Minima Cardiniana 373/5

Domenica 10 aprile 2022
Domenica degli Ulivi (o, secondo la latitudine, delle Palme)

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Poeti della marea. Canti bardici gallesi dal VI al X secolo, con allegato CD musicale, a cura di Francesco Benozzo, Udine, Forum Editrice, 2022, pp. 228, euri 30
Esce in questi giorni un importante volume con traduzioni in italiano dei canti dei bardi celtici del Galles a cura di Francesco Benozzo. Si tratta di testi contenuti nei manoscritti del Llyfr Taliessin (Libro di Taliesin), del Llyfr Coch Hergest (Libro Rosso di Hergest) e del Llyfr Caerfyrddin (Libro Nero di Carmarthen).
Nella sua ampia introduzione, Benozzo – che ha studiato la filologia celtica in Galles, dove ha vissuto per nove anni – inquadra storicamente e linguisticamente questi canti, per poi soffermarsi in particolare sugli elementi sciamanici e di viaggi nei luoghi fisici che li caratterizzano. Forse nessun’altra tradizione poetica attestata in forma scritta ha lasciato in Occidente testi di questo spessore mantico e sapienziale.
“Mentre le culture mediterranee tradizionalmente considerate egemoni – scrive Benozzo – vivevano un periodo di decadenza e di silenzio, furono una manciata di poeti errabondi a farsi portavoce dei fondali millenari da cui tutta l’Eurasia era stata plasmata, fin dal Paleolitico. Erano i bardi della tradizione celtica, uomini del mare e delle scogliere, cantori diversi dai poetae latini e dai compositori arabi pre-islamici delle qaṣīda, più simili ai professionisti della parola dell’area finno-ugrica e circumpolare. Ce li possiamo immaginare come uomini esposti costantemente alle intemperie, con le caviglie appiccicate di alghe, in costante movimento sugli estuari dei fiumi e nei piccoli villaggi dell’entroterra. Figure di dissidenti che lottarono, attraverso la poesia, per esprimere una visione del mondo in cui ciò che contava erano le cose permanenti e fondamentali: non il lampione ma il lampo, per usare una celebre frase di Tolkien nel suo saggio sulla fiaba”.
Non è fuori luogo la considerazione del curatore che furono in definitiva questi bardi a salvare per un poco il declino dell’Occidente, proprio in quanto appartati, proprio in quanto abbarbicati alla propria terra e alla propria lingua, proprio nel loro restare sconosciuti, per i secoli successivi, alle altre civiltà dell’Europa.
In quanto etnofilologo e bardo a sua volta, Benozzo non si è limitato a tradurre questi testi e commentarli, ma li ha messi in musica e li ha registrati in un CD, allegato al libro, nel quale canta e suona le sue arpe, accompagnato da altri musicisti del panorama folk-world internazionale. In questo modo, egli invera ciò che da sempre propugna; il fatto che la filologia stessa deve trasformarsi in uno strumento per “tradizionare la tradizione”, uscendo dai rigidi confini che ha finito per crearsi nel corso della propria storia, diventando un semplice e vacuo “settore disciplinare”, come oggi si dice nel mondo universitario. Nella concezione di Benozzo, la filologia non è un semplice studio di testi antichi o moderni, ma un’occasione reale per “creare immaginario”. Un immaginario forse oggi ancora più necessario di sempre, come sottolinea la conclusione della sua premessa: “Come quindici secoli fa, può darsi che anche oggi un sentore di rinascita possa o debba passare attraverso la parola poetica e il canto. L’attualità dei bardi gallesi, in questo senso, è meno culturale che civile. Una dissidenza poetica permanente, legata ai grandi paesaggi più che ai branchi umani. Poche voci solitarie che continuano a raccontare il vento delle maree e il destino di uomini e donne non rassegnati a subire le ingiustizie del mondo”.
Il libro è impreziosito da una postfazione di Antonella Riem Natale, che inquadra il lavoro all’interno della collana che lo ospita, e di cui è direttrice.