Minima Cardiniana 379/2

Domenica 22 maggio 2022, Santa Rita da Cascia

BENVENUTA NEL CLUB NATOMÉDITERRANÉE, O TERRA DEL KALEVALA!
LUIGI G. DE ANNA
FINLANDIA FELIX, PER IL MOMENTO
Un amico mi manda uno spezzone della seconda intervista fatta da Oliver Stone a Vladimir Putin. Un documento di estremo interesse, le risposte di Putin sono assolutamente indispensabili per capire che cosa sia successo e stia succedendo in Ucraina. Oliver Stone appartiene a quella sparuta schiera di intellettuali americani che sanno ragionare al di fuori del pensiero unico. Il suo Platoon del 1986 è stato uno dei film sulla guerra del Vietnam che più ha contribuito a delineare la drammaticità di quel conflitto e le contraddizioni degli USA, divisi tra guerra patriottica e guerra di stampo colonialista. Stone partecipò lui stesso, da volontario, alla guerra, rimanendo in Vietnam dal settembre 1967 all’aprile 1968. Fu ferito due volte in azione, venendo decorato con la Bronze Star (in pratica la nostra medaglia d’argento al valor militare).
Nella lunga intervista, Putin spiega le radici del conflitto in atto in Ucraina con una lucidità e una moderazione di espressioni che andrebbe citata come esempio ai governanti atlantici, a cominciare dal nostro Draghi, che definisce “oscena” una dichiarazione senza molta rilevanza politica come è quella sulle radici ebraiche di Zelensky fatta da Lavrov, ma non usa lo stesso aggettivo per definire l’assassinio a sangue freddo di una giornalista palestinese.
Non sarà qui necessario ricatalogare gli avvenimenti come presentati dal presidente russo; menziono questa intervista per un semplice fatto: l’intervento di Mosca in Ucraina del 24 febbraio è stata la conseguenza di una crisi iniziata molti anni prima, che ha le sue origini in fattori attinenti alla storia della Russia zarista, poi dell’Unione Sovietica, poi della Russia post caduta del comunismo. Una storia fatta di lotte politiche interne, anche sanguinose, di colpi di stato, di interventi di potenze straniere.
Bene, nulla di tutto questo è avvenuto in Finlandia. Il Paese di Suomi per 75 anni ha vissuto tranquillamente, con qualche rara tensione tra la fine degli anni Cinquanta e i primi anni Sessanta, risolta grazie al rapporto che si era stabilito tra i due presidenti, Kekkonen e Chruščëv. Rapporto a volte amichevole, a volte burrascoso: infatti si racconta che una di queste crisi venne risolta dai due statisti nella sauna dopo una abbondante libagione di vodka. Corse anche voce che fossero volati i pugni. Quando fu chiesto a Kekkonen se era vero, rispose semplicemente alzando le spalle: “Io non le ho prese”.
Ma ora queste crisi russo-finlandesi non potrebbero essere risolte nella stessa maniera. Il primo ministro finlandese è una gentile mamma trentenne, che guida un governo composto in buona parte nei dicasteri chiave da altre mamme trentenni. Naturalmente ho un grande rispetto per le mamme finlandesi, ma lo dico perché in questa complessa vicenda che porta alla richiesta finlandese di entrare a far parte della NATO, la sensibilità femminile, suscitata dalla visione di bambini uccisi e di mamme piangenti tramite una narrazione fortemente emotiva, ha rivestito una fondamentale importanza nel formare la decisone dell’opinione pubblica finlandese, che a sua volta ha determinato, a detta dei politici, quella di abbandonare la neutralità per passare allo schieramento atlantico.
Il 18 maggio infatti la Finlandia, unitamente alla Svezia, ha consegnato nelle mani del segretario generale della NATO, Jens Stoltenberg, la richiesta di adesione. Un atto clamoroso, che significa per la Svezia la fine di una neutralità e di una non bellicità durata 200 anni, mentre per i finlandesi la neutralità è stata di “soli” 75 anni.
