Domenica 6 marzo 2022, Prima Domenica di Quaresima
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IL RITORNO DI UN GRANDE CLASSICO DELLA MEDIEVISTICA
Il tempo guarisce sempre ogni cosa. Eppure, alla mancanza di Raoul Manselli i medievisti italiani (ed europei) non si sono ancora abituati. Il grande storico napoletano (1917-1984), allievo di Raffello Morghen, decisamente ci manca. È stata una grande – e purtroppo anche precoce – perdita la sua. Ci manca anzitutto la sua “napoletanità”, il tratto cordiale, affettuoso ma anche finemente critico, a tratti anche generosamente polemico; ci manca la qualità della sua scrittura, ora che troppi storici, anche valorosi, sembrano dimenticare che le idee camminano sulle parole e che uno stile efficace e piacevole può convincere il lettore più di uno ostico e pedante; ci manca la sua fede cristiana profonde eppure mai intollerante, mai prevaricatrice, rispettosa sempre delle idee altrui.
Fu medievista e storico sia della Chiesa, sia del cristianesimo e – soprattutto – della società cristiana. Ereditò il magistero di Raffaello Morghen, senza però raccoglierne pienamente le tesi storico-religiose talvolta un po’ rigide. Manselli amava infinitamente le sfumature e le articolazioni.
Nel clima del secondo dopoguerra, dominato da istanze hegeliane di segno ora marxista ora crociano, Manselli dovette battersi – e lo fece con convinzione – contro le tendenze che nelle istanze religiose vedevano soprattutto la sovrastrutture di valori e di impulsi sociali. Per lui, il cristianesimo si era modificato nel tempo per l’incontro di forze profonde, tra le quali anche le antiche dimenticate ma non abbandonate componenti religiose pagane: e tra XI e XIII secolo questo mutamento aveva assunto l’aspetto da una parte d’una rivoluzione nata all’interno del clero – la “riforma dell’XI secolo” e il rinnovamento del papato -, dall’altra anche di energie nate dal basso e dal profondo che avevano imposto una rivoluzionaria visione dello stesso rapporto fra Dio e i fedeli attraverso la scoperta d’un nuovo senso da dare al Vangelo. Qui, nel Cristo non più soltanto “re” ma anche fratello e sofferente, si era sviluppato l’autentico miracolo cristiano che aveva modificato anche la visione della natura. E cioè Francesco d’Assisi al centro di tutto ciò.
Dir queste cose significa immediatamente pensare a quel capolavoro poetico ch’è il Cantico di Frate Sole. Ma proprio questo è il punto. Quei versi vengono scritti fra 1224 e 1226, mentre l’Europa è sconvolta da una strana “eresia” proveniente dai Balcani e forse da più lontano, addirittura dalla Persia e dall’India. Il catarismo, una dottrina a carattere dualistico, un “biteismo” che concepisce l’universo come coinvolto in un’eterna lotta fra Luce e Tenebre, fra Bene e Male.
Era una risorgenza d’una dottrina che già secoli prima aveva affascinato il giovane Aurelio Agostino, il manicheismo? Ma esso a sua volta era il risultato d’una complessa elaborazione di tesi derivati in parte dal neoplatonismo, in parte dal mazdeismo, la religione predicata nel VI secolo a.C. dal persiano Zarathustra che aveva addirittura contatti con il mondo buddhista.
Questo groviglio di miti, di leggende e di oscure tesi filosofiche, attraverso la penisola balcanica, era arrivato a diffondersi durante il secolo XI-XII in Europa, dove si era presentato nelle vesti di un’eresia cristiana, il “catarismo”. Alla base di esso c’era una dottrina iniziatica sostenuta da una specie di gerarchia parasacerdotale, una “Chiesa” che si fondava su una lettura e una predicazione del vangelo diversa da quella della chiesa ufficiale e si presentava come un cristianesimo “povero” ed autentico, opposto alla Chiesa ufficiale opulenta e corrotta. Oggi noi conosciamo le fonti catare, che sono state pubblicate anche in versione italiana dall’editore Adelphi grazie all’attenta cura di un grande filologo, Francesco Zambon.
