Domenica 13 marzo 2022, Seconda Domenica di Quaresima
LUIGI G. DE ANNA
A PROPOSITO DI ARMI BIOLOGICHE
Sto ascoltando (venerdì sera 11 marzo) il dibattito al Consiglio di sicurezza dell’ONU sul tema della presenza di armi biologiche, sollevato dalla Russia. Gli interventi, essenzialmente il fronte transatlantico vs. la Russia, seguono il medesimo trend dei dibattiti che qui dalla Finlandia seguo sulla TV italiana.
Da una parte obiezioni esposte su elementi concreti, date, accordi, indagini sul campo (ad esempio si vedano gli interventi di Franco Cardini); dall’altro la passionalità, l’irrazionalità eccitata da una accurata costruzione iconografica e mediatica (ad esempio il giornalista Maistrouk).
Il dibattito all’ONU era sinceramente deprimente, tanto che anche il giornalista di al Jazeera (seguivo la diretta tramite l’emittente del Qatar, sempre ben informata, ma comunque in questa guerra decisamente dalla parte ucraina) sembrava alquanto imbarazzato nel tirare le somme. Da una parte il dettagliato esame fatto dal delegato russo; cifre, circostanze, dati. Dall’altra la contestazione, iniziata dal delegato albanese (di nome Hoxha, ah, come cambiano le cose nei Paesi ex comunisti… fedelissimo servo di Biden) e continuata principalmente dalla delegata statunitense e da quella britannica, non dei fatti esposti dal delegato russo, ma basata su una sequela di già note accuse su chi aveva la responsabilità della guerra, dei presunti crimini compiuti, con una incattivita insistenza, con un linguaggio preso a prestito dai verbali dell’ONU degli anni Sessanta (dossier Unione Sovietica però… veramente ironico) che dipingeva le falsità da sempre raccontate da Putin e Lavrov.
Insomma, i due piani di una narrativa che non si incontrano. L’indignazione come un riflesso di Pavlov e dall’altra parte il quasi patetico tentativo di restare sui fatti. Proprio come nei dibattiti TV italiani, con gli interventi moderati e aperti alla documentazione di Cardini, Tarchi, Orsini, Bertolini ed altri. Ci si può chiedere a che cosa servano questi dibattiti, dove spesso il discorso del critico viene interrotto dall’implacabile, e censorio, “devo andare in pubblicità”.
Nel mio piccolo: faccio parte, come past president di Paneuropa/Finlandia, della mailing list di questa organizzazione, fondata da Coudenhove-Kalergi e presieduta per molti anni da Otto d’Asburgo. A un commento dell’attuale presidente Terrenoire ho (osato) esporre la mia opinione: in sintesi: Zelensky si è prestato alla manovra statunitense di aggressione alla Russia, che va eliminata economicamente (ma non militarmente per non pregiudicare la sopravvivenza stessa degli USA) per poterla escludere dalla scena come superpotenza. Il prossimo passo, aggiungevo, sarà la Cina.
Apriti internet: sono stato sommerso di insulti da quelli che, teoricamente, sarebbero i miei sodali, spesso con la semplice parola f..k you (ma scritta per esteso). Particolarmente attivo il rappresentante ucraino. Ho però avuto la solidarietà del rappresentante ungherese, che mi ha ricordato come, nel corso degli anni, gli ucraini hanno trattato, socialmente e linguisticamente le minoranze del Paese.
Seguo le narrative mediatiche. Queste si basano su corrispondenti (che amano esibirsi sullo sfondo di macerie con elmetto e giubbotto antiproiettile, notoriamente molto efficaci contro i missili che i russi sparano implacabilmente sulle città ucraine) che stanno appunto in Ucraina, o paesi limitrofi. Raramente ne compare uno da Mosca, praticamente nessuno dal Donbass russo.
E poi la narrativa iconografica. La guerra moderna ha da sempre utilizzato la fotografia come strumento integrativo di quello letale. Le foto non raccontano mai la verità (colgono solo un attimo fuggente nella vita di un individuo, ad esempio una foto scattata accanto a un personaggio compromettente incontrato per caso in un qualche evento sociale), sono uno specchio deformante di essa. L’immagine si allarga o si restringe a seconda di come ci posizioniamo (in questo caso ideologicamente). Un solo esempio: guardavo una foto di un gruppo di rifugiandi ucraini, sullo sfondo un ponte distrutto. Peccato che lo abbiano distrutto i medesimi ucraini per impedire il passaggio dei convogli russi. I temi ricorrenti sono fissi: li conosciamo da tempo, si ripetono di guerra in guerra: i vecchi che si trascinano tra le macerie, i bambini in braccio a mamme impaurite, virili partigiani che imbracciano le armi (e magari, come in certe foto della Liberazione, accanto a loro il fotografo ha colto pure un capannello di amici che chiacchierano tranquillamente).
La ripetitività ossessionante del messaggio iconico crea la realtà. Ma dobbiamo considerare anche la “quantità” dell’impatto su chi vede queste immagini. La psiche umana reagisce in modo differente da individuo a individuo, influenzata da fattori esterni, ad esempio la memoria storica. Che può essere molto “lunga” (le immagini dei lager tedeschi) o molto “breve” (l’obliterazione dal nostro subconscio delle immagini dei bambini sepolti vivi sotto le macerie delle case distrutte dagli israeliani). Reagiamo con orrore alla vista delle foto delle macerie di Kiev e sfogliamo tranquillamente i libri sulla seconda guerra mondiale con quelle di Dresda e di Hiroshima.
Esiste poi la narrativa prosastica. Si inizia già con i primi testi scritti, che trattano dei cattivi Hyksos, o dei persiani che minacciano la civiltà greca, o dei Barbari di Ammiano Marcellino, per risalire lungo i rami delle crociate, sia baltiche, sia medio-orientali, sia anti-ereticali, tutti documenti che narrano gli orribili misfatti del nemico (spesso, come ho studiato riguardo alle crociate baltiche, costruite su modelli unici, nei quali bastava cambiare il nome del “cattivo” e del “buono”; il testo rimaneva identico).
Tutto questo è oggi aggravato dalla mediaticità. Mentre in passato chi poteva leggere era un numero limitato di persone, quindi l’“opinione pubblica” aveva un limitato impatto sulla decisionalità politica, oggi i media sociali permettono non solo di informarci su qualsiasi cosa proveniente da qualsiasi fonte, ma anche di scambiare le nostre opinioni. E la comunicazione di massa conduce all’effetto “Napalm”, per citare un divertente personaggio creato da Crozza. L’insulto, l’odio, l’aggressività alla portata di tutti (che Umberto Eco chiamava giustamente col loro nome di imbecilli).
Si crea così un circuito di verità, tali solo per essere asserite e diffuse. Chi è in minoranza, viene condannato, esecrato, messo nel limbo della pausa pubblicitaria televisiva.
Io ammiro Franco Cardini, che di talk show in talk show, col suo dolce idioma toscano cerca di spiegare come stanno le cose.
Purtroppo era toscano anche Farinata degli Uberti.
A lui la mia totale solidarietà