Minima Cardiniana 360/2

Domenica 9 gennaio 2022
Battesimo del Signore, Conclusione del Tempo Natalizio

KAZAKHSTAN: UN ALTRO EPISODIO DI “GUERRA TIEPIDA”?
Rivolta causata nel nome di un malessere dilagante. Ma da noi nessuno ha notato che se le nostre importazioni di gas e di altre forme di energia che oggi vengono ostacolate dal fatto che gli USA stanno conducendo una guerra economica “tiepida” (sempre meno fredda) contro la Russia di Putin oggi noi staremmo spendendo molto meno in bollette e saremmo molto più sicuri da un’escalation che non è certo la Russia a provocare (Georgia, Ucraina e Polonia insegnino). Sul Kazakhstan, meditate a proposito di due differenti analisi e decidete.

KAZAKHSTAN: NON CONFONDERE LA LOTTA DI CLASSE CON LE TRAME IMPERIALISTE
Sebbene una protesta popolare per l’aumento dei prezzi possa essere giustificata, questa non va confusa con le trame imperialiste che da tempo attendevano il momento per attaccare l’ordine costituito in Kazakhstan.
Le vicende che hanno visto protagonista il Kazakhstan negli ultimi giorni hanno suscitato un ampio dibattito anche all’interno della sinistra socialista occidentale, tra coloro che sostengono la rivolta popolare a prescindere, in quanto espressione della lotta di classe, e coloro che invece evidenziano come gli scontri siano in realtà la manifestazione di un attacco ibrido tramato dall’imperialismo e dalle sue forze alleate all’interno dell’ex repubblica sovietica.
Per fare chiarezza, qualora ve ne fosse bisogno, il Kazakhstan ha cessato di essere un Paese socialista nel momento in cui è venuta a mancare l’Unione Sovietica, oramai trent’anni fa. In nessun modo l’odierno Kazakhstan può essere considerato un Paese socialista, sebbene l’entità statale mantenga un ruolo molto importante nell’economia del Paese. Possiamo quindi dire che una protesta popolare causata dall’eccessivo aumento dei prezzi di alcune materie prime, in particolare del carburante, potrebbe trovare una sua giustificazione nell’ambito di una lotta di classe per instaurare un governo socialista.
Tuttavia, la realtà ci dice che la protesta per l’aumento dei prezzi ha avuto inizio in due città di secondaria importanza, Jañaözen e Aktau, nella regione di Mangghystau, ma successivamente questa è stata sfruttata da forze organizzate per creare scompiglio nelle principali città sedi del potere, l’ex capitale Almaty e l’attuale capitale Nur-Sultan (già Astana). In nessun modo queste proteste puntavano a resuscitare la Repubblica Socialista Sovietica Kazakha, così come non volevano restaurare il socialismo coloro che si sono resi protagonisti delle varie “rivoluzioni colorate” nelle altre ex repubbliche dell’URSS. Oltretutto, le proteste stanno proseguendo ancora adesso, dopo che il governo ha messo i prezzi del carburante e di altri beni di prima necessità sotto controllo, congelandoli per sei mesi, dimostrando come quello fosse solo un pretesto.
Alcuni affermano che uno dei motivi della protesta sarebbe l’iniqua distribuzione della ricchezza nel Paese dell’Asia centrale, una terra ricca di risorse naturali, a partire dagli idrocarburi del Mar Caspio, dei cui proventi, però, gode solamente una fetta ristretta della popolazione, l’oligarchia economica Kazakha. Certamente, dalla fine dell’URSS, alcune famiglie hanno approfittato della situazione per ottenere ricchezze che un tempo appartenevano allo Stato, come avvenuto nelle altre ex repubbliche sovietiche. Eppure, i dati ci dicono che il coefficiente di Gini del Kazakhstan (che misura la diseguaglianza, dati pubblicati dalla Banca Mondiale nel 2020) è solamente del 27,5%, uno dei più bassi del mondo, paragonabile a quelli di Norvegia (27%) e Belgio (27,4%), e nettamente inferiore rispetto ai dati di Italia (35,9%) e Stati Uniti (41,4%).
