Domenica 26 giugno 2022, San Vigilio
ARTE, ARTE E ANCORA ARTE
ELEONORA GENOVESI
SUPERBAROCCO: ARTE A GENOVA DA RUBENS A MAGNASCO (PRIMA PARTE)
“Amate l’arte in sé, e tutte le cose che vi occorreranno vi saranno concesse” (Oscar Wilde)
L’arte ci dà e ci insegna tanto. La sua compagnia ci consente di vivere esperienze uniche.
Attraverso l’arte, ci si connette con il mondo, con gli artisti, con l’umanità; è come se un filo invisibile ci unisse, a dispetto della distanza che ci separa dalle altre persone.
Tramite l’arte, capiamo che i sentimenti sono universali e che tutti sperimentiamo l’amore, la tristezza, l’allegria, la vergogna, ecc., stando dove stiamo, essendo chi siamo. Solo che ognuno di noi riceve stimoli diversi. E tutti questi sentimenti ed emozioni, possiamo percepirli osservando un’opera d’arte.
Credo che molti di noi, se non tutti, abbiano sperimentato la sensazione di essere inutili, fortemente imperfetti, inadeguati, il che comporta una buona dose di scoraggiamento e, talora, di intorpidimento. Be’, quello è il momento migliore per entrare in un museo e contemplare opere che ci fanno stare meglio.
Perché l’arte è da sempre il balsamo per l’anima e il rifugio di molte persone. E non parlo per sentito dire.
Colta da stanchezza innescata dal dover sottostare al crescente burocraticismo che contraddistingue la scuola italiana del terzo millennio, a dispetto delle buone intenzioni, necessitavo di stimoli… Così senza pensarci un attimo mi son ritrovata a Roma per godere e ritemprarmi lo spirito con la bellissima mostra “SuperBarocco: Arte a Genova da Rubens a Magnasco” ospitata alle Scuderie del Quirinale.
Ebbene sì: Arte, Arte e ancora Arte… E allora che il viaggio nella Genova barocca abbia inizio.
Organizzata dalle Scuderie del Quirinale, con la collaborazione del Comune e dei musei di Genova e della National Gallery of Art di Washington la mostra è imperniata sul ruolo culturale e politico della città nel secolo d’oro dell’arte genovese. Quella gloriosa stagione, il Barocco, che si avvia a inizio Seicento e prosegue fino alla metà del secolo successivo.
Il titolo “Superbarocco” allude, infatti, alla grande fama di cui godeva Genova, chiamata appunto “la Superba”.
“Un città regale, addossata ad una collina alpestre, superba per uomini e per mura, il cui solo aspetto la indica signora del mare”, queste le parole di Francesco Petrarca dedicate a Genova.
L’esposizione, di grande ampiezza e splendore, evidenzia, come già detto, il ruolo culturale e politico della città nel Seicento, raccogliendo ben centoventi opere d’arte che coprono 150 anni di storia.
Tele e pale lignee, bozzetti, disegni, grafica e sculture, indirizzano il visitatore “per temi stilistici” come afferma Jonathan Bober, curatore del dipartimento disegni e stampe della National Gallery di Washington, che con Piero Boccardo e Franco Boggero è stato uno dei curatori della mostra.
Percorrendo le sale ci si immerge con crescente godimento nella monumentale varietà di immagini che, se da un lato spiazza, dall’altro incanta. Una delle cose che colpisce maggiormente è la stratificazione di linguaggi diversi, nutriti dal genio di Rubens e Van Dyck che poi si diversificano grazie alle sperimentazioni degli artisti locali, liberi dalle convenzioni delle accademie.
Ma cosa ha rappresentato il Barocco per Genova?
Se il Barocco romano rappresenta il potere della chiesa controriformista divenendone, da un lato, il manifesto propagandista e, dall’altro, lo strumento educativo che aveva lo scopo di istruire ed impressionare i fedeli suscitando la loro meraviglia, per Genova, la Signora del Mare, strutturata come Repubblica che garantiva ai suoi cittadini la vita, l’onore e la ricchezza, al punto da assurgere tra la fine del Cinquecento e il primo ventennio del Settecento al ruolo di una delle più grandi capitali economiche europee, il Barocco rappresenta lo status quo delle ricche famiglie genovesi.