Manselli non conosceva in tutto le dottrine catare. Comprese però che quell’eresia, poi differenziatasi in infinite varianti e che per un momento, fra XII e XII secolo, aveva quasi conquistato l’intero popolo cristiano in aree come la Provanza e la Linguadoca – ci sarebbe voluta una vera e propria crociata, tra 1208 e 1244, per sradicarlo al prezzo di un vero e proprio sterminio – e aveva modificato in profondo il modo di sentirsi e di dirsi cristiani. Egli la studiò e la espose in un’opera destinata a proporsi come pietra miliare della medievistica italiana: L’eresia del male, edita nel 1963 e ora ripubblicata dall’editrice Fuorilinea di Monterotondo (pp. XXX-432, euri 22) arricchita da tre prestigiose Introduzioni rispettivamente di Paolo Vian, di Alfonso Marini e di Felice Accrocca.
L’architettura del libro è imponente. In undici densi capitoli si esamina “l’eresia del male”, cioè il dualismo biteista ch’è una “religione mazdea riformata” dal “profeta” Mani, un persiano del III secolo d.C., il magistero del quale si sarebbe poi incontrato con lo gnosticismo di ambiente giudeocristiano. Ne nacquero varie forme ereticali del cristianesimo (priscillianismo, paulicianesimo, bogomilismo) fino a pervenire, nell’Europa occidentale del secolo XI, al vero e proprio catarismo: una dottrina distinta in vari filoni e dotata di una sua liturgia e di una sua gerarchia sapienziale più che propriamente sacerdotale.
Dopo aver studiato i modi di radicamento del catarismo nella società medievale, Manselli passa ad esaminare le risposte della chiesa cattolica che, dopo un periodo d’incertezza tra XII e inizio del XIII secolo, si radicarono in due forme peraltro complementari: da una parte l’esempio della possibilità di una vita evangelica anche nel mondo fedele alla Chiesa (gli Ordini mendicanti) e impegnato nella predicazione; dall’altro l’organizzazione repressiva dell’inquisizione.
Il paradosso del catarismo, d’altronde, stava tutto in una grande contraddizione: i suoi fedeli più puri e coerenti, i “perfetti”, vivevano in una pura povertà evangelica e in un regime alimentare assolutamente vegetariano che apparivano esemplari agli occhi del popolo cristiano. Essi erano convinti dalla radicale malvagità della materia, plasmata da uno spirito malvagio – il “Demiurgo” – per imprigionare lo spirito. Per l’essere umano, l’unico modo per liberare lo spirito dalla prigione della materia carnale era la morte per fame.
Il catarismo è una grande, ascetica, tragica religio mortis. Per questo il Cantico di Frate Sole di Francesco, il cui stile di vita può ricordare quello dei “perfetti” catari (ma non era vegetariano…) è un grande manifesto anticataro.
Eppure, alcuni brandelli del catarismo resisterono sia alla predicazione dei frati mendicanti, sia alla persecuzione inquisitoriale. Il catarismo contribuì, sotto molti punti di vista, a modificare il cristianesimo dal basso e dal di dentro. Fu d’altronde solo dopo l’impatto con il catarismo che gli inquisitori divennero ipersensibili nei confronti di qualunque espressione di religiosità “subalterna”: e da questa ipersensibilità sarebbe nata un’iperattenzione nei confronti delle espressioni cristiane “marginali” che avrebbe dato luogo alla nascita della “caccia alle streghe”. Anche lo studio della genesi di questa nuova componente del mondo cristiano subalterno sarebbe nato dall’attenzione prestata nei confronti del catarismo da parte di molti studiosi europei della seconda metà del XX secolo avviati su questa strada dal magistero di Raoul Manselli. Il suo esempio ha portato lontano. Oggi, il giovane che si avvicinerà a questo grande libro di sessant’anni fa si sorprenderà a domandarsi se per caso il medievista napoletano che lo ha redatto non si sia imbattuto nelle radici profonde da cui sono sorti movimenti come quelli del new age…E, se magari procederà con pazienza e con rigore nell’analisi di questa sua “strampalata” (!?) intuizione, scoprirà di non essere andato troppo lontano dal vero.
MANFREDI DI SVEVIA. NUOVO RITRATTO DI UN SOVRANO CONTROVERSO
“…biondo era e bello e di gentile aspetto…”.
