Minima Cardiniana 365/5

Domenica 13 febbraio 2013, Santa Fosca

GOLDING VERSUS ORWELL
DAVID NIERI
IL GRANDE FRATELLO? NO, È IL SIGNORE DELLE MOSCHE IL TIRANNO DELLA MODERNITÀ
La scorsa settimana, l’articolo di Andrea Fassò (Minima Cardiniana 364/4 | Amicizie e discussioni ai tempi del Covid (francocardini.it)) sollevava, tra le altre cose, alcuni interrogativi riguardanti la distopia orwelliana che, a detta dell’autore (soprattutto in riferimento al romanzo distopico per eccellenza, ovvero Nineteen Eighty-Four [1984]), aveva ben preconizzato il futuro del “libero e capitalistico Occidente” e non quello dell’Unione Sovietica, come da tutti (o quasi) immaginato e riconosciuto. L’opinione di Andrea Fassò è condivisibile in linea generale ma non per quanto riguarda le precise intenzioni di George Orwell, che nei due capolavori dell’immediato dopoguerra poneva sotto la sua penna obiettivi ben definiti.
Se, infatti, Animal Farm [La fattoria degli animali], pubblicato nel 1945 sotto le mentite spoglie di una favola per bambini, rappresentava un’evidente parodia del comunismo di stampo sovietico, il profilo allegorico di Nineteen Eighty-Four [1984], che uscì tre anni dopo, nel 1948, ha connotazioni meno evidenti ma unite dal medesimo comun denominatore, ovvero i totalitarismi (tutti) di stampo novecentesco. Totalitarismi che però non prevedevano – né potevano farlo, all’epoca – quello che avrebbe portato alle estreme conseguenze l’egemonia tirannica del Grande Fratello. Diciamocelo: 1984 è uno dei romanzi più citati e in proporzione meno letti della letteratura di ogni tempo. Perché la fine della storia, tanto per citare Fukuyama, non si è profilata cinque anni dopo il 1984, con la caduta dell’ultimo “regime” rimasto insieme al Muro di Berlino. La storia non è finita perché Orwell, all’epoca, non poteva immaginare che dalle rovine della seconda guerra mondiale un’altra e ben più subdola “ideologia” – quella che si traveste con i costumi di scena della “libertà” – ci avrebbe condotti alle estreme conseguenze dell’incubo da lui prospettato. No, Orwell aveva in mente il comunismo, il nazismo, il fascismo nel tratteggiare la società del futuro: non certo il totalitarismo liberale.
La “neolingua” da lui abilmente delineata – ovvero quella che oggi annebbia la cultura, inibisce la satira, ottunde le coscienze – è declinata secondo i canoni e i dettami dell’ideologia woke, della cancel culture, del pensiero unico politicamente “ipercorretto” (in linguistica, la tendenza a correggere forme o pronunce in realtà giuste, soprattutto nelle forme dialettali); la stessa che “reclama” il neutro con l’utilizzo della “schwa” (pure questo, in linguistica, un errore, perché un simbolo fonetico che indica la vocale atona non accentata) ed esige il pane quotidiano in forma di diritto individuale, non certamente “sociale” o “civile”. La “neolingua” non è eredità di un sistema “illiberale”, di una dittatura, di una soppressione della libertà, bensì, per paradosso, di un’amplificazione della libertà stessa.
È un altro il romanzo che prevede e anticipa, in tutta la sua straordinaria potenza simbolica, la modernità come oggi la intendiamo e la sperimentiamo. Non è opera di George Orwell, bensì di un “collega” inglese, William Golding, premio Nobel per la Letteratura nel 1983. Lord of the Flies [Il signore delle mosche], che esce nel 1954, non è “accreditato” ufficialmente tra i romanzi distopici. E, se non fosse stato per l’intuizione di T.S. Eliot, all’epoca direttore della Faber & Faber, forse non avremmo mai letto uno dei più grandi capolavori del Novecento. Perché il manoscritto di Golding, che in origine aveva un titolo diverso, Strangers from Within, subì diversi rifiuti prima di capitare tra le mani del grande poeta americano naturalizzato inglese; e anche tra i redattori della Faber & Faber il romanzo piaceva poco, tanto che un’esperta “lettrice” lo giudicò “privo di significato”. Fu Eliot stesso a suggerire di modificare il titolo rovistando nella simbologia biblica: il Signore delle Mosche è Belzebù, citato nel Secondo Libro dei Re (I,2) e nel Vangelo Secondo Matteo (XII,24) come principe dei demoni.