Ma perché iniziavo citando l’intervista di Oliver Stone? Per il semplice motivo che nessuno degli elementi scatenanti nella crisi ucraina sono presenti nella storia recente dei due Paesi baltici. In altre parole: la Russia non aveva in alcun modo né provocato, né minacciato, né agito in senso aggressivo. L’intervento militare del 24 febbraio riguardava solo l’Ucraina, non aveva alcuna relazione con la situazione del quadrante settentrionale della NATO. Eppure, nonostante la Russia non avesse in alcun modo manifestato intenzioni aggressive, nonostante avesse addirittura spostato una parte delle sue truppe dai confini finlandesi in altro scenario, la Finlandia si è sentita minacciata. Il presidente Sauli Niinistö sta diventando l’eroe virale con la sua frase con cui ha giustificato il cambio di rotta della Finlandia: “Tu lo hai provocato, guardati nello specchio”.
Ma in quello specchio dovrebbe a dire il vero guardarsi Sauli Niinistö medesimo, in quanto la leadership politica, a cominciare dal partito di destra che lo ha portato alla presidenza, il Kokoomus, ha spinto la Finlandia a scegliere la strada dell’atlantismo in realtà non all’indomani del 24 febbraio 2022, ma molti anni prima. Da circa venti anni, usciti dalla scena i vecchi politici finlandesi che avevano vissuto la lunga stagione della “finlandizzazione”, la destra e il centro dello schieramento politico finlandese stavano operando per far avvicinare la Finlandia alla NATO. I vari governi che si sono succeduti avevano iniziato prima, e nel corso degli anni sviluppato poi, una serie di iniziative politiche e militari che hanno portato l’esercito finlandese a collaborare, in parte integrandosi, con la struttura operativa della NATO. Esercitazioni militari comuni, sia in terra che in mare, aerei da combattimento stazionati in Estonia, acquisizione di materiale bellico unicamente da potenze occidentali, mentre per decenni lo avevano acquistato in Unione Sovietica.
Ultimo caso: l’adozione dell’F-35 statunitense. Dal 1962 al 1982 l’aviazione finlandese, celebre non per le sue operazioni postbelliche, ma per avere conservato la svastica nel proprio simbolo (che comunque non era di origine nazionalsocialista, ma svedese) aveva adottato i Mig 15 e 21 sovietici insieme ai Draken della neutrale Svezia. Il MIG era rimasto in linea fino al 1998. Nel 1995 era stato adottato, a conferma del nuovo indirizzo in politica della difesa, l’F-18 Hornet; quattro erano i candidati alla sua successione: l’Eurofighter, il francese Rafale, lo svedese Gripen e l’F-35 americano. Nonostante quello americano fosse il più costoso e il meno adatto alle esigenze finlandesi (trattandosi di un aereo d’attacco che può trasportare armi nucleari) è stato scelto, nel dicembre del 2021, proprio l’F-35, che entrerà in servizio nel 2026. Al momento, dunque, l’aviazione finlandese non è dotata di un aereo da combattimento competitivo rispetto all’omologo russo, avendo a sua disposizione solo 64 Hornet, oramai sorpassati e invecchiati (sono entrati in servizio tra il 1995 e il 2000).
L’acquisto dei costosi F-35 (64 velivoli per una spesa di 10 miliardi di euro previsti, ma i costi, si sa, aumentano in continuazione) è stato criticato da chi avrebbe preferito il più economico Gripen svedese, spendendo una parte di quei fondi per migliorare la difesa missilistica anti-aerea, che attualmente non dispone di un sistema che possa colpire missili balistici che volano ad una altezza di 25-30 km. Attualmente si sta preparando l’acquisizione di nuovi sistemi israeliani e francesi, che però saranno operativi solo tra alcuni anni.
