ridetto e stradetto. Che tutto dovesse durante gli Anni Sessanta cambiare affinché – sotto un certo profilo degli equilibri sociali – “tutto restasse come prima”, non è solo la cinica e fortunata battuta di un personaggio del Gattopardo di Tomasi di Lampedusa; e che la storia non solo si possa, bensì si debba scrivere anche al condizionale, con tutti i “se” e i “ma” del caso, l’ha affermato nientemeno che un grande storico, David S. Landes, il più grande analista della “rivoluzione industriale”.
Alla luce di tutto ciò, il perdurare dei patetici richiami a una storiografia da manuale di storia dei tempi della Maestrina dalla Penna Rossa, condito dagli squilli di tromba alla Piccola Vedetta Lombarda e dai rulli di tamburo del Tamburino Sardo, sono semplicemente ridicoli. Che il regno d’Italia non abbia trovato di meglio che proseguire su quella linea, alla quale il fascismo aggiunse il paludamento retorico del canagliesco Giovan Battista Perasso detto “Balilla” (ma al porto antico di Genova lo chiamavano “Mangiamerda”), è stata un’autentica disgrazia per il nostro paese, che ci ha fra l’altro gettati nella prima guerra mondiale e in qualche misura anche nella seconda. Il patriottardismo italico è stata una sciagura: continuare alla luce di esso a vantare le vecchie supposte glorie risorgimentali fingendo di dimenticare che a loro volta gli stati italiani preunitari con le loro effettive realizzazioni civili (a partire dallo stesso lombardoveneto ch’era tale – e il Cattaneo lo aveva ben compreso – nonché dal granducato di Toscana, dai ducati di Modena e di Parma nonché per certi versi dallo stesso regno delle Due Sicilia erede del riformismo di Carlo III e perfino dallo stato pontificio) è semplicemente ridicolo prima di essere antistorico.
Ecco perché vi offriamo uno spaccato della polemica modenese dei giorni nostri: la faccenda della lapide commemorativa da apporre o meno al palazzo Ducale, oggi Accademia Militare, è solo un pretesto. Il problema sta nell’effettiva, necessaria riappropriazione della nostra storia nascosta dalla vernice di ridicole e oltretutto superdatate ideologie. Confrontate le pacate e documentate ragioni di Buffagni, i concreti richiami alla realtà storica di Nardi, le ironiche ma giudiziose note di Barbolini, con l’eco delle solite fanfare savoiarde o mazziniane reintonate dai loro interlocutori: e tenete presente che sono state quelle fanfare, stancamente o istericamente ripetute per decenni di retorica patriottarda prima nazionalista e fascista poi, a preparare la sciagura del ’45 alla quale peraltro sono ohimè sopravvissute.
Con ciò, apriamo un dibattito su scala nazionale. Qui c’è pane per i denti di destra e di sinistra, per bocche boccucce o boccacce reazionarie e democratiche, cattoliche e laiche, fondamentaliste di qualunque fondamentalismo. Venghino venghino, al gran bazar della contraffazione pseudostorica e del disincanto weberianamente purificatore. Chi ha paura che una risata uccida la “memoria condivisa” dimostrando fino a che punto “il re è nudo”, mostra con i suoi stessi timori la nascosta consapevolezza di quanto siano fragili i valori che si sforza di difendere. Gratti la Libertà, la Democrazia, i Diritti dell’Uomo e del Cittadino, ed eccoti riemergere i soliti triangoli, le solite squadre, i soliti compassi di chi difendeva (difende?) i propri interessi, la solita Borsa, i soliti Lloyds, le solite
Lobbies, le solite Joint Stock Companies: e li chiamava (li chiama?) Progresso, Giustizia, Umanità. Chissà che in fondo, e sotto sotto, non dia noia a qualcuno il perdurare della memoria di qualcosa di legato a quel che ha significato nell’Ottocento l’impero d’Austria con la sua difesa di una società retta da un sistema consultivo che metteva al riparo dalla demagogia politica e al tempo stesso dalla speculazione selvaggia affermatasi con le lobbies che si sono imposte al mondo con la prima guerra mondiale e hanno dato vita a quel che lo stesso Luttwak ha definito il “turbocapitalismo”.
