Minima Cardiniana 386/7

Domenica 10 luglio 2022, Sante Rufina e Seconda

ARTE, ARTE E ANCORA ARTE
ELEONORA GENOVESI
SUPERBAROCCO. ARTE A GENOVA DA RUBENS A MAGNASCO… SECONDA PARTE

L’arte spazza la nostra anima dalla polvere della quotidianità” (Pablo Picasso)

Eh sì l’Arte come strumento di elevazione e non solo.
Sul perché l’Arte sia così importante per l’uomo si è scritto e detto molto.
Personalmente sono fermamente convinta che fare esperienza dell’arte sia fare esperienza della vita.
L’Arte ci fa da specchio, ci sollecita a porci delle domande su di noi e sul mondo che ci circonda, ci consente la condivisione del bello e di tutto ciò che ne deriva… L’Arte ci rende ottimisti, ci aiuta ad apprezzare le cose e molto molto altro ancora.
Quindi, forti di queste consapevolezze, rituffiamoci ancora una volta nella bellezza, quella della splendida mostra “SuperBarocco: Arte a Genova da Rubens a Magnasco” ospitata alle Scuderie del Quirinale.
Il nostro viaggio si era concluso con le opere esposte al piano terra che già ci avevano dato la misura della grandezza della Genova barocca, la “Superba”, i cui artisti riescono a trasformare l’influenza di linguaggi artistici diversi in linguaggi personalissimi che mixano fra loro varie tendenze.
Salendo al piano superiore, nella prima sala ci imbattiamo in Bartolomeo Guidobono, pittore savonese, originale e raffinato interprete del rococò a Genova.
Guidobono, la cui personalissima opera è il risultato dell’armonizzazione di tutte le tendenze artistiche che avevano animato Genova nei primi decenni del Seicento, attinge alla cultura figurativa emiliana, veneta e lombarda, sia grazie ad un viaggio di studio effettuato a Parma, Venezia e forse anche Bologna, sia grazie alla mediazione di artisti genovesi come Domenico Piola e soprattutto, Valerio Castello, profondamente legato allo stile emiliano e lombardo. Di Bartolomeo Guidobono troviamo 2 opere provenienti da Palazzo Rosso: Lot ubriacato dalle figlie e Abramo Convita i tre angeli.
La tela di Lot ubriacato dalle figlie appartiene alla serie di quattro sovrapporte, che narrano le storie di Abramo e di suo nipote Lot, commissionate da Giovan Francesco I Brignole-Sale per decorare il salone di rappresentanza di Palazzo Rosso, dove si trovano tutt’ora.
L’iconografia del dipinto è fortemente condizionata dall’ Antico Testamento: dopo la distruzione divina delle città di Sodoma e Gomorra, i cui abitanti giudicati empi e peccatori perirono tutti ad esclusione di Lot e le sue due figlie, alla luce di quanto accaduto la figlia maggiore di Lot propose alla sorella di far ubriacare il padre e di giacere entrambe con lui, reso inconsapevole dal vino, per ottenere la discendenza. Da questa unione ebbero origine i popoli dei Moabiti e degli Ammoniti. Bartolomeo Guidobono fornisce un’interpretazione profana del testo biblico mostrando tutta la bellezza della nudità delle due giovani, la quasi palpabile preziosità del manto di una, insieme alla postura svenevole e ammiccante dell’altra.
Sullo sfondo si intravede la città di Gomorra in fiamme ed una sagoma immobile dinanzi al rogo che è quella di Sara, moglie di Lot, trasformata in una statua di sale per aver disobbedito all’ordine di Dio di fuggire senza mai voltarsi indietro.
In primo piano troviamo una splendida natura morta, di matrice caravaggesca, che denota l’abilità raggiunta dall’artista nella sua piena maturità.
Tra i frutti in essa raffigurati sono presenti sia il simbolo del peccato (la mela) sia quello della passione di Cristo (l’uva) quale contrapposizione perfettamente coerente con il senso dell’episodio, in cui un’azione in sé peccaminosa è letta come atto sacrificale per dar vita a una nuova discendenza di uomini giusti.