Ed è stato grazie alla lungimiranza di tali famiglie, che con i loro investimenti nel campo dell’arte, oltre che in quello finanziario, se oggi possiamo ammirare le opere esposte nella mostra che declinano i fasti ed il lusso di quella società.
L’arte, per questa nuova generazione di mecenati che dispone di notevoli patrimoni, diventa una sorta di manifestazione del potere della famiglia. Una figura su tutte è quella di Giovan Carlo Doria, lontano parente del grande ammiraglio Andrea, vorace collezionista e committente di artisti come Simon Vouet, Giulio Cesare Procaccini, Pieter Paul Rubens.
Il nostro viaggio parte dai ritratti di Rubens e di Van Dyck per proseguire poi con le tele di Giovanni Benedetto Castiglione detto il Grechetto, così piene di suppellettili, e ancora con le composizioni barocche di Gregorio De Ferrari e Domenico Piola, per concludersi con gli estrosi paesaggi del Magnasco. Ma questa mostra non è solo pittura, ma molto di più. Oltre ai dipinti ed alle sculture troviamo una notevole varietà di forme di arte, comprese le opere d’arte applicata. La stessa eterogeneità la si riscontra a livello di materiali passando dal marmo di Carrara, all’argento e all’ametista.
La mostra si apre con una straordinaria sala dedicata a Rubens, il pittore fiammingo considerato il precursore del barocco per alcuni tratti peculiari della sua arte come la grande fastosità.
E fu proprio nel suo soggiorno genovese, dove si recò per volontà del Duca di Mantova, che eserciterà un forte influsso sullo sviluppo del barocco locale. Appena entrati l’attenzione è catturata dal capolavoro di Rubens i “Miracoli di Sant’Ignazio “proveniente dalla chiesa del Gesù a Roma. La teatralità della braccia spalancate del Santo che guarda in alto, insieme alla complessa scenografia dell’ambientazione inquadrata da diverse prospettive, e la tenda rossa alzata in parte, di matrice caravaggesca, come se si fosse a teatro, conferiscono all’opera quella teatralità che cattura e stupisce lo spettatore… E nel guardare l’opera si perde la cognizione del tempo: sono io oggi 1 giugno 2022 che sto osservando l’opera o son tornata indietro nel tempo e sto assistendo in sincrono al miracolo? E cosa c’è di più barocco di questo… Poi, solo poi ci si accorge di avere sulla destra l’altro capolavoro di Rubens il superbo Ritratto equestre di Giovan Carlo Doria visualizzazione di quel fasto e di quel lusso tanto cari agli importanti committenti genovesi, fasto e lusso che le nobili famiglie, non solo ricercano per le loro dimore, ma che desiderano traspaia anche dai loro ritratti. Seguono poi il Sacrificio di Isacco di Orazio Gentileschi, in cui la figura di Abramo che si stacca da un bosco scuro per essere avvolto da una luce calda, in un particolarissimo equilibrio tra chiari e scuri, non può non richiamare alla mente il celeberrimo San Matteo e l’angelo di Caravaggio.
E ancora il San Sebastiano curato da Sant’Irene di Simon Vouet, proveniente da Genova come l’opera di Gentileschi, e l’Estasi della Maddalena di Giulio Cesare Procaccini proveniente dalla National Gallery of Art di Washington, in cui Procaccini coniuga l’istanza realista con il morbido colorismo veneto ma anche con il caravaggismo napoletano di Francesco Solimena, a testimonianza di come il barocco genovese fu aperto al mondo risentendo di lezioni provenienti da varie parti d’Italia e dall’Europa.
Il Seicento genovese si nutrì della lezione dei pittori fiamminghi che sostavano nella città, come anche dei caravaggeschi di passaggio e dello stesso Caravaggio che soggiornò per un breve periodo a Genova. Ed altre influenze vennero dai pittori genovesi di ritorno da Roma. L’arrivo di Rubens accelerò questo processo di metamorfosi dovuto all’influenza di linguaggi diversi. Allo stile locale “astratto ed omogeneo” come lo definisce Jonathan Bober nel catalogo, subentrano un dinamismo ed un coinvolgimento immediato dello spettatore come attestano Il Ritratto equestre di Giovan Carlo Doria ed i Miracoli di Sant’Ignazio.
