Domenica 30 gennaio 2022
Quarta Domenica del Tempo Ordinario, Santa Martina
LA SETTIMANA DELLA SHOAH. FERRARA SUPERSTAR
FRANCO CARDINI
UNA SETTIMANA DI RIFLESSIONI E DI SPETTACOLI
Dici Resistenza, dici Shoah: e come fai a non pensare subito a Ferrara? La città dell’efferato eccidio del novembre 1943, la città del Giardino dei Finzi Contini e delle Storie ferraresi di Giorgio Bassani, con la sua gloriosa sinagoga e il suo celebre Museo Ebraico. Pochi scenari sono più adatti di questo per rievocare quella storia terribile: la lista degli ebrei ferraresi partiti per i Lager e non più tornati, incisa sul marmo della facciata della sinagoga, mette i brividi.
Ma quest’anno Ferrara ha dato davvero il massimo: e per una serie di circostanze, anzi se vogliamo di coincidenze. Ma cominciamo dal principio. La città ha il suo sindaco, il suo assessore alla cultura, ma anche un simpatico, intelligente, onnipresente ed (ebbene, sì: diciamolo pure) invadente consigliere culturale, Vittorio Sgarbi. Ma, aggiungiamo, chapeau: è stato proprio Sgarbi, liberale e da sempre vicino a Berlusconi, a suggerire all’amministrazione ferrarese di mettere i destini del prestigioso, bellissimo Teatro Comunale (un gioiello, proprio di fronte alla muraglia orientale del Palazzo Estense col suo fossato pieno d’acqua profonda) nelle mani di Moni Ovadia, affidandogliene la direzione. Sì, proprio a lui: showman e musicista, scrittore e compositore, ebreo bulgaro naturalizzato milanese, intellettuale raffinatissimo, etnomusicologo provvisto di tre lauree universitarie honoris causa che però si onora di presentarsi come un guitto, un musicante di strada, un giostraio semizingaro. Scorrete un po’ di blogs di destra: vedrete che c’è chi lo definisce “giudeo e comunista”. E lui se ne vanta. Ma nelle comunità ebraiche d’Italia, la ferrarese inclusa, non manca chi lo guarda con sospetto se non con riprovazione per il suo comportamento troppo “libero”, per il suo feeling con gruppi e con persone non sempre politically correct. Insomma, ha nemici da tutte le parti. Ma è anche pieno di ammiratori, di followers, di gente che stravede per lui.
Il Teatro Comunale di Ferrara, intitolato oggi a Claudio Abbado, ha sempre vantato una tradizione illustre. Ma il cartellone di quest’anno è un sogno, un miracolo: dalla prosa al balletto, dalla lirica al folk passando per il “classico” più venerabile e il postmoderno più spregiudicato. Chi oserà, per dirne una, perdersi il Don Giovanni di Mozart, a fine giugno prossimo, con la regia appunto del Guitto Giudeo e Comunista?
Non certo io: monoteista mozartiano e moniovadista della prima ora: o quanto meno da quando ci siamo conosciuti per caso, un po’ di anni fa – chi ci ha presentati non aveva mancato, prima, di mettere in guardia l’uno nei confronti dell’altro: cane-e-gatto, diavolo-e-acquasanta. Ci siamo sentiti a telefono, ci siamo incontrati, abbiamo considerato le nostre rispettive barbe, le nostre rispettive stazze e – diciamolo pure – la nostra rispettiva allegra strafottenza. Abbiamo deciso che ci piacevamo e che in qualche modo bisognava – come si diceva nel teatro d’una volta – alla prima occasione “far compagnia”.
E l’occasione è arrivata. Moni Ovadia ha concepito per il “suo” teatro comunale una Settimana delle Memorie dal 25 al 30 gennaio quanto mai densa di eventi. Sei giorni mozzafiato, con alcuni eventi pubblici al mattino, sei massicci pomeriggi di conferenze e tavole rotonde al pomeriggio, sei dopocena di concerti e spettacoli teatrali: dalle performances dell’armeno Gevorgh Dabaghatryan alla cantante curda Aynur Dogan, alla serata “senza confini” ebreo-zingaresca con Moni Ovadia stesso e la Stage Orchestra, alla proiezione del film Accadde in aprile ispirato al libro La morte non mi ha voluta della rwandese Yolande Mukagasana alla riduzione teatrale di Se questo è un uomo di Primo Levi presentata da Valter Malosti fino alle ineffabili esibizioni dello Jazz Studio Dance e dell’Accademia Corale Vittore Veneziani.
Ovadia ha impareggiabilmente e instancabilmente diretto l’intero programma. Però, sentendo il bisogno di mettersi accanto una specie di “consigliere scientifico-culturale”, ha pensato a Franco Cardini. “Una strana coppia”, hanno commentato in molti: e vi risparmio quelle che eufemisticamente potrei definire “le voci più critiche”. Ma noi, in pieno accordo, siamo andati avanti per la nostra strada?
