Minima Cardiniana 378/2

Domenica 15 maggio 2022, San Torquato

EDITORIALE
FRANCO CARDINI, MARINA MONTESANO
MACRON E L’AGO DELLA BILANCIA
Riconfermato presidente con un buon risultato elettorale, Emmanuel Macron combatte in realtà ancora su molti fronti. Intanto, quello interno: nonostante la vittoria, infatti, tra il 12 e il 19 giugno in Francia si terranno le elezioni legislative, che potrebbero prendere una piega diversa, e che comunque presentano scenari difficili da prevedere o da controllare. In Francia si è assistito in questi ultimi anni al disfacimento dei partiti storici, repubblicani e socialisti, per quanto concerne le elezioni presidenziali, mentre dovrebbero tenere ancora un po’ alle legislative. La sinistra di Mélenchon ha avuto un buon risultato così come la destra di Le Pen, quindi entrambi potrebbero approfittarne, avendo comunque partiti un po’ più strutturati rispetto a quello di Macron, La République En Marche, che è nato con lui ed è assai poco radicato sul territorio; difatti, se nelle elezioni europee del 2019 ha ottenuto un risultato passabile, le consultazioni municipali del 2019 e quelle dipartimentali del 2020 sono state un vero disastro. Saprà fare meglio a giugno?
Forse sì, ma certo non è il momento di compiacersi della rielezione, per cui Macron è molto presente sulla scena internazionale, quella dove può portare a casa risultati ben diversi da quelli dei suoi avversari. E infatti, lunedì 9 a Strasburgo ha tenuto un discorso da leader europeo, proponendo di indirizzare le sovvenzioni verso l’agricoltura biologica, di stabilire standard minimi comuni per l’UE dei 27 nel campo dell’assistenza sanitaria, di abbassare l’età minima alle elezioni europee portandola a 16 anni (in Francia l’elettorato giovane gli ha preferito Jean-Luc Mélenchon), di dare un diritto di iniziativa al Parlamento europeo, che attualmente non è autorizzato a proporre leggi, ma soprattutto di porre fine alla regola dell’unanimità. Un punto, quest’ultimo, che penalizza le grandi potenze dell’Unione, mettendole allo stesso livello delle piccole e, magari, ultime arrivate.
Infatti, proprio da queste è arrivato subito il fuoco di sbarramento: Bulgaria, Croazia, Repubblica Ceca, Danimarca, Estonia, Finlandia, Lettonia, Lituania, Malta, Polonia, Romania, Slovenia e Svezia hanno pubblicato un testo comune per esprimere la loro opposizione ai tentativi di revisione dei trattati. Dal loro punto di vista, l’Unione funziona bene così com’è, ha dato buone prove di sé durante pandemia e crisi in Ucraina, per cui allo stato attuale un cambiamento nei trattati è improbabile. Dall’interno, Mélenchon ha sostenuto che Emmanuel Macron avrebbe sollevato il problema soltanto per scopi di politica interna.
Ma c’è di più: Macron a Strasburgo ha ripreso l’idea di una confederazione europea, lanciata invano nel dicembre 1989 dall’ex presidente socialista François Mitterrand. L’idea è di mandare un segnale ai paesi candidati all’UE, a cominciare dall’Ucraina, poiché l’Unione europea non può essere l’unico modo di strutturare il continente europeo, dice Macron: bisogna trovare chiaramente il modo di pensare alla nostra Europa e aprire una riflessione storica sul futuro del nostro continente. Sulla scia di questa iniziativa, e certamente in accordo con il governo tedesco di Olaf Scholz, Macron ha anche detto che l’Unione Europea dovrebbe avere più a cuore la pace, e non umiliare la Russia, come richiedono a gran voce gli Stati Uniti e i vertici NATO – che poi sono sostanzialmente la stessa cosa.
Certo, nel 1989 le cose avrebbero potuto prendere una piega ben diversa per l’Europa. Mitterand aveva lanciato la sua idea poco più di un mese dopo la caduta del muro di Berlino. Nella sua mente, l’URSS moribonda, presieduta da Mikhail Gorbaciov fino al suo smantellamento nel 1991, era destinata a partecipare a questa confederazione, contro il parere degli Stati Uniti e di una buona parte degli stati dell’Europa centrale e orientale, ansiosi invece di restare alla larga da Mosca. Comprensibile, ma certo dannoso per quanto è seguito nei decenni successivi.
Infine, non va dimenticato che il Macron di questi tempi ha un’altra preoccupazione della quale si continua, almeno da noi, a parlare molto poco: il continente africano, e in particolare l’area della francophonie, delle ex colonie finora legate alla Francia. Il Sahel centro-occidentale, del quale fanno parte il Burkina Faso, la Mauritania, il Mali, il Niger, il Ciad, è in ebollizione. Si tratta di aree che hanno una storia antichissima, ma che come stati-nazione sono usciti dalla colonizzazione francese a partire dagli anni ’50 del Novecento. Questo vuol dire che i confini sono spesso stati tracciati a tavolino, includendo all’interno gruppi linguisticamente, etnicamente e culturalmente diversi fra loro; con la conseguenza che al suo interno ci sono minoranze, spesso oppresse, che rivendicano i propri diritti. È il caso dei Peul e dei Tamasheq, che abitano le aree desertiche del Sahel. Sono gruppi minacciati dal peggioramento delle condizioni climatiche e, con l’accrescersi delle temperature, dalla totale desertificazione, con un ovvio degradarsi delle condizioni di vita, già prima non facili. Negli ultimi vent’anni, dopo l’annullamento delle elezioni vinte dai salafiti in Algeria e la guerra civile tra 1991 e 2002, i movimenti jihadisti si sono diffusi (tra le altre direzioni) verso sud, prendendo piede nell’Africa centrale; nel Sahel si sono spesso confusi con le rivendicazioni delle minoranze, ed ai governi spesso questo è servito per reprimerli maggiormente. In Mali i francesi hanno condotto per anni l’operazione Berkhane, ufficialmente contro il terrorismo islamico.
Di recente, però, un colpo di Stato ha rovesciato il governo in Mali e la giunta militare al potere ha cacciato l’ambasciatore francese, dopo che il capo della diplomazia francese, Jean-Yves Le Drian, ha tacciato le nuove autorità di “illegittimità”; intanto, in tutta l’area si segnalano presenze paramilitari russe, e i cinesi si occupano dell’addestramento delle truppe. La popolazione si schiera con la giunta, stanca dei troppi massacri e del fatto che l’operazione francese non ha inciso per nulla in positivo sul benessere del paese, che si ritrova povero più di prima e dilaniato dalla guerra civile. Macron annuncia la cessazione di Berkhane, ma non un totale smantellamento perché il paese è ricco dell’uranio che ai francesi serve. L’ex potenza coloniale vive comunque in tutta l’Africa una crisi dovuta a un peggioramento della sua immagine. Al ruolo ambiguo tenuto dai francesi nel genocidio dei Tutsi in Ruanda, di recente si sono aggiunte le denunce insistenti degli stupri dei militari francesi sulle donne tutsi che avrebbero dovuto proteggere. Macron ha promesso chiarezza sul passato coloniale e post-coloniale della Francia, poiché in ballo c’è molto di più che non una riflessione storica.
Insomma, se il presidente riconfermato cerca di far tornare la Francia protagonista, proponendosi come l’ago della bilancia tanto in Africa quanto in Europa, la scommessa non è facile da portare a casa: potrebbe sì giovargli sul piano interno, ma sulla scena internazionale si scontra con vecchie e nuove crisi difficili da governare.