Ma se questo è almeno lontanamente vero, allora eccoci gettati in un grande
Kulturkampf che va ben oltre il ducato di Modena. Altro che Cuore e relativo deamicisiano ciarpame. Aveva ragione Umberto Eco: evviva Franti, l’Infame! Lui sì che della storia patria aveva capito tutto.

STORIA DI UNA LAPIDE
1. La gloria degli Este. Nessuna lapide, c’è già il palazzo ducale
A proposito della proposta di porre una nuova lapide a Palazzo Ducale. A che pro porre una lapide a ricordo degli Estensi sul Palazzo Ducale di Modena, quando ancora oggi è l’intero edificio a esaltare la grandezza degli antichi duchi che lo vollero, e a ricordare nel contempo l’eclissi meritata degli indegni arciduchi d’Austria che lo persero?
Ci si scriverà anche com’era finita Modena nelle mani degli Asburgo Lorena? Vogliamo ricordare come Ercole III, l’ultimo vero duca estense, nel 1796, abbandonò alla svelta (e per sempre) una Modena inneggiante alla Libertà e alla Repubblica? Senza dimenticare perché la statua di Ciro Menotti guardi ancora con sdegnosa fierezza le finestre della sala del trono, dove s’apre quello splendido salottino d’oro in cui nel 1831 l’Arciduca d’Austria Francesco IV lo tradì firmandone la condanna a morte? Proprio quel benevolo sovrano che nemmeno dieci anni prima aveva preteso la testa del mite Don Giuseppe Andreoli negandogli orgogliosamente e pervicacemente la grazia, sordo ad ogni richiesta di clemenza, ne sottoscrisse la decapitazione. Per non tacere del povero notaio Vincenzo Borelli impiccato prima di Ciro Menotti il 26 maggio 1831 e del cavalier Giuseppe Ricci, devoto uomo di corte, giustiziato innocente nel 1832 per la falsa accusa di aver ordito una nuova congiura.
Se in quella lapide si vorrà proprio ricordare chi fece suo malgrado di Modena una Capitale (obbligato dal fatto che il papa lo aveva sfrattato da Ferrara), come se il Palazzo Ducale stesso, con la sua imponente mole, non sia ora e sempre una sufficiente testimonianza di quell’epoca tremenda di sfarzo di corte e miserie popolari, l’iscrizione non taccia però sulle colpe di chi la ridusse all’incubo di un despota.
Una città e uno Stato asserviti a un impero straniero e alle sue armi, nemico della Libertà d’Italia. Sarebbe meglio riaprire finalmente il Museo del Risorgimento dove le memorie di quell’epoca dai forti contrasti giacciono ancora incredibilmente nascoste al pubblico da decenni, dal lontano 1990.
(Mariano Brandoli, La Gazzetta di Modena, Lettere, 14 aprile 2021)

2. Modena ricordi quanto deve ai Duchi d’Este
Negli ultimi trenta anni sono stati scritti almeno un centinaio di libri, che danno un quadro molto preciso dei fatti e dei personaggi del nostro Risorgimento.