Quale? Quella d’ignorare allegramente le polemiche basate sul pregiudizio, i divieti fondati sul politically correct, i malumori di revisionisti e di negazionisti, le sterili polemiche se la Shoah debba essere considerata un evento “unico nella storia” oppure un “fatto paradigmatico”.
Sta di fatto – e su ciò abbiamo insistito – che la Shoah ha costituito un autentico “giro di boa” epocale, che ci ha strappato la benda dagli occhi e ci ha posto d’un colpo dinanzi alle nostre responsabilità. Alle nostre responsabilità di uomini di tutto il mondo, di ogni epoca e di qualunque contrada. Quei particolari massacri, quelle orrende carneficine che hanno meritato il tristo nome di “genocidi” (e il punto non è certo lo stabilire il gotha di quale sia stato fra essi il più sanguinoso) sono probabilmente esistiti “da sempre”. Il punto è che “da sempre” sono stati anche accettati come un evento quasi “naturale”, alla stregua di un terremoto o di un’eruzione vulcanica.
Non era, non è mai stato, non è così. La Shoah ne ha costituito la tragica cartina di tornasole. Perché si è compiuta nel cuore della colta e civile Europa e del popolo europeo forse appunto più colto e più civile di tutti; perché è stata un’immensa macchina razionale e tecnicamente quasi perfetta, un miracolo di tecnica organizzativa, posta razionalmente al servizio della follìa: e in ciò ha svelato la sua atroce modernità. Dopo la Shoah non posiamo più dire che i genocidi sono terribili sì ma ineluttabili: diventa un imperativo categorico l’impedire che si verifichino di nuovo, e la storia degli ultimi tre quarti di secolo ci avverte che siamo ancora tragicamente lontani, irrimediabilmente inadeguati dall’impedire che qualcosa del genere si ripresenti di nuovo. Il ventre che ha prodotto questi mostri è ancora fecondo.
Come “direttore scientifico”, debbo dire che l’équipe di Ovadia ha reso il mio cammino una passeggiata sul velluto. Senza che io glielo chiedessi, senza che gliene mostrassi l’elenco, egli ha convocato alcuni fra i miei migliori e più cari amici affidando a ciascuno di loro un tema, una serata, un popolo di vittime da ricordare, da onorare e da riscattare. Aldo Ferrari ha presentato la tragedia degli armeni; l’instancabile sindaco di Berceto, Luigi Lucchi, ha affiancato Yilmaz Orkan nel parlarci di quei curdi un’associazione die quali egli sopita nel suo comune della montagna parmense; Marina Montesano ha trattato il mondo dei sindi/rom (gli “zingari”) insieme con l’attrice rom serba Dijana Pavlović; Patrizia Paoletti Tangheroni (la consorte del nostro indimenticabile, grande Marco Tangheroni) ha trattato del genocidio del popolo africano dei tutsi, perpetrato nel 1994, dal quale miracolosamente scamparono le tre splendide ragazze che sono oggi sue figlie adottive. Una storia meravigliosa di sofferenza e d’amore. A conclusione e a sigillo d’onore dell’evento abbiamo assistito a un’illuminante conferenza di Stefano Levi della Torre a un’approfondita presentazione, da parte del biblista ed ebraista Piero Stefani, del suo libro Se questo è un uomo.
Ora gli equivoci sono spazzati via e i tabù fallaci sono volati in frantumi. Già nel numero 6 dell’anno 2005 della prestigiosa rivista “Vita e Pensiero”, alle pp. 120-124, la storica ebrea ed ebraista Anna Foa liberava il campo delle problematiche intellettuali da ogni possibile malinteso con un breve intenso saggio, Genocidi del Novecento: il confronto ora è possibile, ribadendo che difendere il carattere unico della Shoah non significa affatto sminuire ali altri stermini e sottolineando come già da allora gli stessi storici israeliani discutessero e comparassero le grandi tragedie del secolo scorso, da quella armena a quella bosniaca a quella rwandese: e la grande enciclopedia sui genocidi nel mondo edita in inglese e in francese a cura ello stesso presidente dello Yad Vashem, Israel Charny, ne è la prova.
Ma le rumorose polemiche di un sottosuolo semintellettuale e semicolto, sovente in malafede, per superate che siano dalla ricerca scientifica seria, hanno continuato a rumoreggiare in modo fastidioso. Qualcuno di questi spregevoli sussurri, qualcuna di queste sguaiate grida, sono arrivate fin quasi ai cancelli del Teatro Comunale di Ferrara. Moni Ovadia, gli altri amici ed io siamo dell’avviso di esser validamente riusciti a rintuzzarle: e siamo fermamente decisi a tornare se Dio vorrà, negli anni prossimi, su questo tema. Perché moltissimo c’è ancora da dire sulla Shoah, e molto anche sui genocidi dimenticati del passato recente e meno recente. Senza odio, senza faziosità, senza fare sconti a nessuno. Dal momento che sia Moni Ovadia sia io stesso siamo dei vecchi sessantottini, possiamo ben dirlo con il motto delle giornate del joli mai: “Ça n’était qu’un début – continuons le combat”.