Si passa poi alla sala successiva dove, al posto di autori stranieri come nella prima sala, troviamo autori della scuola locale come Bernardo Strozzi e Gioacchino Assereto che testimoniano la forte influenza che ebbe il caravaggismo a Genova portato da Orazio Gentileschi e da artisti liguri rientrati da Roma. Nella pittura di Strozzi si coniugano felicemente l’impronta caravaggesca con quella del tardo cinquecento toscano e con quella fiamminga come si evince guardando la Madonna col bambino e San Giovannino. La realistica canestra di frutta posta sullo sfondo lateralmente parrebbe opera dello stesso Caravaggio tanto le somiglia, il volto per nulla idealizzato della Vergine anch’esso di matrice caravaggesca, il cromatismo di Rubens e l’attenzione al particolare tipica della pittura nordica sono la conferma di quanto Bernardo Strozzi abbia elaborato in assoluta autonomia le varie tendenze.
E dalla sua cucina, dove è intenta a spennare una grossa oca, ecco la Cuoca di Bernardo Strozzi, forse l’opera più nota dell’artista, ammiccare al visitatore che ne resta intrigato. La donna, all’interno della cucina di un palazzo dell’aristocrazia genovese, circondata da polli, piccioni, tacchini sembra essere reale, sembra ci sia effettivamente di fronte. Questa tela costituisce una sorprendente sintesi delle diverse influenze che costituivano la texture della pittura genovese dell’epoca: da un lato la moda fiamminga di rappresentare cucine, dispense, mercati, dall’altro l’interesse per il genere della natura morta di matrice caravaggesca. Bernardo Strozzi vuole, dunque, misurarsi, dal punto di vista iconografico, con la pittura di genere che aveva come soggetti scene di vita quotidiana, iconografia precocemente anticipata a fine Cinquecento dal bolognese Annibale Carracci con il celebre Mangiafagioli e ancora poco nota nell’ambito ligure.
E a richiamare il versatoio ritratto nella Cuoca di Strozzi, accanto al dipinto, abbiamo il trionfo dell’argento con l’esposizione di preziosi utensili da cucina quali versatoi e bacili in argento scolpito riportanti episodi storici come il versatoio con Storia di Orazio Coclite o il Bacile con l’impresa di Giovanni Grimaldi sul Po.
E poi ancora le opere dell’Assereto, uno dei pittori più realistici del Seicento genovese, tra cui spicca la Morte di Catone Utiense, bellissimo esempio di notturno, il cui luminismo ed il crudo realismo mostrano l’influsso del caravaggesco nordico Gerrit van Honthorst, come attestato dalla grande espressività ed emozionalità sprigionate dall’opera. E due sale dopo ecco la sala dedicata ad Antoon van Dyck, l’allievo mandato in Italia dal maestro Pieter Paul Rubens per affinare la sua tecnica pittorica. Nello splendido Ritratto di Elena Grimaldi Cattaneo che troneggia nella sala, ammiriamo la nobildonna che avanza regalmente su una terrazza del suo palazzo genovese, con lo sguardo rivolto verso lo spettatore, protetta da un parasole rosso brillante retto dal suo servitore di colore, parasole che mette sapientemente in risalto il nero dell’abito con cui è ritratta la marchesa. L’abito nero, tipico della moda spagnola dell’epoca giunta a Genova, è ravvivato solo dai polsini rossi e dalla gorgiera importante. A fare da quinta sullo sfondo c’è il paesaggio verdeggiante delle colline liguri. Il ritratto della Marchesa Cattaneo sembra dialogare con quello di Paolina Brignolo Sale realizzato sempre da Van Dyck che, se da un lato costituisce la sintesi stilistica dei suoi ritratti con la rappresentazione a figura intera e di tre quarti, lo sguardo rivolto verso lo spettatore, quinte costituite da imponenti colonne e loggiati, dall’altro mediante la raffinatezza del tessuto dell’abito e dell’acconciatura, visualizza il fasto della nobiltà genovese. E ancora di Van Dyck ecco il ritratto di Agostino Pallavicino in veste di ambasciatore del Pontefice, così fiero e cosciente del proprio potere nel suo abito rosso fuoco.
Quello che mi è piaciuto e mi ha colpita al di sopra di tutto di questa mostra dall’allestimento arioso, ma al contempo lineare che non lascia nulla al caso, è l’intensa concatenazione di sguardi che sembrano prender vita non appena si varcano le sale, dai ritratti di Van Dick a quello dell’imperturbabilità di Anassarco di Domenico Fasiella e ad altri ancora.