La maggior parte dei non troppissimi tra noi che ormai, in questi tempi di “Striscia la notizia” e di “Soliti ignoti”, ha ancora qualche reminiscenza non diciamo “classica”, ma quanto meno romantica, ricorda questo verso appartenente al III canto del Purgatorio dantesco, e magari rammenta perfino che quell’immagine si riferisce a Manfredi di Svevia, figlio di Federico II e suo successore sul trono regio di Sicilia, in pieno XIII secolo. Se non sono pochi a ricordare almeno questo, andiamo ancora benino. È lontano il tempo nel quale – una sessantina di anni fa – in prima serata il Quartetto Cetra faceva ridere fino alle lacrime un pubblico di casalinghe di Voghera e magari di manovali di Abbiategrasso con le sue parodie dei capolavori letterari. Era la Biblioteca di Studio Uno: e le vicende di D’Artagnan, di Ulisse, della Monaca di Monza erano tanto familiari a quel pubblico di milioni di persone tra le quali pochi erano laureati e non troppi gli almeno diplomati da farlo divertire sul serio, segno di una conoscenza intima e quotidiana. Immaginiamoci qualcosa di analogo oggi, in un mondo zeppo di quarantenni che pur hanno fatto magari l’Erasmus e di sedicenni che non hanno mai aperto un’Enciclopedia e sbrigano i compiti a casa via smart-phone.
Ma Paolo Grillo va sul sicuro, col suo Manfredi di Svevia. Erede dell’imperatore, nemico del papa, prigioniero del suo mito (Roma, Salerno Editore, 2021, pp. 290, euri 22). Un tema dantesco, ancora uno per un libro uscito proprio sul limitare dell’Anno al Sommo Poeta dedicato: e senza dubbio scritto anche per quel motivo. Tuttavia, per nulla un lavoro messo insieme per un’occasione celebrativa. Al contrario, un’opera dal taglio accuratamente meditato e dall’impianto tutt’altro che banale. Quel che insomma ci si aspetta da Grillo, medievista ordinario della Statale di Milano e, pur essendo studioso dai più che ampi orizzonti – leggetevi il suo Le porte del mondo. L’Europa e la globalizzazione medievale (Mondadori 2019) –, specialista soprattutto dell’“età comunale” dei secoli XII-XIII, è un lavoro di alto profilo, in grado di rinnovare anche un tema in apparenza fin troppo studiato come la biografia di un sovrano di casa sveva.
Difatti, pur uscendo nella bella collana “Profili”, questa non è propriamente una biografia. E peraltro va detto che appunto i “profili” in essa ospitati non sono mai propriamente quello: di solito, della personalità biografata si mira a cogliere il nucleo, il senso storico: E la dinamica del suo mutare: perché la storia si muove; e, anche se i fatti in essa narrata sono comunque più o meno sempre quelli (eppure anche in ciò le novità non mancano mai), ne muta l’interpretazione.
Ed ecco il fascino di questo libro: alius et idem, avrebbe detto Orazio. Chi era Manfredi? Per rispondere, Grillo resta senza dubbio medievista: ma proprio per questo ci ricorda al tempo stesso di essere uno studioso sia del medioevo quale esso a nostro attuale avviso fu e quale fu ricostruito, immaginato, magari anche frainteso e falsato attraverso i secoli. Insomma, studioso altresì del medievalismo. In quattordici dei sedici densi capitoli che compongono l’opera, ecco dinanzi a noi svolgersi il “romanzo vero” di un giovane bastardo figlio di un imperatore e di una pur nobile dama, legittimato da nozze in extremis poco prima che la madre rendesse a Dio quell’anima per la sorte della quale aveva ragione di temere.
Manfredi, appena diciottenne quando nel 1556 suo padre Federico II giunse a sua volta alla morte, si trovò a dover governare il regno di Sicilia in attesa dell’arrivo dalla Germania dell’erede al trono, Corrado IV che di Manfredi era fratellastro. Ma una serie (“fortunata”, si direbbe) d’impreviste vicende fece sì che in breve volger di tempo egli si trovasse in effetti re di Sicilia mentre l’impero e i regni di Germania e d’Italia, ad esso associati fino da tre secoli prima, cadevano in un lungo interregno.
