Minima Cardiniana 387/3

Domenica 17 luglio 2022, S. Alessio

PUTIN E L’USO DELLA STORIA
FRANCO CARDINI
L’ANALISI DI UN ILLUSTRE CONTEMPORANEISTA
Sul “Corriere della Sera” dell’8 luglio scorso, un elzeviro come al solito intenso e incisivo di Ernesto Galli della Loggia dall’eloquente, esplicito titolo di La storia falsa prende in esame la Weltanschauung storico-politica di Vladimir Putin e il suo “uso politico della storia” sulla base di una monografia dello slavista Nicolas Werth (Poutine historien en chef, edito nientemeno che da Gallimard).
Non conoscevo e continuo a non conoscere – nonostante gli sforzi per procurarmelo al più presto – il libro di Werth: non posso al riguardo pertanto dire nulla di più di alcune impressioni ricevute dalla lettura dell’articolo di Galli della Loggia (che, come quasi sempre, è in realtà un breve compendioso saggio); e lo faccio “con beneficio d’inventario”, come si dice. Ma ho pensato fosse intanto dar subito notizia di quanto scrivono entrambi in modo da consentire anche ai lettori dei nostri “Minima Cardiniana” – tra i quali abbondano gli insegnanti d’ogni ordine e grado – di farsene quanto meno un’idea, data la perentoria attualità del tema dell’uso della storia in rapporto alla politica e alla circolazione mediatica delle notizie. Mi riservo, con molta lealtà e umiltà, di tornare sul tema nel caso che la diretta lettura delle pagine di Werth m’induca a mutar giudizio; e a scusarmi se mi renderò conto di esser finito fuori strada. È una questione di correttezza, cioè di onestà intellettuale: che non può non esser la base di tutto, specie per chi fa il mestiere di Galli della Loggia, ch’è anche il mio.
Si tenga comunque presente che ad Ernesto mi lega un’antica amicizia – punteggiata, è vero, di parecchi dissensi e di qualche garbata ma non sempre pacata polemica (l’11 settembre 2001, l’Iraq, il ruolo dell’Islam, la “Modernità” eccetera) – collaudata e rinsaldata anche e soprattutto negli anni per entrambi felici di lavoro comune nello staff dell’Istituto allora coordinato da Aldo Schiavone e che oggi è l’Istituto di Scienze Umane e Sociali aggregato alla Scuola Normale Superiore. Anni grosso modo fra 2004 e 2012, tra il fiorentino Palazzo Strozzi e il napoletano Palazzo Cavalcanti: con Umberto Eco, Giuseppe Galasso, Andrea Giardina, Roberto Esposito e tanti altri colleghi illustri, italiani e stranieri. Fu una bella avventura: e resto riconoscente ai colleghi che allora mi accettarono fra loro. Ad Ernesto poi, in modo particolare, sono molto riconoscente per la sua aperta e coraggiosa difesa della mia immagine in alcune circostanze che mi videro oggetto di assalti alquanto cannibaleschi da parte di alcuni professionisti della “caccia alle streghe” che, ben al riparo delle loro cattedre, mi accusavano di terrorismo intellettuale.
L’esame proposto in questa sede da Galli della Loggia del pensiero putiniano parte comunque – mi duole dirlo – da una considerazione che, proposta da uno studioso fine e originale come lui, delude per il suo conformismo: un confronto tra Putin e Hitler che non appare convincente, anche data la differenza tra il taglio e le circostanze della scrittura del Mein Kampf – un’esposizione storico-politica di carattere sistematico, almeno nelle intenzioni del suo Autore – da una parte e gli interventi a volte marginali e miscellanei di Putin, dietro ai quali non emerge affatto un disegno coerente ancorché folle come quello che nella sostanza anima l’esposizione hitleriana non tanto di quello che il futuro Führer und Kanzler “voleva combinare” (come dice Galli), quanto dei fondamenti di un pensiero che fatalmente avrebbe dovuto subire, dal 1925 allorché venne dato alle stampe in poi, il confronto e l’usura della rosminiana “eterogenesi dei fini”. Il disagio nato dalla lettura delle considerazioni di Galli al riguardo dipende dall’inevitabilità dello scorgervi, in filigrana, lo stantìo tormentone conformistico-terroristico che ha condotto negli ultimi tempi troppi osservatori poco avveduti e alquanto spregevoli imbrattacarte a scorgere un “nuovo Hitler” in tutti i tiranni, tirannelli o tirannacci di turno. Galli della Loggia ci ha abituati a ben più raffinate e articolate interpretazioni: e da lui non ci saremmo aspettati questa banale “caduta di tono”.