Certo mi rendo conto che non posso obbligare nessuno a leggerli per capire chi erano i carbonari, ovvero i massoni, che dietro alle quinte, sin dal 1717 (data della costituzione della moderna massoneria), volevano far guerra alla Chiesa cattolica, agli Stati cattolici, e ai loro Papi. Però, certe affermazioni, sul tipo che a Modena nel 1796 si inneggiava alla libertà e alla repubblica, quando chiaramente nessuno aveva idea di cosa fosse né l’una né l’altra fa sorridere se non fosse che purtroppo questo portò a Napoleone e a tutte le sue guerre, con perdite di vite umane immani (il 40 per cento dei soldati francesi), reclutando con coscrizione obbligatoria i soldati, anche fra i modenesi, per la sua gloria. Riguardante alla Dinastia degli Este, sono stati scritti anche qui innumerevoli testi e non ne ricordo alcuno che ne parlasse con l’astio del signor Brandoli, nella lettera pubblicata l’altro giorno, a proposito della proposta di collocare su palazzo ducale una lapide che ricordi i duchi d’Este. C’è anzi concordia nel ritenere che gli Este regnarono con equilibrio e magnanimità prendendosi cura del loro piccolo Ducato in mille modi diversi e costruendo dalla Città-palude che trovarono nel 1598 la Modena attuale, la Modena bella e da ricordare, quella costruita in toto dagli Este e dalla loro corte. Ma quando si parla degli Este si dimentica spesso che la Modena Capitale del Ducato da una delle Città più importanti d’Italia divenne dal 1861 una delle tante città conquistate dai Piemontesi Ritornando a quanto ancora ha scritto, capisco che un morto o due per Lei giustamente siano importanti ma la pregherei di ricordare che la sera in cui Menotti progettò il sequestro della famiglia ducale per prenderli in ostaggio o per ucciderli (con una quarantina di cospiratori), il Duca inviò alla casa del Menotti in un primo tempo un paio di guardie e due pionieri disarmati (il Corpo Pionieri era disarmato) e due di loro vennero assassinati per avere loro intimato, senza armi, la resa. Solo in un secondo momento arrivò anche il Duca con altre guardie ad intimare la resa e alla prima cannonata si arresero o fuggirono tutti lasciando a terra due morti (i due pionieri). Ben diverso fu il comportamento dei Generali modenesi Fanti e Cialdini nell’annessione del Regno delle Due Sicilie e nella feroce repressione del brigantaggio filoborbonico dopo l’Unità, ma nessuno vuole cancellarli dalle lapidi e dai libri di storia. Si continua infine a dire che il Duca Francesco è fuggito da Modena per viltà. Non sarà forse che quel Duca abbia deciso di non fare una guerra stupida, inutile e mai dichiarata da nessuno, contro i Piemontesi (con i quali era imparentato) e i francesi (40.000 soldati), proprio per non sacrificare la Brigata Estense (circa 3500 uomini), le persone e la città che amava? Chiediamocelo.
(Giuseppe Buffagni, La Gazzetta di Modena, 16 aprile 2021)

3. Lapidi, duchi e il mitico passato che non c’è stato
In questi giorni ho letto sulla stampa locale la proposta dell’ex senatore ed ex ministro Carlo Giovanardi di fare apporre sulla facciata del Palazzo Ducale di Modena, universalmente noto come tale e già ricordato in ogni sorta d’iscrizioni e volantini turistici ad uso di chi si rechi nella nostra città, una lapide che ricordi che quello è stato Palazzo Ducale.
Ho letto sul vostro giornale una lettera di replica del signor Brandoli, che si chiede a che pro danneggiare un importante monumento storico ricordando chi fece uccidere Eroi dal cui sacrificio nacque la nostra Patria, l’Italia, e una controreplica del signor Buffagni, che chiede invece che venga ricordato quanto Modena dovrebbe ai duchi d’Este. La vicenda, in sé modesta, rileva a mio avviso in quanto spia di un perìodo di grave crisi.
Sono dell’opinione che solo in uno straordinario momento di crisi, crisi politica, economica, sociale, morale, che purtroppo si protrae da molti anni e dalla quale non s’intravede una prossima uscita, possa svilupparsi un dibattito su chi fosse nel giusto tra chi dette la vita perché l’Italia non fosse solo “un’espressione geografica”, ma una Nazione, libera e indipendente, e chi, finché lo poté, difese l’esistenza di sei piccoli stati e di una provincia dell’impero austriaco, reprimendo nel sangue ogni dissenso.
Da una parte troviamo la modernità, con gli ideali di libertà e democrazia, con la comprensione dell’importanza della scienza e della tecnologia, che hanno portato la speranza media di vita e il grado medio di soddisfacimento dei bisogni a livelli mai raggiunti nella storia umana. Troviamo la pubblica istruzione, con le masse popolari, così affrancate da millenni di servaggio e umiliazioni, che diventano soggetto politico.
La società di Francesco IV e Francesco V era invece un luogo nel quale i sudditi erano in maggioranza analfabeti, la durata media della vita, condotta a livelli miserrimi dai più, non arrivava a trent’anni, dove un’occhiuta polizia politica conculcava, se necessario uccidendo, ogni manifestazione del pensiero sgradita al potere.
Più che sull’opportunità o meno della lapide si dovrebbe, io credo, riflettere su come uscire da un così profondo stato d’insoddisfazione, che porta a vagheggiare un mitico passato di prosperità e pace che non è mai stato.