L’opera prima ancora che avere un carattere descrittivo, sembra alludere ad un qualcosa che accadrà, e questa allusione crea un’atmosfera di suspence percepita dallo spettatore. L’altra opera di Bartolomeo Guidobono presente in mostra è quella dal titolo Abramo Convita i tre angeli, anch’essa proveniente da Palazzo Rosso come già detto. Questo dipinto narra di un episodio tratto dalla Genesi in cui tre viandanti compaiono all’improvviso dinanzi ad Abramo che, riconoscendoli come esseri sovrannaturali, si prostrò dinanzi ai loro piedi nell’accoglierli in casa.
Poi chiamò la moglie Sara, ormai vecchia, chiedendole di portare del cibo per gli ospiti, uno dei quali era l’Angelo di Dio che gli predisse la nascita di un figlio e la rovina della città di Sodoma.
Guidobono in questi dipinti opera una personalissima sintesi della pittura di Correggio, come denotano la grazia e la sensualità visibili nelle figlie di Lot e negli angeli di Abramo, e di quella di Rubens per quanto attiene l’aspetto cromatico.
L’artista fa uso di una pittura brillante tesa ad esaltare le figure che paiono staccarsi dalla tela.
Come nella tela di Lot, anche in quella di Abramo ci troviamo dinanzi ad un’opera raffinata, piena di nitidezza e di garbo, che crea un’atmosfera di attesa di un qualche avvenimento che dovrà verificarsi, nella quale lo spettatore si sente immerso.
Nella sala seguente dinanzi ai miei occhi appare l’opera di un grande artefice della scultura lignea genovese di età tardo barocca: Anton Maria Maragliano, molto attivo fra la fine del Seicento e i primi quattro decenni del secolo successivo, in particolare a Genova dove tenne una rinomata bottega.
Il suo laboratorio produsse numerose sculture devozionali, pale d’altare, statuette per il presepe, crocifissi ma soprattutto enormi macchine processionali composte da gruppi scultorei, sparsi in chiese, oratori e santuari non solo di tutta la Liguria ma anche della Spagna. L’opera presente in mostra è il Battesimo di Cristo, macchina processionale del 1624, un insieme grandioso ed imponente che anticipa quello che sarà il prezioso ed elaborato gusto settecentesco. Se la bellezza dei corpi di San Giovanni Battista, di Cristo e degli angeli anticipa i dettami della scultura di Canova, la torsione del corpo di Cristo è pienamente barocca.
L’insieme risulta estremamente gradevole per l’occhio che viene catturato dalla scena.
Anton Maria Maragliano rinnovò in chiave barocca e pre-rococò l’arte del legno, operando un’“innovazione” connessa allo stile della scultura di Filippo Parodi e della pittura di Domenico Piola, attuando così un efficace compromesso tra un’ispirazione raffinata e il gusto popolaresco. I complessi gruppi scultorei di Marigliano sono caratterizzati da una spettacolare teatralità, ottenuta con pose avvitate e torsioni dei corpi operate con un notevole virtuosismo, insieme a panneggi vorticosi, e da una ricchezza di pathos, in pieno accordo con il barocco romano.
Anton Maria Maragliano rese vero il sacro, sorpassando la nobiltà della materia con la forza del virtuosismo tecnico e del colore, suscitando lo stupore e la meraviglia dello spettatore di fronte all’episodio narrato.
Insieme al Battesimo di Cristo di Marigliano troviamo il San Sebastiano di Pierre Puget e la Santa Maria di Cleofa di Alessandro Algardi.
Del francese Pierre Puget, scultore e pittore, allievo di Bernini e di Pietro da Cortona, esponente tra i più significativi della cultura figurativa del Seicento si è già parlato, ma mi sembra giusto ricordare quanto importante sia stata la sua presenza tra il 1661 ed il 1668 a Genova, dove con i suoi lavori divenne un efficace promotore del barocco nella città.
