Domenica 13 febbraio 2013, Santa Fosca
UN’INTERVISTA A FRANCO CARDINI
L’autocitazione è molto spesso qualcosa di grottesco e al limite di odioso. Però talora è tollerabile, anzi forse necessario. Ciò vale per questa mia intervista al quotidiano “La Stampa”, che ha sostanzialmente riferito bene le mie parole e il mio pensiero, ma che – come solitamente accade – ha scatenato una ridda di malintesi. Precisiamo. Intanto, ecco il testo.
“IL GESTO DI RATZINGER È DEGNO DI AMMIRAZIONE, MA PERICOLOSO PER LA CHIESA”
Lo storico: “Qualcuno potrebbe pensare che voglia togliersi un peso dalla coscienza”
“Ammiro la sua umiltà e il suo coraggio, ma non credo che Ratzinger abbia fatto bene, a lui e alla Chiesa, a esprimere questo tentativo di pulizia radicale della propria coscienza. Da uomo che è stato papa non avrebbe dovuto spingersi così in là nel manifestare il suo intimo e personale senso di colpa: rischia di restare un gesto effimero”. In ogni caso, ora resta da capire “se nella Chiesa tutto resterà come prima per quanto riguarda la piaga della pedofilia, o si saprà cogliere la svolta che può imprimere questa richiesta di perdono”. È la riflessione di Franco Cardini, storico e saggista specializzato in Medioevo e in Cristianesimo, sul mea culpa di Benedetto XVI per gli abusi sessuali nelle Sacre Stanze.
Professore, perché è così duro con il pontefice emerito?
Sono dell’avviso che certi problemi personali molto pesanti si dovrebbero risolvere nell’ambito di se stessi, nella confessione per un credente. E questo vale anche per il Santo Padre.
Perché?
Non ho dubbi sulla buona fede di Ratzinger, ma sono convinto che questo continuo riversare sull’opinione pubblica anche i contenuti delle cose intime, più delicate, si traduca poi in una sensazione di sentimenti e parole dovuti. Anche un pontefice può incorrere in una eccessivamente rigorosa introspezione. Ci sarà chi penserà che Benedetto “giochi” con la richiesta di perdono per togliersi un peso dalla coscienza. E basta.
Quindi secondo lei avrebbe fatto meglio a tacere?
Al di là dell’ammirevole sforzo di evidenziare i propri errori anche gravi, penso che si dovrebbe essere più cauti anche nei confronti di se stessi. Questo è un tempo che induce un po’ troppo alla facile pubblicizzazione del privato e non so quanto questo sia positivo, anche nella Chiesa. Ratzinger sa bene che il report di Monaco ha lasciato un’ombra, e non so fino a che punto la sua esternazione riuscirà a cancellare queste oscurità. Ma capisco che col passare degli anni il peso delle colpe passate possa pesare. E può pesare la pressione mediatica esplosa dopo il dossier di Monaco.
Non crede che, avendo ricoperto ruoli di responsabilità fino a salire sul Soglio di Pietro, sia stato doveroso domandare scusa?
È difficile rispondere con un netto sì o con un netto no. Siamo tutti d’accordo che la pedofilia è una grossa piaga della nostra società e della Chiesa, e che da troppo tempo nei Sacri Palazzi pochi prelati possono dirsi del tutto innocenti: connivenze, indifferente, insabbiamenti, coperture. D’altra parte sono dubbioso sull’utilità di certe forme di tentativo di pulizia radicale della propria coscienza. Non vorrei che si incorresse in un’esagerazione per placare l’enfasi mediatica.
Ma non salva nulla della lettera di Ratzinger?
Certo. La franchezza, la sincerità, il pentimento non solo per ciò che è stato compiuto, ma pure per ciò che non si è fatto. Anche perché spesso il peccato di omissione viene sottovalutato. E qui Ratzinger ha dato una straordinaria lezione di umanità e umiltà. E ammiro la sua buona volontà di dare il buon esempio. Però resto dell’idea che il suo mea culpa abbia un peso specifico diverso da quelli del suo predecessore.
Che cosa intende?
Fu San Giovanni Paolo II, che non può essere accusato di debolezze anche a livello caratteriale e personale, a dare il via alla pulizia della memoria, chiedendo scusa a nome della Chiesa per le malefatte che membri della stessa Chiesa cattolica hanno commesso nei secoli precedenti contro il genere umano, contro il diritto naturale, contro la convivenza umana. Qualcuno approvò queste scuse, altri lo accusarono di non essere stato abbastanza preciso, c’era chi sosteneva che avrebbe dovuto insistere di più sulla Shoah, sulle crociate, sui delitti della Santa Inquisizione. Ma quel Pontefice era tutt’altro che ingenuo.
Che cosa intende?
Lui sapeva bene che lanciare l’iniziativa della pulizia della memoria e della richiesta del perdono era un’arma a doppio taglio: da un lato rappresentava la massima apertura, la massima lealtà; dall’altra, poteva sembrare solo uno stratagemma per chiudere col passato scomodo. Invece per Wojtyla doveva lasciare intendere che non bastava, che ci doveva essere un seguito positivo. Che si fa adesso? Mi seguite? O tutto resta come prima? Pochi nelle gerarchie, di fronte al carisma di Papa Wojtyla, osarono non impegnarsi per cambiare le cose in meglio in quegli ambiti.