Ma paulo maiora canamus. L’affermazione putiniana – magari retorica, magari forzosa – che “la principale risorsa della potenza e dell’avvenire della Russia risiede nella nostra memoria storica”, comporta per forza di cose la presentazione di tale memoria: e con essa la sua esegesi ben altrimenti che obiettiva, anzi ricca di elementi mitopoietici e di forzature politico-pragmatiche. Il che non stupirà: lasciando perdere il tema spinoso del confine tra “uso”, “abuso” e “tradimento” della storia (un tema vivissimo fino forse dalle primissime iscrizioni sugli antichi obelischi egizi e dalle narrazioni delle prische cronache imperiali cinesi: la storia sarà anche l’erodotea “descrizione degli avvenimenti”, ma la menzogna è la sua sorella gemella ed esse nascono appunto insieme lasciando sempre incerti su chi delle due sia nata per prima), resta il fatto che Vladimir Putin non è né uno studioso, né un pubblicista divulgatore. Lo statista russo non è interessato tanto alla ricerca della verità, animata ch’essa sia da intenzioni scientifiche oppure dalla volontà di rimodellarla e distorcerla secondo il suo arbitrio e i suoi interessi, bensì all’impegno politico alla luce del quale giustificare atti e scelte attuali nella prospettiva della lezione offertaci dal passato o comunque da qualcuno interpretata.
È evidente che Putin, nella sua prospettiva storico-mitopoietica, tende a leggere il passato del suo paese in una chiave “trionfale” e “imperiale”, come il disegno di una traiettoria che non è per nulla estranea (non dimentichiamo le radici storiche euro-occidentali di Vladimir Vladimirovic, con la sua lunga e pregnante esperienza sanpietroburghese – allora leningradese – della giovinezza e più tardi tedesca di formazione alle spalle, e quindi una prospettiva ben più “baltoscandinava” – che non moscovita – molto Pietro il Grande e soprattutto Grande Caterina e poco eurasianismo) al modello attrattivo del “Manifesto Destino” statunitense. È curioso che tale “occidentalità” sfugga al pur occidentalista convinto Galli della Loggia: tanto da far dubitare ch’egli la sottovaluti per volger gli occhi altrove, quasi al fantasma del “dispotismo orientale” che ben si sarebbe attagliato magari al terrorista georgiano-osseta Jozif Vissarionovich Djugasvili (“in arte Stalin”) ma che decisamente stona su quelle del severo, gelido burocrate del KGB. Se, com’è stato detto, “il Volga nasce in Europa”, figurarsi la Neva…
Gelido burocrate, appunto: che magari non recalcitra nemmeno dinanzi ai massacri (ne sanno qualcosa i ceceni, per quanto dai loro ranghi provengano gli attuali pretoriani del nuovo zar), ma ch’è stato inappuntabile nel restaurare al Cremlino e altrove aquile bicipiti e falci-e-martelli senza coglierne i divergenti significati, anzi avvicinandole in una prospettiva grafica che quasi le accomuna. E tale in apparenza ossimorico equilibrismo simbologico non deve stupire: al contrario! Putin ha vissuto gli anni del tramonto dell’URSS dimostrandosi regolarmente e rigorosamente fedele sa vlast, cioè “al potere” e “al sistema” sovietici proprio quando l’esserlo era più difficile, e alla sua fedeltà conferendo un’accezione istituzionale e burocratica il meno possibile ideologizzata: il che gli ha consentito nell’ultimo ventennio – dopo il chiaro e invitante exploit filomediterraneo e filatlantista (quasi filoccidentalizzante) del celebre incontro di Pratica di Mare – di accedere gradualmente a una sempre più lucida e disincantata visione geostorica e geopolitica delle cose, con un’attenzione particolare al binomio slavicità-ortodossia che ha trovato nel patriarca Kirill la sponda ideale; e parallelo alla più che giustificata conquista della convinzione che degli Stati Uniti non fosse possibile fidarsi e che i paesi euro-occidentali fossero ormai (specie l’Italia) divenuti dei satelliti di Washington nonché politicamente evanescenti le loro istituzioni, a cominciare dall’Unione Europea.