Ancora, se prendiamo il 10% della popolazione più ricca in Kazakhstan e lo confrontiamo con il 10% più povero, notiamo che il rapporto di reddito è di 5,3, ovvero i più ricchi guadagnano in media 5,3 volte di più dei più poveri. Anche in questo caso, si tratta di uno dei dati più bassi del mondo, paragonabile – guarda caso – a quello di altre ex repubbliche sovietiche, o di Paesi nordeuropei come Islanda, Norvegia e Finlandia. A titolo di paragone, in Italia questo rapporto è di 14,4, mentre negli Stati Uniti arriva addirittura a 18. Eppure, in Europa occidentale non abbiamo visto il popolo dare fuoco ai palazzi presidenziali perché la grande borghesia guadagna decine di volte in più dei propri lavoratori, né vediamo governi che immediatamente prendono misure per soddisfare le richieste del popolo quando questo scende in piazza.
Non possiamo negare l’esistenza di un’oligarchia molto potente in Kazakhistan, ma questo non è un motivo sufficiente per giustificare delle proteste di tale portata e distruttività, né il numero di armi e munizioni a disposizione dei manifestanti può essere spiegato in altro modo se non con l’aiuto di potenze e organizzazioni straniere. Quello che sfugge a molti è che, anche all’interno dell’oligarchia Kazakha, esistono fazioni diverse, che grossolanamente possiamo dividere tra una fazione filorussa, che ha potere soprattutto nel nord del Paese, ed una filoccidentale, che invece controlla gran parte dell’economia del sud, dove le multinazionali statunitensi e britanniche gestiscono la produzione di petrolio – e questa è certamente una responsabilità del governo.
Soprattutto, la fazione filoccidentale fa capo a Muxtar Äblyazov, imprenditore ed ex ministro dell’Energia, costretto all’esilio per essere caduto in disgrazia, accusato di gravi reati finanziari in patria e in Russia, e divenuto un grande oppositore del governo Kazakho. “È da quattro anni che con il mio partito preparo il terreno per gli eventi di oggi”, ha dichiarato candidamente Äblyazov nella sua intervista rilasciata a Repubblica. Va notato come, nelle sue dichiarazioni, l’imprenditore “dissidente” utilizzi le classiche parole chiave che i media occidentali applicano ogni volta per giustificare il “regime change” in un Paese: “La situazione dei diritti umani in Kazakhstan è un disastro. Non ci sono media liberi. Non c’è libertà di riunione. A causa della corruzione dilagante la situazione economica è un disastro”, dice.
L’obiettivo dichiarato di Äblyazov è quello di rovesciare l’attuale governo e di tornare nel Paese per prendere il potere, seppur – dice lui – attraverso “elezioni libere”. In tal caso, il Kazakhstan non solo non tornerebbe ad essere una Repubblica Socialista Sovietica, ma diventerebbe l’ennesimo Paese vassallo degli Stati Uniti, votato al neoliberismo più sfrenato, situato nel cuore dell’Asia proprio tra Russia e Cina, i due nemici principali di Washington, che non a caso hanno espresso la propria preoccupazione per la situazione kazakha. Questo significherebbe anche la distruzione di quegli ultimi barlumi di stato sociale sopravvissuti alla fine dell’URSS, con la diseguaglianza che schizzerebbe davvero alle stelle, e la svendita del Paese alle multinazionali straniere che verrebbe del tutto completata.