In altre parole, l’F-35 non serve alla difesa, ma all’attacco, e questo la dice lunga sulle reali intenzioni del governo finlandese, che ha agito in sintonia con la NATO. Nel caso di un ipotetico futuro attacco russo, che ovviamente sarebbe inizialmente diretto a raggiungere la supremazia aerea, come è stato fatto in Ucraina, una parte di questi aerei sarebbe distrutta al suolo, alcuni sarebbero come logico in riparazione, quindi il numero di caccia realmente operativi sarebbe minimo.
La flotta si trova in una fase di transizione; le 4 corvette da 3900 tonnellate ordinate nel 2019 sono in costruzione presso i cantieri di Rauma. La loro acquisizione è stata comunque criticata, in quanto navi di grosse dimensioni: sono praticamente delle fregate, sarebbero facile bersaglio per i missili anti-nave russi; secondo i critici, sarebbe stato preferibile introdurre più piccole navi lanciamissili, che potrebbero muoversi più agilmente nel labirinto di isole dell’arcipelago. La flotta attualmente dispone di cinque posamine, otto navi lanciamissili, tre spazzamine, quattro navi comando e unità minori per le truppe da sbarco e i trasporti di truppe. In sostanza una marina di modeste dimensioni adatta solo alla difesa della propria costa. Le truppe da sbarco sono considerate poco mobili. Le fortificazioni dotate di artiglierie fisse basate sulle innumerevoli isole sono oramai obsolete.
Per quanto riguarda le forze di terra, le truppe corazzate constano (dato del 2019) di 650 carri di vario tipo, compresi i trasporti truppe; 139 sono Leopard 2A4 e 100 Leopard 2A6. Considerato che il confine con la Russia è di 1300 km, e che normalmente solo una parte dei mezzi di cui dispone un esercito sono operativi, è evidente la debolezza delle forze corazzate, che devono difendere un lungo confine per di più da tempo non protetto da mine. Inoltre, il deputato Peter Östman del Partito Popolare di lingua svedese aveva a suo tempo denunciato l’insufficienza di difesa attiva dei Leopard, che sarebbero, a suo giudizio, facilmente eliminati dai sistemi controcarro russi.
Il punto di forza dell’esercito è nella dotazione di artiglierie, circa 1400 pezzi, tra obici (una parte di provenienza sovietica), lanciagranate e altri pezzi, cui si aggiungono 90-100 lanciarazzi e ca 150 semoventi.
Secondo l’autorevole rivista Tekniikan maailma (6b/2022) dalla quale sono tratti i dati qui riportati, le lacune della difesa riguardano anche altri settori, come il munizionamento “intelligente”, le armi a lunga gittata, la capacità di operare di notte e la logistica, non sufficientemente rapida ed efficiente.
La Finlandia dispone di 12.000 militari professionisti, un terzo dei quali sono civili con mansioni amministrative. In Finlandia esiste ancora la leva obbligatoria, che ogni anno chiama alle armi 22.000 reclute. La durata del servizio militare va dai 6 ai 9 mesi. La riserva attiva si basa su circa 280.000 uomini e donne, ed è rapidamente mobilitabile. L’età massima dei riservisti attivi è di 50 anni. In totale alla riserva (limite di età 60 anni) appartengono circa 800.000 finlandesi (secondo i media occidentali 900.000), una parte dei quali ovviamente avanti negli anni e poco o per nulla aggiornati all’addestramento. Si tratta quindi di una cifra puramente teorica, che però all’estero è stata presa sul serio.
