Minima Cardiniana 364/3

Domenica 6 febbraio 2022
San Tito, V Domenica dopo l’Epifania

E INTANTO, IN AFRICA…
MARINA MONTESANO
DAL FRONTE UCRAINO A QUELLO SUB-SAHARIANO È UN PASSO…
L’agitazione sul fronte ucraino ne nasconde un’altra che non dovremmo considerare meno grave e che ha, almeno in parte, gli stessi protagonisti. È tuttavia meno visibile e infatti i giornali non ne hanno parlato poi molto, o almeno non con analisi approfondite, seppur con eccezioni importanti, come l’articolo apparso sul “Manifesto” a fine agosto (Jihad e mal di Francia sul fronte del Sahel) o quello di domenica 6 febbraio su “Il Sole – 24 Ore” (Macron in difficoltà sogna un New Deal per stabilizzare l’Africa). I protagonisti in questione sono la Russia e la Francia, in lontananza la Cina e gli Stati Uniti, volendo anche l’Unione Europea, che tuttavia appare sempre più defilata e incerta. Abbiamo visto che, al suo interno, Macron sembra il presidente più coinvolto nella diplomazia e nelle trattative con Putin per l’impasse sul fronte ucraino. Certo, Macron ha le elezioni che lo minacciano, e la politica estera è certamente l’ambito nel quale può portare a casa un risultato inarrivabile – per ovvie questioni di ruolo – per i suoi rivali interni. Allo stesso tempo, mentre si espone per la via diplomatica sul fronte euro-orientale, Macron ha in sospeso con la Russia un fronte per lui più importante, ossia quello del Sahel, dove la presenza dei militari francesi è vista con sempre maggiore insofferenza, e pian piano la Russia con le milizie paramilitari Wagner, e la Cina con l’addestramento degli eserciti e l’aiuto economico, guadagnano sempre più terreno, mentre neppure la Turchia sembra intenzionata a restare a guardare, visti i suoi forti interessi nella vicina Libia e in tutto il mondo dell’Africa mediterraneo.
Cosa succede nel Sahel e perché dovrebbe interessarci di più? Intanto, perché è una regione non così lontana da noi. Del Sahel centro-occidentale fanno parte il Burkina Faso, la Mauritania, il Mali, il Niger, il Ciad. Si tratta di aree che hanno una storia antichissima, ma che come stati-nazione sono usciti dalla colonizzazione francese a partire dagli anni ’50 del Novecento. Questo vuol dire che i confini sono spesso stati tracciati a tavolino, includendo all’interno gruppi linguisticamente, etnicamente e culturalmente diversi fra loro; con la conseguenza che al suo interno ci sono minoranze, spesso oppresse, che rivendicano i propri diritti o magari vorrebbero la formazione di nuove nazionalità, un po’ come reclamato dai curdi nel Vicino Oriente, pure disseminati fra vari stati. È il caso dei Peul e dei Tamasheq (quelli che conosciamo come Tuareg: ma non è il nome che si assegnano), che abitano le aree desertiche del Sahel, quelle più a confine con il Sahara. Sono gruppi minacciati dal peggioramento delle condizioni climatiche e, con l’accrescersi delle temperature, dalla totale desertificazione, con un ovvio degradarsi delle condizioni di vita, già prima non facili. Negli ultimi vent’anni, dopo l’annullamento delle elezioni vinte dai salafiti in Algeria e la guerra civile tra 1991 e 2002, i movimenti jihadisti si sono diffusi (tra le altre direzioni) verso sud, prendendo piede nell’Africa centrale; nel Sahel si sono spesso confusi con le rivendicazioni delle minoranze, ma questo non significa che tutti i Peul e i Tamasheq, ad esempio, abbiano aderito a questa interpretazione dell’Islam, anzi pochi in realtà l’hanno fatto, ma ai governi spesso questo è servito per reprimerli maggiormente.