Per quanto riguarda le fonti di ispirazione del romanzo, l’autore attinse alle proprie esperienze di insegnante in una scuola elementare londinese: Golding, che soleva dividere gli alunni in due gruppi per discutere la “questione del giorno”, si rese conto che, in assenza di un moderatore, spesso la discussione degenerava in rissa. L’altra fonte fu un romanzo per ragazzi pubblicato circa un secolo prima, The Coral Island [L’isola di corallo] di R.M. Ballantyne, del quale Golding rovescia completamente la finalità utopica in chiave “realista”.
Limitandoci al titolo, sarebbe estremamente riduttivo fornire un’esegesi di Lord of the Flies in chiave strettamente religiosa. È, d’altra parte – quella religiosa –, la prospettiva dominante: ma per dipanare la matassa metaforica del romanzo sarebbe necessario uno spazio ben più ampio di un semplice articolo.
In un tempo imprecisato – anche se ben identificabile – un gruppo di ragazzi sopravvive a un disastro aereo mentre è in corso un conflitto nucleare (il riferimento alla guerra fredda è evidente). Approdano su un’isola deserta e qui, senza l’influenza degli adulti e con abbondanza di risorse naturali a disposizione, hanno la possibilità di (ri)creare una società perfetta in una sorta di paradiso idilliaco. Tutto ciò, ovviamente, non accadrà: progressivamente, il seme del male che si annida nella natura umana avrà la meglio generando caos, violenza e distruzione.
La visione di Golding non lascia adito ad alcun dubbio: “L’uomo produce il male come le api producono il miele”. Il particolare periodo storico, all’indomani della seconda guerra mondiale, intride di pessimismo qualsiasi prospettiva di salvezza, anche se uno spiraglio esiste, come vedremo alla fine. L’autore sembra addirittura negare e irridere l’innocenza e i valori positivi che dovrebbero contraddistinguere l’infanzia: in una dimensione manichea, l’essere umano votato al male e dotato di libero arbitrio, sceglie di adorare il signore delle mosche, ovvero la “Bestia”, la cui presenza aleggia oscuramente sull’isola, senza che mai nessuno riesca a vederla. Il totem che i ragazzi costruiscono per venerarla consiste semplicemente in una testa di maiale conficcata su un palo, la guida suprema della distruzione. Due saranno le vittime della guerra tra “bande”, i gruppi – ognuno con un proprio leader – che si combattono per conquistare il “potere”.
Basterebbero queste poche righe per collocare Lord of the Flies tra le allegorie più riuscite in assoluto nella storia della letteratura. Ma sono moltissimi i temi sfiorati. Prima di tutto, in una prospettiva biblica, la sete di potere e l’istintiva violenza che si annidano nell’infanzia rappresentano un evidente richiamo al peccato originale; e la “scelta” del male (il signore delle mosche) rispetto al bene (una società perfetta) richiama ovviamente la metafora del “paradiso perduto” (l’isola, un eden naturale ricco di risorse).
D’altra parte, in chiave universale il capolavoro di Golding ci regala una perfetta rappresentazione della modernità: l’essere umano non è in grado di autodeterminarsi e degrada fino ad autodistruggersi in assenza di una guida, spirituale o morale che sia. La testa di maiale sostituisce e accantona Dio per contaminarsi con il progresso, inteso come rimozione del sacro, del sacrificio, del rispetto e della solidarietà. La testa di maiale diventa l’idolo da adorare, la star mediatica, il calciatore famoso, l’influencer, il tutto e subito e, soprattutto, il denaro e il potere da raggiungere a qualsiasi costo, all’insegna della sopraffazione e non della competizione, del conflitto e non del confronto. Infine, la testa di maiale raffigura il totalitarismo libertario e liberticida che sposta all’infinito l’asticella di ogni limite, spacciando per libertà la legge della giungla che premia il più forte.
L’ufficiale militare che sbarca sull’isola – quando ci avviamo alla conclusione del romanzo – per “salvare” i naufraghi, si trova di fronte lo spettacolo raccapricciante di un gruppo di ragazzi degradati allo stato selvaggio. Non crede ai suoi occhi, ma alla fine capisce e si impietosisce di fronte al pianto disperato (di pentimento?) dei sopravvissuti. Il militare rappresenta la salvezza declinata dapprima in consapevolezza, poi nell’auspicabile ritorno a un ordine in grado di porre fine al caos: in poche parole, l’autorità. Di nuovo, il ruolo fondamentale dell’educazione, degli “adulti”, della “cultura” e della comunità. L’unica luce nell’immenso cuore di tenebra che ci attanaglia.