(Paolo Seghedoni, La Gazzetta di Modena, 18 aprile 2021)

4. Il dovere di ricordare la nostra storia
Una breve risposta alla lettera del dottor Mariano Brandoli che è contrario a una lapide, proposta dal Senatore Carlo Amedeo Giovanardi, che ricordi la dinastia degli Este. Brandoli, ricorda solo alcuni eventi (i morti) di cui, secondo lui, si sarebbero resi responsabili, dimenticando il lungo elenco di palazzi e altre opere realizzate e a noi giunte, omettendo anche la vendita che fece Francesco III, per risanare i bilanci dello stato sempre in cattive condizioni, di molti quadri della Galleria Estense a Augusto III di Polonia che li trasferì a Dresda. Capisco che in questo periodo storico un patentino d’iconoclasta (che fa molto chic o politicamente corretto) non si nega a nessuno, però, questo deve essere motivato in ben altro modo. In primis, senza dimenticare in quale situazione storica sono stati eretti monumenti, appese lapidi commemorative a persone o eventi accaduti in un determinato passato. Brandoli usa l’aggettivo “despota” per definire Francesco IV, ma che era pur sempre il capo di uno stato con la sua capitale, mentre il patriota Ciro Menotti, per l’epoca, era un sovversivo. Quindi, la storia deve essere a mio avviso letta con la conoscenza del passato, il contesto del tempo in cui è avvenuta e non quella del presente, altrimenti la base che le vicende passate sono scritte solo dai vincitori, è sempre attuale. In questo modo si potrebbe pensare che Lenin, Stalin o Mao, solo perché hanno una via intitolata, siano dame della carità o degli appartenenti alla Misericordia nonostante i milioni di morti a loro attribuiti. Continua citando gli Asburgo Lorena e la loro “eclissi meritata degli indegni Arciduchi d’Austria che la persero”. Sarà, ma Carlo Ludovico Francesco Giuseppe d’Asburgo che ereditò il titolo, non è ricordato come un bieco tiranno a cavallo con il frustino nell’atto di colpire gli abitanti del Tirolo di cui era Governatore Generale. Ripeto, nel bene e nel male Modena è stata una capitale sotto quella dinastia e questo non lo si può negare. Fa bene il Senatore Giovanardi a ricordarlo a un eventuale turista specialmente se ha scarse conoscenze di storia italica. Concordo, però, sul fatto che bisognerebbe trovare uno spazio per esporre i cimeli tolti dal Museo Civico d’Arte, perché i locali precedentemente dedicati al Risorgimento dovevano essere utilizzati per gli uffici di rappresentanza del Festival della Filosofia, fiore all’occhiello dell’amministrazione comunale di sinistra.
Tutto il materiale fu messo in casse e finì in cantina in attesa di una nuova sede, come scriveva nel 2011 l’allora Sindaco Giorgio Pighi nella premessa al corposo catalogo dedicato alle Celebrazioni dei 150° dell’Unità d’Italia, e confermatomi dalla stessa Direttrice del Museo Civico d’Arte dottoressa Francesca Piccinini durante una conversazione dell’epoca (io ero contrario alla chiusura).
Lei, ma lo dico senza polemica, Caro Dottore, cosa faceva? Termino con una domanda. Se oggi fosse eventualmente trovata una sede (e di spazi liberi ce ne sono tanti!) per esporre i cimeli di storia che si vedono nel catalogo, cosa facciamo con quelli concernenti la dinastia Estense? Li bruciamo?