Ignoro quanto di tutto ciò penetri nell’esame di Werth e non sono pertanto in grado d’ipotizzare se e in che senso il Galli della Loggia abbia “censurato” o “equivocato” o “travisato”, o in che senso sia stato viceversa ingannato dalla sua fonte. Certo è che la visione putiniana della storia russa, quale trapela dalle citazioni presentate nell’articolo del “Corriere” (ma è auspicabile che Galli torni con maggior ampiezza e profondità sull’argomento), implica un forte elemento di continuità e di coscienza identitaria che cristianizzazione della Rus’ medievale e dalla saga imperiale dei Romanov – forse con troppo scarso rilievo accordato all’originalità della “rivoluzione europeizzante” di Pietro e di Caterina, modello di tutte le altre che sono venute dopo in Asia e anche in Africa (la giapponese meji, la turca kemalista, l’iraniana pahlavica, l’egiziano-siriano-irachena “socialista” d’impronta nasseriana, la tunisina burghibista, l’algerina benbellahiana e così via), che Vladimir Vladimirovic ha l’aria di considerare in termini alquanto deterministici – si snoda attraverso la successiva spinta sovietica esaminata in una prospettiva che svilisce e quasi condanna la fase bolscevica scagliandosi contro la pace di Brest-Litovsk travisandone (a mio modo di vedere) il senso ispirato al lucido e coraggioso realismo leniniano e considerandola viceversa come la quasi squallida resa di una nazione perdente a un’altra nazione ormai perdente a sua volta.
Certo, la rottura storica tra l’età zarista dei Romanov e quella sovietica fu tragica, decisa, enorme, e si prolungò molto a lungo nella storia della Russia fino alla lunga crisi degli Anni Trenta. Putin tende a sottovalutare i complessi eventi dell’era sovietica tra 1924 (l’anno della morte di Lenin) e 1938, con la terribile carestia che falciò milioni di persone e la repressione che ne imprigionò altri, ma che, attraverso i Piani Quinquennali, trasformò il paese da immensa ma disordinata area di produzione agricola in grande potenza industriale. Esita, Putin, nel “rivalutare” (nel senso di “sottoporre a un nuovo tipo di valutazione”: non necessariamente positivo, anzi) le scelte dello Stalin prebellico, del quale riconosce e anzi denunzia la ferocia e le nefandezze astraendo però dal contesto nel quale esse si verificarono e dai risultati prossimi e remoti che comportarono? Qui l’analisi di Galli della Loggia sembra vacillare, perdere di coraggio e di chiarezza. Senza dubbio gli errori e gli orrori del Vojd (la parola russa che rende il senso del latino dux) sono sottolineati, come non si perde l’occasione di stigmatizzare l’impium foedus del “trattato di non-aggressione” Molotov-von Ribbentrop. Sembra insomma che su quegli anni il giudizio degli occidentali – Werth e Galli della Loggia compresi – sia rimasto nella sostanza ancorato se non congelato al gigantesco pamphlet autoapologetico di Viktor Kravchenko, Ho scelto la libertà, l’autore del quale aveva chiesto nel ’44 asilo negli Stati Uniti e il cui contenuto era stato a lungo una specie di Bibbia occidentale sulla “terribile realtà” dell’Unione Sovietica. Forse, non foss’altro che un po’ di Bulgakov e di Soljenitzin – notoriamente tutt’altro che degli “stalinisti” – sarebbero serviti a riequilibrare un po’ il giudizio diffuso dalle nostre parti su un mondo tanto scarsamente conosciuto quanto ampiamente e superficialmente demonizzato.
Ma a questo punto ecco il capolavoro di perfidia di Putin secondo il severo giudizio dello studioso italiano (e della sua fonte francese?): ecco la “grande guerra patriottica”, la splendida saga eroica del popolo sovietico negli Anni Sessanta resa dal film Osvobajdenije (“Liberazione”), per metà documentario epico su materiale originario per metà storia d’amore – con la partecipazione anche d’italiani, come il bravo Ivo Garrani nei panni di Mussolini e una graziosa Sylva Koscina come eroina partigiana –. Lo sforzo titanico del popolo sovietico, i suoi venti milioni di morti fra caduti in guerra e vittime civili, le sue indicibili sofferenze, s’impongono alla storia deformandola: come se, commenta Galli, fossero davvero stati i sovietici a vincere praticamente da soli il nazismo e come se Hitler non fosse stato battuto anche e magari soprattutto dallo sforzo degli alleati occidentali.