Da temere c’è anche il possibile emergere di gruppi estremisti islamici, forse sostenuti dalla Turchia, che potrebbero rappresentare un ulteriore fattore di destabilizzazione in un Paese dove il 72% della popolazione afferma di praticare questa fede. Il coinvolgimento di Ankara sarebbe confermato dall’arresto di Arman Džumageldiev, criminale noto con il nome di “Wild Arman”, recentemente tornato in patria dalla Turchia. Il Kazakhstan, non va dimenticato, confina con la regione cinese dello Xinjiang, dove il governo di Pechino ha dovuto lavorare non poco per tenere a bada i gruppi islamisti, sforzi che potrebbero essere vanificati dalla destabilizzazione del Kazakhstan, oltre che da quella già in atto dell’Afghanistan.
Venerdì, il presidente Xi Jinping ha tenuto una conversazione telefonica con il suo omologo Qasym-Jomart Toqaev, sottolineando che “la Cina si oppone fermamente a qualsiasi forza che distrugga la stabilità e la sicurezza del Kazakhstan, si oppone a forze esterne che incitano disordini o rivoluzioni colorate o cercano di distruggere l’amicizia e la cooperazione tra Cina e Kazakhistan”.
Nel frattempo, lo stesso Tokaiev ha affermato che l’ordine costituzionale è stato “per lo più ripristinato” in tutte le regioni del Paese e che le autorità locali hanno il controllo della situazione attuale, come si legge nella nota dell’ufficio stampa presidenziale. Nel suo discorso alla nazione, il presidente ha esplicitamente puntato il dito contro le ingerenze straniere: “Questi cosiddetti media liberi e figure straniere, che sono lontane dagli interessi fondamentali del nostro popolo multinazionale, stanno giocando un ruolo di aiuto e favoreggiamento nelle violazioni della legge e dell’ordine. Si può affermare senza esagerazione che tutti questi demagoghi irresponsabili sono diventati complici nello scatenare la tragedia in Kazakhstan”.
Da quanto abbiamo esposto, emerge in modo evidente come quella in atto in Kazakhstan non sia affatto una rivoluzione socialista, bensì un tentativo di rivoluzione colorata con caratteristiche molto simili e sostenuta dalle stesse forze che hanno provocato la devastazione dell’Ucraina e che hanno tentato di fare lo stesso, ma senza successo, in Bielorussia.
(Giulio Chinappi, l’Antidiplomatico, 8 gennaio 2022)

LO SPETTRO DELLA RIVOLUZIONE COLORATA SUL KAZAKHSTAN
Il Kazakhstan, stato-chiave dell’Asia centrale e colonna portante dei progetti egemonici continentali di Russia e Cina, è in stato d’emergenza dal 5 gennaio ed è in stato di sedizione dalle giornate del 2 e del 3. Casus belli della crisi è stato il raddoppio brusco e fulmineo del prezzo del gpl, il carburante preferito degli automobilisti kazakhi, che le frange più violente dei contestatori hanno utilizzato come pretesto per dare luogo ad un’insurrezione su larga scala, armata e velatamente golpistica.
Rivelatosi vano ogni tentativo di compromesso coi dimostranti – dal ripristino del prezzo di gpl precedente al repulisti nelle stanze dei bottoni –, ed emersi degli indizi a supporto della tesi di un’operazione di destabilizzazione diretta dall’esterno, la presidenza Tokayev, nella giornata del 5, ha richiesto ed ottenuto l’intervento dell’Organizzazione del Trattato di Sicurezza Collettiva (OTSC, conosciuta anche nella sua forma anglofona come CSTO). Da quel giorno, complice anche l’inaugurazione di una linea basata sulla tolleranza zero nei confronti dei più facinorosi, la crisi è andata lentamente rientrando. Tra Mosca, Nur-sultan e Pechino, però, sarà parasonnia per (molto) tempo.

Gli ultimi sviluppi
Il 7 gennaio, sullo sfondo dell’arrivo in terra kazakha delle forze di mantenimento della pace dell’Organizzazione del Trattato di Sicurezza Collettiva, il presidente Kassym-Jomart Tokayev ha parlato dello stato dell’insurrezione ai membri del governo e ai colleghi del Consiglio di Sicurezza, di cui ha assunto la guida due giorni prima.