Come detto in precedenza, molte famiglie aristocratiche genovesi dell’epoca, per le quali l’arte era una sorta di strumento propagandistico dell’alto livello delle stesse, volevano qualificare le proprie committenze coinvolgendo artisti innovativi e moderni come Puget, definito il Bernini della Francia. Il San Sebastiano esposto nella mostra era parte di un’importante commissione ricevuta dalla prestigiosa casata dei Sauli per decorare la cappella gentilizia di famiglia. Il San Sebastiano di Puget si distacca dall’iconografia tradizionale in quanto il corpo non è trafitto dalle frecce, eppure si tratta una nudità che emana un fortissimo pathos. Il martire si slancia verso l’esterno, il corpo è piegato dalla sofferenza, le gambe flesse sono la personificazione del dolore. Il corpo si offre allo sguardo dello spettatore con un andamento zigzagato di stampo berniniana che esalta la sofferenza dell’uomo.
Ai piedi della statua troviamo le armi ad indicarci ciò che era il Santo, ossia un comandante dell’esercito romano.
La grande maestria di Puget fa sì che si evidenzi il contrasto tra la forza delle armi e la forza della sofferenza del martirio che emana una grande umanità. Il San Sebastiano di Puget è la visualizzazione del concetto di unione dell’uomo con Dio mediante la sofferenza della carne, il distacco dello spirito dal corpo che culmina nella morte.
E poi ecco il bellissimo busto in bronzo di Santa Maria di Cleofa dell’eccellente ritrattista Alessandro Algardi.
La muliebre bellezza del busto della Santa, ottenuta mediante un modellato armonioso, è l’espressione di una grazia quieta che riflette la personalità dell’Algardi di rappresentante della tendenza classicista del Seicento contrapposta a quella più squisitamente barocca di Bernini.
Il percorso, sempre più avvincente, mi porta in una sala dedicata alla produzione grafica dei pittori genovesi del Seicento dove è possibile ammirare dei fogli preparatori e dei bozzetti per la realizzazione di grandi affreschi di alcuni palazzi nobiliari. E guardando questi fogli e bozzetti immagino quale potesse essere lo splendore di queste dimore. Ed ecco il bozzetto di Domenico Piola per l’affresco destinato alla Sala del Maggior Consiglio Ducale del Palazzo Ducale dal titolo Apoteosi della Repubblica di Genova, in cui l’immagine della città è costruita con figure allegoriche e simboli del potere.
E ancora il bozzetto di Gregorio De Ferrari per il Solstizio d’Estate di Palazzo Rosso, che insieme alle altre tre stagioni, rappresentava l’allegoria dello scorrere del tempo.
E guardando questi bozzetti pensavo come la bellezza di prestigiose residenze genovesi sia arrivata a Roma.
Ma ci sono anche fogli che non hanno la funzione di bozzetti come lo splendido Orfeo incanta gli animali di Sinibaldo Scorza, primo animalista del Seicento genovese. La particolare predilezione di Sinibaldo Scorza per i soggetti naturali, che caratterizzò tutto il suo percorso artistico, affonda le radici nella coeva arte fiamminga che l’artista ebbe modo di conoscere, da un lato studiando stampe di artisti fiamminghi, dall’altra guardando de visu le opere realizzate dai fiamminghi presenti a Genova. Ciò a conferma del ruolo di polo artistico e culturale internazionale di primo livello assunto dalla Genova del tempo.
Il percorso prosegue nella sala del Barocco Sontuoso di inizi settecento con opere di autori quali Paolo Gerolamo Piola, il Mulinaretto e Domenico Parodi.
E con sala dedicata ad Alessandro Magnasco si giunge alla fine di questa bellissima mostra che con il suo percorso mi ha portato per mano nello splendore della Genova barocca.
Alessandro Magnasco, artista provocatorio, anticlericale, libero, alieno da qualsiasi tipo di schemi preconcetti e pertanto difficilmente inquadrabile secondo etichette o categorie precostituite, fu una personalità di una modernità unica per i tempi per la carica innovativa della sua pittura.
Genovese di nascita ma milanese per formazione, il Lissandrino, nome con cui Magnasco era conosciuto per via della sua bassa statura, agli albori dell’Illuminismo sentiva forte dentro di sé l’urgenza, oserei dire, di proporre una pittura impegnata, intenzionalmente anticonformista ed antiaccademica che prende le parti degli ultimi, dei reietti, ponendosi così in aperto contrasto con i ceti più elevati.