Ora, non c’è dubbio che “la grande guerra patriottica di liberazione antifascista” sia stata il mito di fondazione dell’Unione Sovietica dopo lo shock di quel fatale giugno 1941, l’aggressione tedesca che fu anche un tanto vile quanto idiota e ingiustificato-ingiustificabile atto di tradimento del patto di non-aggressione dell’agosto di due anni prima: e il rancore provocato da quel gesto e aggravato dalle violenze e dai crimini compiuti dalle forze germaniche e dei paesi alleati del Reich senza dubbio non giustifica, però aiuta a comprendere sia il comportamento obiettivamente barbarico delle truppe sovietiche sul territorio tedesco a partire da quando, nel gennaio del ’45, venne sfondata la testa di ponte di Baranow sulla Vistola, sia la durezza della successiva occupazione del territorio tedesco-orientale.
Galli della Loggia affetta stupore per il fatto che la “grande guerra patriottica” sia spiegata, nella società russa di oggi come nelle scuole, in maniera “del tutto avulsa dalla seconda guerra mondiale nel suo complesso, e quindi senza che si faccia neppure un cenno, per esempio, alla guerra sul fronte occidentale, alla vittoria tedesca sulla Francia, alla battaglia d’Inghilterra o a Pearl Harbour”. Ma egli, che si è occupato a lungo e con molto coraggio della situazione della scuola italiana, sa benissimo che, se la Russia è affetta dal mito di fondazione della “grande guerra patriottica”, da noi imperversa un altro mito, quello della Resistenza, per cui molti degli eventi del periodo 1943-45 sono falsati e distorti. Fino a pochi anni or sono, era addirittura non innocentemente diffusa l’idea che “a liberare l’Italia fossero stati i partigiani”. Da una trentina d’anni a questa parte poi – più o meno da quando sono spariti Unione Sovietica e grandi partiti comunisti europei, soprattutto il nostro PCI – il contributo partigiano è stato molto ridimensionato (appunto anche in esso l’apporto comunista era stato fondamentale) e si è cominciato a parlare sempre di più degli alleati: o, per dirla con Berlusconi, “di quei bravi ragazzi che hanno passato l’Atlantico per rischiare la pelle venendoci a liberare”. Ma si è dimenticato che quei bravi ragazzi tra ’43 e ’45 procedettero alla volta della Germania a passo molto lento nonostante l’esercito tedesco, concentrato nello scacchiere orientale per rallentare la penetrazione dell’Armata Rossa, offrisse loro ben minore resistenza. Sono stati appunto i russi i più potenti autori della vittoria alleata: ed è questo che gli europei d’oggi vorrebbero dimenticare e nascondere. Ma il loro contributo alla vittoria sul nazionalsocialismo è oggi minimizzato se non rimosso. Anche da ciò dipende l’indignazione russa nei confronti della nostra ingratitudine.
E veniamo alla questione ucraina. Per Putin, la “denazificazione” del paese coincide con la necessità di ostacolarne la crescita di una coscienza nazionale distinta e infine separata da quella russa, un fenomeno nato nell’Ottocento e quindi progressivamente affermatosi attraverso varie fasi e vari elementi, tra cui appunto lo stesso collaborazionismo diffuso con la Germania nazista a partire dal 1941. Il discorso putiniano sull’Ucraina è in effetti, a sentirne l’esposizione di Werth e di Galli, alquanto debole sul piano storico: carente, in particolar modo, sul tema del contributo dei cosacchi del confine (appunto “u kraina”) del Dniepr nel XVII secolo alla lotta contro i polacchi cattolici oltre che contro gli ottomani e i tartari di Crimea. Ma quel che è Galli a sottovalutare, sulla scia della lacunosa ricostruzione semplicizzante dello stesso Putin, è la fiera russicità degli ucraini tra XVII e XIX secolo, della quale la penna di Gogol’ è testimone (si pensi al romanzo Taras Bul’ba).