Secondo quanto affermato da Tokayev, in quello è stato un vero e proprio punto della situazione, lo stato della crisi, al 7 gennaio, sarebbe il seguente:
– L’operazione di soppressione dei moti ha assunto i connotati di un’operazione antiterroristica, estesa all’intero territorio nazionale, e vede il coinvolgimento di forze dell’ordine, guardia nazionale ed esercito.
– Negli epicentri della sedizione, cioè Aktobe e Almaty, la situazione è stata stabilizzata.
– Ad Almaty, dove si è concentrato il grosso delle violenze, il graduale ripristino dell’ordine ha permesso di fare una prima valutazione dei danni: diversi edifici amministrativi vandalizzati, proprietà private assaltate.
– Ad ogni modo, continuano scontri a macchia d’olio tra i tutori della sicurezza e bande armate di riottosi.
– La presidenza è convinta che le rivolte siano state e siano infiltrate da combattenti addestratisi all’estero, inclusi “specialisti formati al sabotaggio ideologico, che utilizzavano abilmente la disinformazione o il falso e che sono capaci di manipolare gli stati d’animo delle persone”.
– Consiglio di Sicurezza e Procura Generale hanno avviato un’indagine nei confronti del presunto “posto di comando coinvolto nella formazione” degli aspiranti golpisti.

Una regia esterna?
Nello stesso comunicato viene spiegato, inoltre, che “un ruolo coadiuvante e, di fatto, istigatore […] è [stato] svolto dai cosiddetti media liberi e figure straniere”. Entità e personaggi di cui il presidente in carica non ha fornito i dettagli, ma di cui non è difficile risalire all’identità. Anche perché, eloquentemente, non si sono nascosti.
L’ex banchiere e fuggitivo Mukhtar Ablyazov, ad esempio, parlando da Parigi, si è autoproclamato capo delle proteste, ha dichiarato di coordinarsi coi riottosi quotidianamente e ha invitato l’Occidente ad intervenire allo scopo di impedire che la crisi avvicini ulteriormente Kazakhstan e Russia. Ad arricchire il quadro dipinto dalla presa di responsabilità di Ablyazov, che sfata ogni dubbio circa il coinvolgimento di attori esterni nelle agitazioni, si aggiungono le dichiarazioni di Konstantin Kosachev, presidente della commissione Esteri del Consiglio federale della Federazione russa, secondo il quale per le strade kazakhe combatterebbero “miliziani di gruppi armati” provenienti dal Vicino e Medio Oriente e Afghanistan.
L’esistenza e l’evidenza di una regia esterna, più che altro alla luce delle affermazioni di Ablyazov, sembrano irrefutabili. E la velocità con cui le agitazioni si sono estese dalle periferie al centro, senza menzionarne la qualità organizzativa e l’armamentario, costituisce un altro indizio a favore della pista straniera. Ciò non toglie, comunque, che una società coesa, sviluppata ed equa è una società ignifuga, cioè a prova di rivoluzione colorata et similia. E quello che è accaduto in questi giorni ha mostrato alla presidenza Tokayev che il Kazakhstan, nonostante gli indici di benessere più elevati dell’Asia centrale, non ha ancora raggiunto la maturità, tantomeno l’unità e la prosperità necessarie a rendere il sistema impermeabile alle velleità intrusive e alle operazioni di disturbo altrui.
Oggi è Nur-Sultan a esplodere per il carovita, ma ieri fu Santiago del Cile, e domani potrebbero essere Mosca e Pechino. Perciò gli eventi di questo mese, è più che certo, verranno analizzati attentamente dai due custodi dell’Asia centrale, che nei modelli dell’autocrazia illuminata e della dittatura benevola hanno trovato un’alternativa alla liberal-democrazia occidentale e che oggi, però, si trovano obbligati a riconoscerne i limiti.
(Pietro Emanueli, InsideOver, 8 gennaio 2022)