Grillo ci guida con mano sicura nel vortice di aventi che caratterizzarono gli anni fra sesto e settimo decennio del Duecento, gli stessi immediatamente precedenti la nascita di Dante: Manfredi re in Sicilia (cioè nell’Italia meridionale) ma anche de facto sovrano del regnum Italiae – il centronord della penisola – ostile al papato ma anche a una parte del mondo “ghibellino” che guarda invece come a suo leader al potente padrone del nordest, Ezzelino III da Romano; il capogiro del farsi e del disfarsi delle alleanze (si fa presto a dir “guelfo”, a dir “ghibellino”), il triangolo della potenti città marinare – Genova, Venezia, Pisa – che sono al momento padrone del Mediterraneo e che dominano l’economia dello stesso regno siculo; infine la ben altrimenti che “resistibile” ascesa del fratello di Luigi IX di Francia, il cinico e ambizioso Carlo d’Angiò, e il fatale scontro di Benevento nel quale, il 26 febbraio del 1266, re Manfredi trova la morte. Dopo essere stato scomunicato e deposto dal regno, il sire eminente del quale è il papa stesso. Paradosso nel paradosso: il figlio dell’imperatore muore come “fellone”, ribelle al suo signore.
Tiriamo il fiato? Nemmeno per sogno. Ecco il coup de théatre nel quale – bisogna dirlo – Paolo Grillo dà il meglio di sé. Muore il sovrano sconfitto: nasce subito il suo mito. Si stenta a crederlo morto: come per il padre e per il grande avo, c’è chi lo aspetta, chi è sicuro che tornerà. Quindi, il mito del tradimento: gli eroi non cadono mai perché sconfitti, c’è sempre un giuda che li pugnala alle spalle; infine l’eroe del nostro Risorgimento che arriva quasi – tra Repubblica romana del 1849 e Italia fascista – a diventar eroe nazionale. Infine un nuovo oblio, dal quale tuttavia gli storici più recenti – e Grillo fra, con loro – lo stanno traendo per restituirlo serenamente, pacatamente ma non freddamente alla storia.
Ed ecco d’epilogo, il capitolo XVI. Il Manfredi di paolo Grillo, che ne ripropone la storia dagli stessi “autoritratti” documentari alle testimonianze coeve alle ricostruzioni che, accanto al quadro politico e diplomatico, approfondiscono i temi della cultura, del pensiero, della vita di corte. Non è un Manfredi weberianamente “disincantato”: anzi – lo dico, intendiamoci, con simpatia e consenso – è in parte “reincantato”, spogliato di una grandezza ormai stereotipa ma restituito alle concrete proporzioni e alla seria importanza nel e per il suo tempo. Un ritratto senza sconti e senza anacronistici moralismi; ma non senza il sottile filo d’oro della pietas.
I SETTE PILASTRI DELL’ORDINE UNIVERSALE
Imperdonabile, nefasta leggerezza è l’immergersi in libri per comprendere i quali si dovrebbe disporre di un’attrezzatura intellettuale e scientifica ben superiore per altezza e profondità alla propria.
Un “talismano” è un carattere, una figura, una formula ritenute in grado di proteggere contro i malvagi spiriti e i cattivi influssi; per estensione, è anche l’oggetto sul quale tali caratteri sono scritti, dipinti o incisi. Se ci capitasse fra le mani un imponente volume che trattasse di talismani imperiali, redatto per giunta da un autore che sembra celarsi dietro il solenne pseudonimo ermetico di Mino Gabriele, tutti noi ne rifuggiremmo o nella migliore delle ipotesi lo riporremmo con devoto rispetto là dove la abbiamo trovato. a volta poi appurato che quello in questione è l’impero romano, torneremmo forse con circospetta curiosità a quelle pagine: e scopriremmo con stupore che I sette talismani dell’impero (Milano, Adelphi, 2021, pp. 483, euri 44) sono firmati da Mino Gabriele, pseudonimo evidente di un dotto ermetista, e pubblicati dall’arciermetica editrice Adelphi nella straermetica collezione Imago. Un libro da non avvicinare: non prima, quanto meno, di aver riletto tutto il Trattato di storia delle religioni di Mircea Eliade, lo studio di Jean.Loïc Le Quellec, Jung et les archétipes (Éditions Sciences Humaines, 2013) e quindi, visto che di storia romana antica si deve evidentemente trattare, l’inevitabile La religione romana arcaica di Georges Dumézil.