Galli ammette tuttavia che su tutto ciò Putin è alquanto reticente: ma in cambio ipertrofizza forse il contributo di pubblicisti quali Timofei Serguetzev, che non so quanto e fino a che punto si possa qualificare “ideologo di regime” e che parla per l’Ucraina di una necessaria “denazificazione” intendendola come sinonimo di “deucrainizzazione”: cosa ben diversa dalla prospettiva del recupero da parte degli ucraini della loro coscienza di parte della grande (e composita) identità russa, quella che in età zarista si esprimeva con l’espressione “tutte le Russie” (la Grande, la Piccola e la Bianca). Ma l’identificazione della prospettiva putiniana con il maldestro “fondamentalismo russista” di Serguetzev appare a Galli della Loggia motivo sufficiente per concludere un discorso che può essere stato discutibile ma non privo di aspetti e momenti interessanti con un tanto perentorio quanto maldestro “C’è ancora qualcuno che in nome della ‘pace’ intende negare le armi a chi se la sta vedendo da mesi con simili criminali?”. Una conclusione altrettanto infelice dell’apertura del discorso con il pretestuoso riferimento a Hitler.
Sì, caro Ernesto: e te lo ribadisco chiaro, con tutto l’affetto che ti porto e che tu ben conosci. Siamo in molti a ritenere funesto e illegittimo l’invio delle armi agli ucraini di Zelensky, che sono ben lungi dal rappresentare tutto il popolo ucraino: e lo riteniamo tale non nel nome della “pace”, bensì in quanto l’invio sistematico e ufficialmente dichiarato di armi a una delle due parti di un conflitto equivale, nel diritto internazionale, a un atto di cobelligeranza al suo fianco e contro l’altra parte. Ed è quel che facciamo, quel che soprattutto ha fatto a suo tempo il nostro parlamento allorché – unico fra tutti quelli europei e dei paesi della NATO – ha sancito ufficialmente tale invito. Oggi gli ambasciatori in feluca e spadino non esistono più: ma quando esistevano quella sarebbe stata una formale dichiarazione di guerra. Resta tale: ed è inoltre una dichiarazione vigliacca, in quanto sappiamo bene che la controparte non può diplomaticamente reagire alla stessa maniera senza attirarsi addosso – a giusto titolo formale – tutti i paesi della NATO, con la conseguenza di una vera e propria estensione del conflitto in termini e a livelli che non oso nemmeno chiamare con il loro nome.
Ne consegue una vera e propria drôle de guerre: questo è un conflitto tra Russia da una parte, Stati Uniti e NATO dall’altra, come Luciano Canfora da subito e oggi anche i redattori di “Limes” hanno esplicitamente dichiarato. In tale conflitto, gli statunitensi, i paesi affiliati alla NATO e l’Unione Europea ch’è al traino di entrambi non rischiano per ora nemmeno un soldato, a parte forse qualche “osservatore”, qualche “consigliere” e qualche volontario. Biden sa benissimo che può inasprire le sanzioni antirusse e intensificare ogni sorta di aiuto nei confronti dell’Ucraina e che questo giova al suo demenziale programma d’imperialismo gelatinoso, ch’egli ama definire “indebolimento e condizionamento della Russia” (che finirà per consegnarla del tutto all’alleanza con la Cina): ma se perdesse in guerra guerreggiata un solo marine, egli accelererebbe in modo esponenziale quell’auspicabile momento nel quale, in un modo o nell’altro, gli americani lo cacceranno a pedate dalla Casa Bianca. E, anche se da noi nessuno osa (ancora) ufficialmente e pubblicamente mettere in dubbio l’infausta trappola ch’è ormai la NATO, anch’essa è sempre più oggetto di malumore. Un suo fiero sostenitore, Boris Johnson, ha di recente perduto il suo posto non solo per i suoi fallimenti e gli scandali dei quali è stato al centro; e lo stesso Draghi, altro pilastro della guerra non dichiarata a Putin, è stato costretto a una contorta operazione di false dimissioni per potersi liberare di una fazione che, all’interno della coalizione partitica che lo sostiene, si è dichiarata contraria all’invio delle armi all’Ucraina e quindi alla prosecuzione della belligeranza non dichiarata. Come vedi e come peraltro ben sai, caro Ernesto, qui non si tratta d’inviare o no armi al turpe guitto ucraino travestito da grande e mediaticamente osannato leader. Si tratta di farla finita con