È stata questa notevole quantità di riservisti a far infatti credere in Europa che l’esercito finlandese sia particolarmente forte e di conseguenza utile agli scopi difensivi/offensivi della NATO. Nella realtà l’esercito finlandese non ha questa capacità che con molto entusiasmo le viene attribuita dai filo-atlantisti. Quasi trecentomila uomini sono molti, ma andrebbero armati, oltre che riaddestrati, ma con quali armi? Quando il primo ministro ha promesso armi all’Ucraina la domanda che alcuni si sono posti è: è saggio svuotare in parte le nostre già non ricche riserve? Certo, il governo ha stanziato un forte aumento nelle spese per la difesa, che per il 2022 sale a 5,6 miliardi di dollari, l’equivalente del 1,96% del PIL, e che è già stato annunciato in aumento per il 2023, ma l’ammodernamento di un esercito non avviene nel giro di pochi mesi. E i prossimi mesi saranno quelli cruciali. In conclusione: le lodi sperticate fatte da Stoltenberg e Blinken all’efficienza militare finlandese e al suo importante contributo alla NATO vanno notevolmente ridimensionate. La Finlandia è, a causa della sua posizione geografica, un Paese altamente vulnerabile, che da solo non potrebbe reggere una offensiva russa e che quindi trascinerebbe in un conflitto l’Alleanza Atlantica, la quale dovrebbe venire necessariamente in suo aiuto. Ma lo farebbe veramente?
Arrivata a Bruxelles la domanda di adesione, si apre la finestra della “zona grigia”, quando la Finlandia non è ancora protetta dal famoso articolo 5 del Trattato NATO.
Ma come si è arrivati a questo totale cambiamento nella politica estera finlandese? Il mantra, ripetuto in maniera ossessiva senza che venga fornita alcuna documentazione, è che la Russia è diventata aggressiva nei confronti dell’Europa, quindi anche della Finlandia, la cui posizione la espone ad una offensiva militare: “La Russia è imprevedibile”, lo ha detto Niinistö, lo ha ripetuto Sanna Marin unitamente a Pekka Haavisto, il ministro degli esteri. “Imprevedibile” ci farebbe sorridere, se non si trattasse del pericolo di far scattare una gravissima crisi che potrebbe travolgere l’Europa. Infatti la NATO, con l’ingresso della Finlandia, sposterebbe la sua area di intervento a poca distanza da San Pietroburgo e da Murmansk, importantissima base navale del mare Artico, che controlla la nuova rotta che unirà l’Asia all’Europa.
Dunque la Russia è “imprevedibile”, come avrebbe dimostrato l’invasione dell’Ucraina. Il fatto che la crisi ucraina sia nata già prima del 2014, che abbia alle radici un pesante intervento straniero che ha attuato un vero e proprio colpo di stato, ha alimentato gruppi armati russofobi, ha cancellato la lingua russa dalle regioni russofone, non ha significato nulla per gli ingenui politici finlandesi. Tutto questo non creerebbe una situazione “prevedibile”…
Il fatto è che il governo e l’opposizione finlandese, unitamente, volevano fortemente l’ingresso nella NATO, preparato da anni, e ora hanno trovato la scusa che lo giustifica. Questa giustificazione serviva a smuovere un’opinione pubblica che fino al 24 febbraio era contraria all’ingresso nella NATO. Che cosa l’ha smossa portandola al 76% di favorevoli (forse oggi ancora di più)?
È stata la pressione esercitata dai media. Il bombardamento della narrazione anti-russa è stato assordante ed estremamente efficace. In un Paese dove la stampa e la TV sono completamente embedded, dove i pochissimi che hanno cercato di presentare una diversa interpretazione dei fatti sono stati additati come “utili idioti” se non come “traditori”, la propaganda filo-ucraina ha avuto buon gioco. Ai “documenti” noti anche in Italia su stragi di civili, bambini e anziani, su massacri che nel giro di poche ore dalla loro scoperta sono stati subito attribuiti ai russi anche dai vertici dell’UE e della NATO, alle filodrammatiche esibizioni del presidente Zelensky, si aggiunge però un elemento non comune all’Italia: L’anti-russismo storico. La Finlandia da mille anni si confronta con la Russia, prima di Novgorod e Kiev, poi di San Pietroburgo e poi di Mosca. Decine di guerre, le ultime nel secolo scorso. È naturale che questa eredità, diventata genetica, agisca sulla memoria storica dei finlandesi, che non hanno mai amato i russi, tanto che un detto popolare è: “Un russo (detto “ryssä, parola dispregiativa) è un russo anche se fritto nel burro”. A questo si aggiunge una maggioranza tradizionalmente anticomunista, che per anni si è scontrata con un forte partito filo-sovietico (che aveva raggiunto il 25% dei voti), oggi completamente dissolto. Anche qui infatti il comunismo si è sciolto come la neve finlandese al sole di aprile e il partito della Sinistra (Vasemmistoliitto) che ne è erede ha votato in maggioranza per l’ingresso nella NATO.