(Massimo Nardi, Circolo Raimondo Montecuccoli, La Gazzetta di Modena, 23 aprile 2021)

5. Non confondiamo la memoria e la storiografia
Ho l’ardire di chiedere ancora l’ospitalità riguardo il dibattito originatosi dalla proposta dell’ex senatore Giovanardi: collocare sul palazzo che ospita l’Accademia Militare una lapide che ricordi i duchi austroestensi. Venerdì, il Suo giornale ospita una lettera di un esponente del “Circolo Montecuccoli”, che si palesa favorevole alla riapertura del museo del Risorgimento, a patto però che a fianco dei cimeli che ricordano e celebrano il Risorgimento d’Italia vi siano i cimeli della dinastia d’Austria Este. Il signor Nardi, estensore della lettera, fa a parer mio confusione tra le esigenze della storiografia e quelle della memoria condivisa. La storiografia è la scienza sociale che ha lo scopo d’indagare gli avvenimenti del passato. Come ogni scienza, è ricostruzione approssimativa della realtà, e quindi è impegnata in un continuo sforzo di revisione delle sue conoscenze e conclusioni. Una Società umana organizzata in Stato, una Nazione che voglia e deve essere non solamente un’amorfa entità amministrativa, una Nazione che nel caso concreto è l’Italia, nostra Patria, deve però darsi una memoria condivisa. In tutti i Paesi che hanno raggiunto libertà e indipendenza la memoria condivisa celebra i Patrioti. Patrioti come l’italiano Ciro Menotti, che anche con la violenza, certo, una violenza resa necessaria dall’impossibilità di usare mezzi pacifici per opporsi a monarchie assolute che non indicevano libere elezioni, dando la loro vita hanno dato unità e libertà alla loro Nazione. Se si tenta di costruire una memoria condivisa in cui si mettono sullo stesso piano gli Eroi del Risorgimento e i Duchi al servizio dell’Impero Austriaco, i Garibaldini e i briganti, si invoca implicitamente la dissoluzione della nostra Italia. Integrando quanto scrissi nella mia precedente lettera, il vero spunto di riflessione credo sia che vi sono persone, spero poche, che sognano un radioso futuro… nel passato di un’Italia divisa tra sei staterelli e una provincia dell’Impero d’Austria, dove la maggioranza degli abitanti stentavano una breve vita, impegnati in una misera agricoltura di sussistenza, senza libertà politica.
(Paolo Seghedoni, La Gazzetta di Modena, 25 aprile 2021)

6. Lapide ‘Estense’, mettiamoci una pietra sopra
L’ex senatore Carlo Giovanardi ha proposto di collocare sui muri del palazzo ducale, sede dell’Accademia militare, una lapide che ricordi ai turisti ignari e ai modenesi distratti il passato anche estense dell’edificio, progettato dall’architetto Bartolomeo Avanzini su mandato del duca Francesco I. Apriti cielo: l’iniziativa ha registrato in certi settori dell’“intellighenzia” cittadina reazioni preoccupate, talvolta scomposte, manco si trattasse della paradossale ‘modesta proposta’ di Jonathan Swift, che consigliava di risolvere il problema della fame in Irlanda dando da mangiare ai signorotti inglesi i morbidi neonati locali. A chi ha voluto scorgere nella lapidaria iniziativa di Giovanardi chissà quale nostalgia filoducale da parte di forze reazionarie e oscurantiste, neanche si volesse impiccare di nuovo Ciro Menotti, ricordo che nel 1998, in occasione dei 400 anni di Modena capitale, l’amministrazione comunale (progressista per definizione) non esitò a celebrare l’evento all’insegna di ‘Modena-una corte nel cuore d’Europa’. Sotto questo titolo orgogliosamente campanilista, nel corso dell’anno si snodarono 16 mostre, sette convegni e un festival di musica barocca, ‘Grandezze & Meraviglie’; vennero inoltre progettati restauri a chiese e palazzi, fra i quali la stessa dimora estense. In confronto a una così esplicita rivendicazione del passato ducale, la lapide di puro intento pedagogico proposta da Giovanardi è poco più d’un segnale turistico. Eppure, non mi sembra che all’epoca si levassero grida d’allarme sui rischi d’una restaurazione filo- estense, solo perché si ricordava che Modena era stata la capitale d’uno staterello decorosamente sopravvissuto fino all’Unità d’Italia. Davvero qualcuno pensa che un elenco di nomi su una lapide possa farci paura? Dietro un’idea così fragile dell’attuale democrazia, non vorrei che cominciasse a farsi avanti anche da noi quella ‘cancel culture’ applicata al passato, che nei paesi anglosassoni ha visto abbattere le statue di Colombo e di Churchill, o censurare perfino Shakespeare. Ma, come ci ricorda il filosofo George Santayana, “chi non ricorda il passato è condannato a ripeterlo”. Non sarebbe meglio, invece, metterci una pietra (esplicativa) sopra?
(Roberto Barbolini, il Resto del Carlino, 13 giugno 2021)