I suoi soggetti preferiti sono paesaggi con figure e temi inconsueti, che si discostano totalmente dalla rappresentazione del piacere di vivere e della bellezza rococò, da lui ritenuta frivola.
Le opere di Magnasco presenti in mostra sono il Sant’Agostino e il bimbo ed il Trattenimento in un giardino di Albaro.
Partiamo dal Sant’Agostino ed il bimbo in cui si riprende l’episodio di Sant’Agostino che incontra su una spiaggia Gesù Bambino. Magnasco immerge la scena in una bufera di vento che devasta la natura e fa sfilare le vesti del santo. In questo vortice reso magnificamente con pennellate rapide e schizzanti tipiche della cosiddetta pittura “a tocco”, le figure del santo e del bambino sono gli unici punti fermi. Osservando quest’opera mi vien subito da pensare che se non sapessi la data della sua esecuzione che è compresa tra il 1730 ed il 1740, penserei di trovarmi dinanzi ad un dipinto di Turner, esponente del filone romantico del Sublime.
L’altra opera esposta del Lissandrino che chiude la mostra è Trattenimento in un giardino di Albaro del 1740.
Siamo in un giardino di una nota residenza suburbana di Genova, immersa in un vasto paesaggio, che occupa i tre quarti della composizione, da cui la separa un muro cadente, dove un gruppo di nobili ed alcuni ecclesiastici vivono momenti di relax. Il paesaggio è reso con una dovizia di particolari che rimanda al vedutismo. Gli abiti delle dame e dei cavalieri, dei damerini e degli ecclesiastici costituiscono una sorta di intermezzo di luce nel verde dominante.
Ma attenzione a non farci trarre in inganno dal titolo perché si tratta di un dipinto che solo apparentemente ci descrive gli ozi della nobiltà e del clero genovesi.
In realtà Alessandro Magnasco con l’ironia e lo spirito critico che lo contraddistinguono ci mostra il disgregarsi di questa società rococò che si serviva dei suoi frivoli passatempi come paravento per non vedere lo sfacelo ormai prossimo dell’aristocrazia genovese.
Alessandro Magnasco, detto Lissandrino, pittore lucido e disilluso che osò ciò altri mai osarono fare, che anticipò la civiltà dei lumi, inquisitore attento della realtà che lo circondava, agli antipodi delle sognanti, ottimistiche frivolezze dei suoi contemporanei, realizzò una produzione pittorica che travalicò nel Settecento i confini della Repubblica per assumere una dimensione europea.
Che dire al termine di questa interessantissima mostra? Che ne sono uscita più ricca?
Sicuramente. È stato un po’ come essere portati per mano nella Genova barocca e post barocca, una sorta di viaggio indietro nel tempo, reso ancor più verosimile dalla scelta delle opere e dalla loro messa in scena che ha fatto sì che si richiamassero l’una con l’altra.
Merito della mostra è stato far conoscere la potenza artistica della Superba, poco conosciuta ai più, a conferma dell’infinità di capolavori che costituiscono il patrimonio artistico italiano. E qui, perdonatemi, si torna sulla nota dolens del: perché non mettere la disciplina di Arte in tutte le scuole di ogni ordine e grado? Perché ad oggi la disciplina di Arte è la reietta, una delle materie meno significative, mentre trovo, scusate se sono di parte, che Arte sia una delle discipline che più di altre incidono sulla formazione dei ragazzi, sulle loro capacità di costruire dei pensieri, elaborare delle teorie, esprimere dei giudizi…Ancora una volta la mostra delle Scuderie del Quirinale riconferma l’altissimo valore dell’Arte.
Come già detto molte altre volte l’Arte ci fa bene, ha una valenza terapeutica, ci rassicura alimentando le nostre speranze. Inoltre conoscere la Storia dell’Arte, anche con l’aiuto di mostre come questa, è il modo più efficace per percorrere la storia scoprendone i trionfi e le contraddizioni, persino le vacuità e le meschinità, perché non c’è aspetto umano che l’Arte non abbia saputo mettere a nudo… Quindi sì Arte, Arte e ancora Arte… E per dirla con le parole di Vasilij Vasil’evič Kandinskij: “L’Arte oltrepassa i limiti nei quali il tempo vorrebbe comprimerla e indica il contenuto del futuro”.