I finlandesi sono compatti nella loro scelta atlantica. Sembra quasi che un’aspirazione di secoli, quella di appartenere all’Occidente in tutto e per tutto, abbandonando il ruolo di nazione cuscinetto tra est ed ovest, si sia compiuta.
Ma il prezzo sarà salato. L’aumento delle spese militari, unito all’indebitamento causato dall’epidemia di covid, i programmi di assistenza finanziaria all’Ucraina made in UE, e soprattutto l’adozione delle sanzioni stanno causando un enorme danno alle finanze dei finlandesi. Aumentano le loro spese energetiche, già pesanti in un Paese dove il riscaldamento domestico è in funzione dieci mesi l’anno, l’inflazione galoppa, i prezzi degli alimentari salgono in un Paese che (altro che Paese più felice del mondo!) ha già lunghe “file del pane”: la Finlandia si avvia alla crisi sociale. Attualmente è in atto un incattivito sciopero degli addetti alla sanità, che non si sa quando terminerà; si prospetta l’aumento del carico fiscale in un Paese già sovraccarico, si indebolirà la spesa sociale, in pratica si rischia di far scomparire quel sistema socialdemocratico che aveva portato i finlandesi al benessere. La fine delle esportazioni in Russia colpisce il settore agricolo, che non saprà più dove vendere il suo burro e le sue uova.
La volontà di entrare a far parte della NATO presa precedentemente al 24 febbraio è confermata da un semplice fatto: se la Finlandia temeva, una volta che la crisi si stava profilando, per la propria integrità e sicurezza, perché non ha intavolato accordi con la Russia in merito a questa sicurezza? Esiste già un trattato di non aggressione. La Finlandia aveva infatti sottoscritto nel 1947 a Parigi un trattato che impegnava le parti contraenti a non formare alleanze o partecipare a coalizioni dirette contro l’altra parte. Nel 1992 Finlandia e Russia avevano ribadito “che le parti si asterranno dal minacciare o dall’usare la forza contro l’integrità territoriale o l’indipendenza politica dell’altra parte, né utilizzeranno o permetteranno l’uso del suo territorio per scopi di aggressione”. Sarebbe bastato rinnovare questo impegno, ma da parte finlandese non è stato fatto, né la Russia ha cercato di farlo. Probabilmente Putin ha giocato male la partita con la Finlandia, distratto dagli avvenimenti ucraini. Prima di minacciare il bastone avrebbe dovuto mostrare la carota, magari adombrando, in cambio della continuata neutralità finlandese, qualche concessione territoriale. Qualche bosco ai confini careliani o lapponi avrebbe fatto alla bisogna. Oppure avrebbe potuto non dichiarare la Finlandia “nazione ostile”, permettendo ad esempio il sorvolo del proprio territorio alla Finnair, che ha perduto il lucroso traffico con l’Estremo Oriente. Putin ha inspiegabilmente atteso la mossa della Finlandia, senza fare molto per prevenirla. O forse già sapeva che la Finlandia aveva deciso di sfruttare la situazione per chiedere quell’ingresso nella NATO che da tempo stava preparando, quindi a nulla sarebbe valsa una mossa diplomatica. La Russia, che ha perso la guerra mediatica, non ha però vinto quella diplomatica, e nonostante la riconosciuta abilità di Lavrov, ha subito le aggressive iniziative degli USA e dell’UE.