questa guerra infame gestita interposito populo, tanto per parafrasare una celebre pericope cara alla teologia morale. Biden & Co. stanno facendo guerra alla Russia con eroica determinazione, ben decisi a portarla avanti fino all’ultimo ucraino. Prima con le sue infinite manovre provocatrici, quindi con le irragionevoli sanzioni, infine con le sue volgari e irresponsabili contumelie all’inizio del conflitto (Putin “criminale di guerra” e altro), Biden si è precluso anche la possibilità d’invitare a sedere a un ipotetico tavolo delle trattative lo statista ch’egli ha irrimediabilmente offeso, a meno di non presentargli prima formali e doverose scuse (cosa che dovrebbe fare e che invece non farà mai). Quanto a Putin, il suo interlocutore nel conflitto non è il pur turpe Zelensky, che si è limitato a credere ingenuamente fino al 22 febbraio scorso che si potesse tormentare impunemente la gente del Donbass sotto gli occhi dei suoi fratelli russi: è lo stesso Biden che, se vuole terminare questo massacro, deve fare per primo una doverosa mossa. Se non lo capisce o non vuole farlo, il signore del Cremlino ha le mani legate. A questo punto, non ci resta che sperare nel mid term elettorale statunitense; o, ma già molto meno, in un sussulto di dignità e di libertà dei popoli soggetti alla tirannia liberaldemocratica dell’inquilino della Casa Bianca e di almeno qualcuno fra i suoi manutengoli.
E affrontiamo poi il tema dell’umiliazione di una delle libertà fondamentali dell’essere umano, quella di pensiero. Galli della Loggia s’indigna per la durezza delle leggi emanate nel 2014 in Crimea all’indomani dell’occupazione russa per reprimere atti, dichiarazioni e manifestazioni in qualche modo collegati al fenomeno collaborazionista filotedesco: ma “omette” di spiegarci che tali leggi trovano la loro spiegazione (che non è giustificazione) nell’insorgenza verticale dei temi “revisionistici” diffusi appunto in Crimea e nella stessa Ucraina dopo la scomparsa dell’Unione Sovietica. Come ancora accade nei paesi baltici, l’apologia del combattentismo collaborazionista vi era straordinariamente diffusa sino all’ostensione di simboli, decorazioni, uniformi e bandiere del Terzo Reich e dei reparti collaborazionistici tra 1941 e 1945. E non si trattava né si tratta solo di “folklore”: tutto ciò rinvia anche a un problema effettivo, la costruzione di un sentimento nazionalistico che ebbe in quegli anni anche un connotato collaborazionista collegato al sogno della liberazione dal successivo giogo sovietico. Tali sono le radici anche di fenomeni come il “reparto Azov”, la cui esistenza è molto più plausibile sia tollerata in Ucraina di quanto invece la sua notizia è stata accolta nel nostro Occidente antifascista: per esempio in Italia, dove non si tollera Casa Pound mentre s’inventano scusanti ridicole per le formazioni neonaziste ucraine considerate parte integrante delle forze che ci difendono contro il dilagante revanscismo putinista o preteso tale. Ma, se tutto ciò denunzia anche la fragilità e la contraddittorietà di quel nostro antifascismo formale e istituzionale, ci conduce anche – o dovrebbe condurci – a interrogarci sul nostro stesso isterismo antifascista che ci ha condotto a leggi aberranti e a prese di posizione grottesche contro revisionismo, negazionismo e “nostalgismo” nella nostra società: chiedere la chiusura delle sedi di Casa Pound e sottovalutare al tempo stesso la presenza dei neonazisti della Azov in Ucraina è quanto meno grottesco. Per il resto, il pretendere nel parlamento di una repubblica che si dichiara fieramente democratica che un qualche cittadino venga perseguito per “crimine ideologico” non è meno grave che il comminare anni di galera a qualcuno in un sistema politico che i sociologi qualificherebbero prudentemente e semicontraddittoriamente “democrazia autoritaria” (e la gente della strada, forse esagerando, “dittatura”) – e va ricordato che a questo riguardo l’Ucraina di Zelensky non è, al contrario di quanto politici e media sostengono, differente dalla Russia di Putin – non è più grave dello scatenare cacce alle streghe nei confronti di veri o supposti neofascisti nei nostri sistemi che noi consideriamo “democrazie esemplari”.