Domenica 17 aprile 2022, Santa Pasqua di Resurrezione
EDITORIALE
SEGNI INQUIETANTI
È una settimana santa triste. La notizia (da noi riportata per ultima su questo numero) delle proteste ucraine a proposito della Via Crucis romana di venerdì 15 aprile e della copresenza di una donna russa e una ucraina come portatrice della croce è per troppi versi incredibile, intollerabile e insopportabile. È una pietra pesantissima che si aggiunge al muro della terribile edificazione della “guerra totale” preconizzata dal giacobino Saint-Just: una guerra dalla quale siano banditi l’uno dopo l’altro i segni dell’umanità e della fratellanza. Che i cattolici ucraini pensino qualcosa del genere è semplicemente orribile.
Ma questa notizia non arriva sola a turbarci. Ve n’è un’altra di diversa qualità, che non riguarda l’etica religiosa ma che si presenta semmai come una specie di profezia sinistra, un segno di sventura.
La notizia diffusa dall’ANSA, secondo la quale nella cappella di bordo dell’incrociatore russo Moskvà – affondato in seguito a un attacco ucraino – sarebbe stato custodita una preziosissima reliquia, un frammento della “Vera Croce”, può aver stupito qualcuno: sia per il fatto che una nave da guerra ospitasse una cappella, sia per quello secondo il quale sarebbero in giro autentici resti dell’oggetto ligneo che circa un paio di millenni fa servì da patibolo al Salvatore. Che cosa può esserci di vero o quanto meno di verosimile?
Nel 2020 la Chiesa ortodossa russa diramò la notizia secondo al quale un frammento della Vera Croce, acquistato da un anonimo mecenate, era stato donato alla marina militare e custodito nella cappella di bordo del Moskvà. Nulla di strano in ciò. Che le reliquie siano usate come protettrici di eserciti risponde a un uso antichissimo che ha esempi illustri. Si pensi solo al Santo Chiodo della Crocifissione, fuso nell’elmo e nel freno del cavallo di Costantino; o alla reliquia della Santa Croce custodita nella basilica della Resurrezione (il “Santo Sepolcro” di Gerusalemme) che i crociati usavano recare in battaglia come loro “Sacro Palladio” – e il paragone con la famosa leggendaria effigie di Pallade Atena è calzante – e che, catturata dai musulmani nella battaglia di Hattin in Galilea (luglio 1187) fu distrutta per ordine del Saladino in ossequio al principio musulmano secondo il quale il Profeta Gesù non è mai stato veramente crocifisso; o alle molte reliquie incastrate nell’elsa della spada di alcuni principi, come quella di cui parla la Chanson de Roland. Che la croce del Cristo fosse assimilata a un’insegna vittoriosa ce lo dice l’intera tradizione iconico-araldica cristiana, sostenuta dallo splendido inno di Venanzio Fortunato (VI sec. d.C.) Vexilla Regis.
Siamo quindi nel campo della storia delle reliquie: che è peraltro un campo minato da migliaia di falsi. Qui nasce il secondo problema. Può essere stato autentico, il frammento venerato a bordo del Moskvà?
Per rispondere a ciò in modo adeguato, bisognerebbe saper qualcosa di più sull’oggetto donato dall’anonimo mecenate. In linea di massima, la cosa non è impossibile. Basta intendersi sul concetto di autenticità.
Secondo una notizia che pare certa, la cristianissima e religiosissima sant’Elena madre dell’imperatore Costantino si recò verso il 330, ottantenne, a Gerusalemme, per rintracciare i segni autentici della fede (questo è il senso delle reliquie come pignora, “prove”). In circostante peraltro miracolose, narrate alla fine del IV secolo da sant’Ambrogio nel discorso funebre in memoria dell’imperatore Teodosio e tramandate poi fino a noi grazie all’opera tardoduecentesca Legenda Aurea di del domenicano Giacomo da Varazze vescovo di Genova, essa rinvenne in effetti la Vera Croce che ripartì in tre porzioni: la prima mantenuta a Gerusalemme dove i crociati l’avrebbero perduta nel 1187; la seconda a Costantinopoli, presso al nuova corte imperiale, che altri crociati, quelli del 2004, ridussero in piccoli frammenti per donarli o per venderli; la terza a Roma deve fu custodita nella basilica di Santa Croce in Gerusalemme, scampò miracolosamente al saccheggio del 1527 ed è tuttora adorata (a tale reliquia spetta, come a Dio, non la venerazione bensì l’adorazione).
La storia deve fermarsi qui: ed è molto ben raccontata nel libro La Vera Croce. Storia e leggenda del Golgota in Roma (Laterza) di Chiara Mercuri. Scartati il lacerto gerosolimitano distrutto per sempre e quello romano rimasto intatto, il nostro mondo conosce in realtà molte vere o presunte reliquie di quel sacro oggetto: a parte i falsi, senza dubbio numerosi, sui quali già ironizzava il signor di Voltaire, rimangono i molti esemplari “autentici” messi in giro dai crociati nel 1204 e le cui vicende ci restano in buona parte ignote. “Autentici”, intendiamoci, in quanto appartenenti all’oggetto identificato da sant’Elena. Se esso fosse o no effettivamente il legno della Vera Croce, non lo sapremo mai. D’altronde, Voltaire nel suo scritto sulle reliquie s’ispirava a Giovanni Calvino, il quale a sua volta aveva preso gran parte del suo materiale da un abate cattolicissimo a cavallo tra XI e XII secolo, Ghiberto di Nogent, con il suo De sanctis pignoribus. Reliquie false, ve ne sono sempre state. Anche quella finita in fondo al Mar Nero può esserlo stata. In un certo senso, c’è da augurarselo.