Come afferma Jonathan Bober la potenza della pittura di Rubens viene stemperata da Van Dick mediante “un disegno raffinato e da un’eleganza compiaciuta” più conformi al gusto locale.
L’itinerario prosegue mostrando le nature morte, altro tema iconografico tipico dell’arte nordica che conferma il profondo legame tra Genova e le Fiandre. Dinanzi ai miei occhi stupiti emergono opere come La Dispensa di Giacomo Legi un quadro oserei dire di un realismo fotografico. A dispetto della presenza di una figura maschile, i veri protagonisti dell’opera sono: frutta, verdura e pollame descritti con quella dovizia di particolari che contraddistingue l’arte fiamminga.
L’opera di Legi del 1630 fungerà da esempio per la Dispensa di Anton Maria Vassallo del 1648, pittore genovese molto vicino a Rubens. La mostra prosegue con Giovanni Benedetto Castiglione detto il Grechetto, artista viaggiatore ed eclettico, di cui possiamo ammirare Il Sacrificio di Pan in cui si manifesta tutta la sua bravura nel ritrarre animali inserendoli in ambienti inusuali. Ma il Grechetto non è solo questo, egli è soprattutto l’autore dell’Adorazione dei Pastori,una Natività molto particolare a partire dall’impostazione spaziale realizzata con un taglio diagonale di matrice tizianesca, in cui i personaggi si concentrano sul lato destro della scena su piani lievemente diversi. L’effetto finale è quello di grande dinamismo.
Altro elemento innovativo è dato dalla presenza del pastore in primo piano, con il capo cinto d’edera, e una sembianza quasi di satiro, mentre suona uno strumento a fiato, tipico del dio Pan.
Il percorso museale prosegue con i dipinti di autori che attestano la varietà di linguaggi dell’arte genovese della prima metà del Seicento, confermando come non esista un solo barocco genovese, bensì un pluralismo di correnti e di linguaggi che spaziano dal naturalismo di un Domenico Fiasella, all’essenzialità di un Andrea De Ferrari, alla drammaticità di Luciano Borzone.
La mostra si chiude al pianterreno con le Tentazioni di Sant’Antonio di Giulio Benso caratterizzato da un forte dinamismo, con le opere di Domenico Piola artista di punta nella Genova della seconda metà del XVII secolo quali Giobbe e i suoi figli insieme all’Annunciazione, capolavoro della maturità. Qui lo spazio impostato a cerchi, spazio evidenziato dalla profondità dell’imbuto di nubi dorate dal quale giunge in volo Dio Padre insieme al ritmo marcato dai panneggi frastagliati e ad una particolare gamma cromatica impostata sui gialli, rosa, azzurri, rendono quest’opera una sorta di trasposizione pittorica di una scultura che potrebbe essere uscita dalle mani di Puget. Chiude il percorso musivo del pianterreno un’opera del primo grande scultore del Seicento genovese, il francese Pierre Puget che portò in Liguria le innovazioni della scultura barocca romana, come si può vedere nel Ratto di Elena la cui movimentata composizione a spirale che sembra agitata da un “vento barocco”, imprimendo un forte dinamismo al gruppo scultoreo, non può non richiamare alla mente l’Apollo e Dafne berniniani.
Al termine della visita della prima parte di questa splendida mostra ci si sente felicemente stupiti dall’inatteso splendore del poliedrico, multiculturale ed eccellente Barocco Genovese che rispecchia l’anima della “Superba”: misteriosa, privata e stupefacente.
La visione di questa prima schiera di capolavori fa emergere la consapevolezza che il linguaggio del barocco genovese è tutt’altro che regionale grazie all’incrocio di diverse culture che si trovano in questa Repubblica agiata per ricchezza ma soprattutto consapevole del ruolo dell’arte come risorsa economica e identitaria.
Ancora una volta l’Arte come possibilità di armonizzazione interiore. Eh sì perché, introducendo la dimensione estetica nella nostra vita, i sensi riacquistano la loro funzione centrale di promotori del pensiero. Infine l’Arte ci ricorda il piacere della bellezza e la bellezza del piacere… E per dirla con le parole di Shakespeare:
“La bellezza da sola basta a persuadere gli occhi degli uomini, senza bisogno d’oratori”.