Ma attenzione a non finire fuoristrada. Mino Gabriele non è affatto uno pseudonimo esoterico: si chiama proprio così, anche se il fatto che sia professore di Iconografia e Iconologia nonché di Scienza e Filologia delle Immagini nell’Università di Udine qualche residua perplessità potrebbe sollevarla. Si tratta comunque di uno dei massimi studiosi di simbologia del mondo occidentale, autore di studi fondamentali sul linguaggio alchemico e su quel basilare e inquietante testo ellenistico-umanistico ch’è la Hypnerotomachia Poliphili.
In realtà, siamo dinanzi a un rigorosissimo trattato di simbologia del potere, ma di un potere speciale: anzi, del Potere: così com’esso, secondo molti (potremmo dire tutti) sistemi miticoreligiosi, è custodito e trasmesso attraverso quelli che nel mondo romano tradizionale erano detti pignora, veri e propri “pegni” garanti di potenza (con la cristianizzazione, il termine pignora passò alle reliquie. Ma in realtà, già sin dai tempi di Servio Tullio quel termine significava “reliquia” nel senso di “garanzia” d’una realtà arcaica ma radicata nella verità di fatti attestati in tempi diversi.
Si trattava di talismani: una parola che in arabo si potrebbe tradurre con Arkhan, “Pilastri”, “Fondamenti”. I cinque Arkhan al-Islam, sono difatti i piloni che sostengono la religione musulmana: la Professione di Fede, le cinque preghiere quotidiane, il pellegrinaggio alla Mecca, il digiuno del mese di Ramadan e la Zaqat, cioè l’elemosina legale a sostegno dei poveri.
Nell’antica Roma, si riteneva invece che la Salus Romani populi fosse affidata all’intangibilità di sette sacri oggetti: i sette Pignora imperii custoditi in alcuni templi dell’Urbe e dotati appunto di arcano potere (la semiomofonia del latino Arcana e dell’arabo Arkhan è una pura coincidenza?). Sette: come i sette massimi dèi del Pantheon ellenico-romano, i sette astri governanti il cosmo, i sette giorni a ciascuno di essi dedicato, le sette muse che presiedevano alle arti garantendone il sacro fondamento, i sette colori dell’Iride; e, last but not least, le Sette Meraviglie del mondo. L’ago della Madre degli dèi, la quadriga d’argilla dei veienti, le ceneri di Oreste, lo scettro di Priamo, il velo di Iliona, il Palladio, gli scudi sacri detti Ancilia. Tali oggetti, e i termini che li qualificavano, rinviavano tutti a un Nomen segreto, impronunziabile al pari dello Shem, il Nome Segreto di Dio secondo la Bibbia. Se un nemico si fosse impadronito di quel Sacro Nome, egli avrebbe ridotto l’impero alla sua mercè. A questo punto qualcuno osserverà ironicamente: e i sette re di Roma? E i sette colli? Per aggiunger magari: “… e i sette nani”? Aspettate a ridere. Aspettate l’ultimo capitolo.
Attraverso l’analisi dei pignora, dei luoghi che li custodivano, dei miti che li riguardavano, nelle cerimonie mediante le quali essi erano adorati e protetti, degli antichi autori che ne trattano, Gabriele ritesse l’intera stoffa della religiosità romana e ne traccia i rapporti con le altre – molte? tutte? – alla ricerca di una sintassi primordiale perduta, o dimenticata, o nascosta. Gli stessi autori cristiani, pur talora demonizzando i singoli simboli e i singoli miti, danno l’impressione di aver colto il linguaggio universale insito in quei simboli, la tipologia sacra alla quale la loro fenomenologia sembra rifarsi: la religio perennis che talvolta lampeggia nell’oscuro pozzo senza fondo della sapienza esoterica. Le molteplici leggende narrate nei Mirabilia Urbis Romae hanno l’aria di riferirsi a quel patrimonio per molti versi e in molti sensi sepolto. L’ultimo capitolo, Il simbolismo del numero 7, è una chiave preziosa. Qui vale la legge delle spy stories: Guardatevi dall’anticipare la lettura dell’ultimo capitolo, guai a varcare la soglia. Il successivo Excursus (pp. 219-268) invece, paradossalmente, se vi sentite degli “iniziati” potete leggerlo anche subito, all’inizio di tutto. Ma a vostro rischio e pericolo. Quel che invece non dovete trascurare sono le note, che da sole fanno la metà del libro. Un libro dalla lettura del quale uscirete cambiati.