Domenica 5 giugno 2022, Pentecoste
LIBRI LIBRI LIBRI
Silvio Marconi, Donbass, i neri fili della memoria rimossa, Roma, Edizioni Croce, 20222, pp. 238, euri 18,00.
Da più di tre mesi siamo sottoposti a un incessante martellamento mediatico sulla guerra in Ucraina. Allenati da due anni di quotidiani bollettini pandemici, il tono allarmistico e a tratti apocalittico sugli eventi di Kiev, Odessa e dintorni, dove le notizie (poche) sono avare di dettagli e grondano di retorica e parzialità, ha inferto il colpo di grazia non solo alla pazienza di ogni pensante, ma ha seriamente compromesso la già non solida credibilità di molti giornalisti ed esperti nostrani.
Ci siamo chiesti perché all’interno di questa infinita litania di fatti e smentite, nessuno abbia mai evocato che quanto sta avvenendo in Donbass (contrazione di Doneckij bassejn, bacino del fiume Donec) storicamente non è estraneo, per il medesimo teatro operativo, alle vicende dell’esercito italiano fra il 1941 e il 1943, e a ciò di cui fu testimone. Infatti proprio in Ucraina sudorientale stavano schierati i reparti del CSIR, poi ARMIR, prima della rotta determinata dall’operazione “Piccolo Saturno” intrapresa dai sovietici nel dicembre 1942. Dopo aver resistito con ogni sforzo all’offensiva frontale delle truppe comandate dai generali Voronov, Golikov e Vatutin (quest’ultimo, vincitore nella battaglia di Kursk verrà mortalmente ferito in un attentato dei collaborazionisti ucraini), i nostri soldati iniziarono una drammatica ritirata contraddistinta però da episodi di eroica resistenza. Fu questa una pagina che segnò la nostra memoria per decenni, a rimarcare l’assurdità di quella guerra in terre lontane, al guinzaglio dell’alleato più forte. Copioni già visti (per non parlare della guerra di Crimea). Eppure, nell’attuale frangente, dove – secondo la retorica dei salotti televisivi – si deve morire per Mariupol, nessun accenno a questa più recente pagina di storia. L’iniziativa di un amico ed ex allievo si è rivelata quanto mai felice e utile, regalandomi il volume Donbass, i neri fili della memoria rimossa, edito a Roma dalle Edizioni Croce, uscito nel 2016 ma prontamente riedito nel marzo di quest’anno. L’autore, Silvio Marconi, non è uno storico di professione, ma un ingegnere attivo nella cooperazione allo sviluppo e appassionato di scrittura (ha pubblicato anche un volume sulle affinità tra San Francesco e il sufismo).
La tesi riportata dall’autore – già ampiamente nota agli storici e agli studiosi di geopolitica – è delineata a chiare lettere dall’inizio. Con lo scoppio della “guerra fredda”, i preponderanti interessi delle élite e dei gruppi di potere occidentali hanno rimosso, o riletto, i fatti sconvolgenti avvenuti in Ucraina dall’invasione tedesca dell’estate 1941 fino alla riconquista da parte dell’Armata Rossa tre anni più tardi. Nel rinnovato confronto Ovest-Est fu ritenuta opportuna, in questa parte dell’Europa come del resto anche in quella più a Occidente, una più o meno occulta collaborazione fra i vecchi pianificatori dei crimini e genocidi nazisti, compresi i molti collaborazionisti locali, e gli apparati istituzionali del “mondo libero”. Ovviamente per contrastare il blocco socialista. In questo modo, fra insabbiamenti e impunità, non solo scese per decenni una cappa di omertà su quei fatti ma – e questa è storia recentissima – persino quanti avevano attivamente collaborato con i nazisti nello sterminio etnico e religioso sono stati additati come eroi nazionali: il caso dell’ucraino Stepan Bandera è paradigmatico (ma non è l’unico). Marconi ripete in più passaggi del libro come l’Italia partecipò attivamente all’aggressione all’URSS, occupando proprio il Donbass e, spesso, ignorando crimini o fiancheggiando i tedeschi nello sfruttamento delle risorse locali (accontentandosi degli avanzi). Lo fa citando molta storiografia sul tema, pubblicata negli ultimi vent’anni dalle maggiori case editrici italiane o frutto di tesi di dottorato: le testimonianze di chi con l’uniforme italiana era laggiù 80 anni fa, conferma fatti e risvolti con intonazioni diverse, talora opposte.
In queste settimane di fronte “globale” – ma fin dal 2014 col sanguinoso conflitto in Donbass – reparti militari ucraini sul piano ideologico e simbolico non fanno che riproporre, in una chiave nazionalistica aggiornata, gli stessi contenuti delle formazioni collaborazioniste dell’ultimo conflitto mondiale, ponendosi idealmente nel solco di quanti (oltre ai tedeschi etnici) furono inglobati nelle SS ucraine, operando non solo in quel teatro di guerra ma anche in Italia, come nel lager di Bolzano, e nei campi della Polonia occupata.
Marconi illustra nella parte finale del volume queste formazioni, senza tanti giri di parole, descrivendone le insegne e l’armamentario (le armi da fuoco sono portatrici di morte come quelle ideologiche e occulte…). Ma ciò che è più meritevole di attenzione nel testo (lettura, credeteci, difficile perché grondante di male inferto e mai riparato, come della sofferenza di centinaia di migliaia di vittime innocenti) è la cornice di iniquità di quella guerra, costellata da spietati massacri, che si sovrappone tragicamente agli eventi in corso, restituendoci intatto un sentimento di impotenza e disperazione che la propaganda odierna rende più mortificante, avvilendo ogni speranza. Molti conoscono l’eccidio di Babi Yar (più di 33.700 ebrei uccisi dai tedeschi col supporto dei collaborazionisti locali, cappeggiati nei villaggi dagli starosta. Ne moriranno altrettanti a Dnepropetrovsk), perché appartiene agli annali (e immortalato con rara, insostenibile capacità rievocatrice dallo scrittore franco-americano Jonathan Littel nel suo romanzo Le benevole, del 2006). Ma i più ignorano il profondo abisso minerario di Stalino, l’attuale Donetsk – sono i nomi che da tre mesi sentiamo nominare –, un pozzo profondo 365 metri che, secondo dei calcoli, arrivò a contenere 75 mila cadaveri. Nel 2006, due giorni prima dell’inaugurazione del nuovo memoriale (dopo quello non ufficiale eretto nel 1972), vi comparvero delle svastiche.
La bocca dell’inferno di Stalino è ancora spalancata sulla nostra storia.
Alberto Castaldini