(Intervista di Domenico Agasso, La Stampa, 9 febbraio 2022)
Come quasi sempre accade nelle interviste telefoniche, anche se e quando – come in questo caso è accaduto – il testo viene rivisto e concordato, restano sempre zone d’ombra e d’opacità. E me ne sono reso conto dai messaggi che mi sono pervenuti: dalla lode sperticata all’insulto e alla minaccia, su varie decine di essi non ce n’è uno che abbia dimostrato di aver colto il senso delle mie parole.
Può essere stata anche colpa mia. Allora mi sono spiegato più chiaramente conversando oggi a RAI 3 con padre Enzo Fortunato. Mi sono sforzato di essere chiaro, anzi esplicito, fino quasi alla brutalità. I messaggi hanno dimostrato che le mie parole erano state equivocate ancora di più.
Cerco di rincarare la dose, sperando di venir finalmente compreso:
1. La definizione canonica di santità è “esercizio eroico delle virtù cristiane”.
2. Stando a tale definizione, la pubblica confessione di Benedetto XVI è un atto di santità.
3. Esso è stato palesemente frainteso in tutti i modi possibili: fra l’altro, lo si è accusato di reticenza e d’ipocrisia; si è detto che assumersi tanto gravi responsabilità è un “atto ipocrita” (sic) e che avrebbe viceversa dovuto chiarire pubblicamente fatti concreti, facendo nomi e descrivendo circostanze.
4. È fin troppo facile obiettare che con Dio papa Benedetto, in confessione, ha presumibilmente fatto i conti da tempo; gli resta l’illusione di poterli umilmente e sinceramente fare anche con gli esseri umani, e in ciò i casi sono due: o dimostra di non conoscerli affatto, nonostante la sua età avanzata e la sua ampia esperienza; o al contrario li conosce fin troppo e per questo si limita a ribadire la sua responsabilità e il suo pentimento; della prima è giudice la magistratura della BD, essendo i fatti accaduti a Monaco di Baviera, e papa Benedetto non è comunque soggetto alla sua giurisdizione sia per limiti d’età, sia perché è cittadino dello Stato Città del Vaticano e non della BD; della seconda è giudice Dio, e papa Benedetto non ha né il dovere né il diritto di render conto dei suoi atti, delle sue parole, dei suoi pensieri e delle sue omissioni se non a lui.
5. Appellarsi comunque all’opinione pubblica chiedendo perdono è inutile: si pensi a Giovanni Paolo II che chiese perdono a nome della Chiesa, con ciò implicitamente invitando anche altri (a cominciare dai vertici delle altre Chiese cristiane) a fare altrettanto. Fu criticato in ogni modo, ma nessuno ebbe il coraggio né l’onestà di raccogliere la sua sfida.
6. Infine, un accorato appello: bisognerebbe farla finita con l’inaudita (nel senso tecnico del termine) espressione “papa emerito”, che è tanto stupida quanto sviante. Le funzioni speciali del sommo pontefice sono collegate all’esercizio dei suoi poteri, che gli vengono conferiti dal collegio cardinalizio. Ma “papa” è una parola tradizionalmente usata per indicare il vescovo di Roma, al quale – in modo definitivo e ordinato a partire dalla riforma dell’XI secolo – tale collegio, allora formalizzato, ha appunto delegati tali poteri. Di per sé, il papa è il capo dell’arcidiocesi patriarcale di Roma, illustre ed estesa quanto si voglia ma diocesi come le altre. I vescovi sono preti ai quali il clero e il popolo di ciascuna diocesi delegano a loro volta alcuni poteri. La Chiesa, cioè la comunità dei credenti, è distinta in clero (gli “addetti al servizio dell’altare”) e popolo di Dio. Il clero è distinto in ordini canonici, ai quali si accede con speciali riti iniziatici. Gli ordini canonici sono scanditi, in ordine ascendente, in quattro ordini minori (ostiario, lettore, esorcista, accolito) e tre ordini maggiori (suddiacono, diacono, sacerdote – cioè “presbitero”, “prete”). Si accede al sacerdozio attraverso una cerimonia sacramentale che conferisce un carattere indelebile (Tu es sacerdos in aeterno). L’ordinazione vescovile non conferisce alcun carattere indelebile supplementare. Un vescovo può rinunziare al suo incarico e recedere dalle sue funzioni. Nel febbraio del 2013 Benedetto XVI, vescovo di Roma, ha rinunziato al suo incarico: è quindi, semplicemente, “vescovo emerito”. Che gli sia stato eccezionalmente concesso il permesso di mantenere alcune delle insegne caratteristiche dei vescovi di Roma – l’abito talare bianco – non cambia le cose. Dal momento che le funzioni specifiche del sommo pontefice sono connesse alla titolarità episcopale romana, l’espressione “papa emerito” non significa nulla e parlare di “due papi” è tanto ridicolo quanto sviante.