L’iter verso la sospirata adesione non sarà però facile. L’ungherese Orban per ora non ha fatto dichiarazioni, ma la sua posizione critica nei confronti del boicottaggio energetico voluto dalla UE potrebbe sfociare in una rivalsa sulla NATO; il presidente croato Zoran Milanovic ha già da settimane annunciato la sua contrarietà, legandola a problemi interni all’area serbo-croata. Ma il vero ostacolo è ora la Turchia di Erdogan. La Turchia sta cercando di ricostruirsi uno spazio autonomo e per certi versi egemonico a cavallo tra Europa e Asia, operazione non facile, avendo a che fare non solo con l’eterno problema kurdo, ma anche con la Russia, gli Stati Uniti e l’UE. In questa complessa opera di “sgomitamento” diplomatico rientra il veto posto fino ad ora all’ingresso di Svezia e Finlandia nella NATO, giustificato come opposizione alla loro politica di simpatia nei confronti del PKK e della resistenza kurda. L’inaspettata dichiarazione di Erdogan è caduta come folgore sull’azzurro cielo della Finlandia e della Svezia. In realtà, si dice, il vero obiettivo di Erdogan sono gli Stati Uniti e il contenzioso che li oppone alla Turchia, in merito sia alla politica siriana, sia delle forniture militari. Ma a nostro parere bisognerebbe guardare ancora più in là. Erdogan sta rendendo, a meno che non abbassi il prezzo della sua opposizione ritenendo di aver raggiunto il suo scopo nella transazione, un grande favore a Putin. È logico quindi pensare che la mossa turca sia stata concertata col Cremlino. In cambio, Mosca concederà ad Ankara largo spazio di intervento in Siria e nel Mar Nero. Inoltre, quando sarà arrivato il momento, farà condurre le reali trattative di pace con Zelensky da Erdogan, che assurgerà di conseguenza al ruolo di salvatore della pace mondiale. Le elezioni in Turchia si avvicinano, ed Erdogan ne guadagnerebbe in popolarità, rispolverando la sua immagine di statista di livello mondiale. Certo, la reazione di Biden sarà furiosa, come quella dell’UE, ma Erdogan ha già in mente la mossa seguente, che è di staccarsi dall’Occidente per fare da ponte, o da cuneo, con quell’Eurasia che si opporrà come blocco antagonista. La Finlandia e la Svezia rischiano quindi di restare impantanati in questo complesso gioco della geopolitica mondiale dei prossimi anni. Sperano in una rapida apertura dell’ombrello NATO sotto il quale credono di essersi rifugiate. Se l’ombrello non si apre, proveranno quella che Laura Pausini, presentando l’Eurofestival della canzone vinto come previsto dall’Ucraina, ha definito con una tipica parola italiana “la strizza”.
La domanda che un finlandese ora dovrebbe porsi (e con lui ogni europeo) è: ne valeva la pena? Conveniva alla Finlandia seguire l’Europa in questa corsa alla guerra? Legarsi ad un’alleanza che di fatto è diventata aggressiva, tanto che la stessa Sanna Marin ha detto a Roma: “Putin va fermato”. E come lo si ferma se non con le armi?
La Finlandia felix, che faceva da ponte tra il mondo russo e quello scandinavo, che separava nel Baltico una ostile NATO da una altrettanto potenzialmente ostile Russia, oggi ha chinato l’orgoglioso capo che aveva alzato per anni. E il suo presidente, dall’aria dimessa e stanca, il 19 maggio, era accanto a Biden per chiedergli di aiutarlo, fanciullo timoroso di una neonata Finlandia amica dell’Occidente. E nemica dell’Oriente.