In epoca post-coloniale, la Francia ha continuato a esercitare pesantemente il suo controllo in quest’area povera ma ricca di risorse, e negli anni la persistenza delle truppe francesi e dell’ingerenza di Parigi hanno diffuso un profondo sentimento di odio antifrancese in tutta l’area. Nel Burkina Faso, ma anche nel resto dell’Africa francofona, nel 1987 i francesi, con la complicità di inglesi e statunitensi, organizzarono il colpo di Stato contro Thomas Sankara, ucciso dal suo vice Blaise Compaoré; Sankara, che promuoveva riforme sociali per arginare la povertà nel suo paese, per incoraggiare i diritti delle donne (attraverso la proibizione dell’infibulazione e l’accesso all’istruzione, e di conseguenza al lavoro), era stato il primo politico africano a denunciare la piaga dell’AIDS, senza stigmatizzare i malati, e poco prima del golpe aveva pronunciato un discorso all’Organizzazione dell’Unità Africana nel quale ufficializzava la richiesta di cancellazione del debito pubblico dei paesi africani verso i paesi ricchi, sostenendo che le origini dei debiti risiedono nell’epoca coloniale e nelle tecniche di finanziamento illecite imposte dall’Occidente all’Africa. Compaoré, sostenuto dai francesi, in particolare da Mitterand, mise fine alle riforme di Sankara e restò al potere fino al 2014, quando un colpo di Stato l’ha cacciato. Si sono allora succeduti diversi governi, che hanno anche riaperto l’inchiesta frettolosamente chiusa sulla morte di Sankara, ma la guerriglia jihadista nel frattempo è avanzata compiendo numerosi attentati contro civili e soldati, fino a quando, pochi giorni fa, una giunta militare non ha preso il potere, a quanto pare con l’aiuto russo. Nel paese la presenza francese è a questo punto assai fragile, tanto che Macron ha offerto di riaprire il dossier Sankara. Too little too late, come si suol dire al di là della Manica, e la Francia perde un tassello importante nell’area.
Come se non bastasse, ne perde un altro, strategicamente più rilevante, nel Mali. Qui i francesi hanno avviato nel 2013 un’operazione chiamata prima Serval, poi Berkhane. Cos’era successo? Un movimento tamasheq aveva preso il controllo dell’area; come sempre si parla di infiltrazioni jihadiste, certamente esistenti ma della cui consistenza non è dato sapere molto, ma certamente l’Unione degli Stati africani si è opposta all’unanimità all’autodichiarazione di indipendenza dei Tamasheq, temendo le tante situazioni simili pronte ad esplodere sul continente. I francesi, tuttavia, dietro alla motivazione di intervenire per riportare unità e libertà, avevano interesse a salvaguardare le miniere di uranio che si trovano oltre il settentrionale del Mali, in Niger, e forniscono il 30% della materia che serve alla politica nucleare della Francia. I Tamasheq sono stati rapidamente quanto superficialmente sbaragliati, perché da allora la guerriglia è continuata. I francesi si sono serviti, pur fornendo ovviamente il grosso delle truppe, del contributo aereo degli inglesi, di una cinquantina di estoni, e per un annetto anche di un contingente svedese; è il sistema divenuto da tempo il modo comune per rendere “internazionale” una missione evidentemente unilaterale. Oltre agli europei, ci sono gli stati africani del Sahel, detti G5, ossia Burkina Faso, Mauritania, Mali, Niger, Ciad; però il loro appoggio è sempre meno sicuro, vista l’evoluzione politica in atto; soprattutto, si denuncia il fatto che tutte le riunioni del G5 si svolgono a Parigi, dove evidentemente le decisioni vengono prese, alla faccia del post-colonialismo.
Adesso, però, il pilastro di tutta l’operazione è crollato. Un colpo di Stato ha rovesciato il governo in Mali e la giunta militare al potere ha cacciato l’ambasciatore francese, dopo che il capo della diplomazia francese, Jean-Yves Le Drian, ha tacciato le nuove autorità di “illegittimità”; intanto, come detto, anche qui si segnalano presenze paramilitari russe, e i cinesi si occupano dell’addestramento delle truppe: il tutto con i militari francesi ancora sul campo. La popolazione del Mali si schiera con la giunta, stanca dei troppi massacri e del fatto che l’operazione francese non ha inciso per nulla in positivo sul benessere del paese, che si ritrova povero più di prima e dilaniato dalla guerra civile. Macron annuncia la cessazione di Berkhane, ma non un totale smantellamento, altrimenti, si può immaginare, all’uranio chi ci pensa? E in Francia i candidati della destra si affannano a ricordare i morti francesi per un paese che li umilia: l’uranio, naturalmente, non lo ricorda mai nessuno.