Domenica 31 luglio 2022, Sant’Ignazio di Loyola
EDITORIALE
UN PO’ DI FERIE, FINALMENTE
Cari Amici, gentili Sostenitori (detesto il termine Followers: e d’altronde credo sia evidente a ciascuno che non sono Chiara Ferragni), simpatici e imprudenti Simpatizzanti, antipatici ma comprensibili Antipatizzanti, illustri Critici, cavallereschi Avversari (un saluto a parte alla Signora che qualche settimana fa ha avuto a definirmi “un perfetto imbecille”: diagnosi straordinariamente chiara ed esatta, con la quale per quanto è in me profondamente concordo).
L’avventura dei “Minima Cardiniana” è cominciata alla fine del 2013 e da allora è proseguita settimanalmente, con pochissime soste. Con una semplice operazione aritmetica, vi renderete conto che le settimane “saltate” sono state finora davvero poche: e nessuna sosta è stata prolungata.
Ma la mia équipe, in questa estate torrida, pandemica e guerriera, è alquanto provata: e anche i miei 81 anni lo sono.
Consentiteci pertanto una sosta lunga un mese. Ci risentiremo e ci rileggeremo, a Dio piacendo, nella domenica 4 settembre 2022, fra cinque settimane esatte. Passeremo quietamente il 15, giorno dell’Assunzione, e il 28, festa del Doctor Gratiae Aurelio Agostino. E ci ritroveremo domenica 4 settembre, festa di Santa Rosalia, grande giorno per la bella Palermo della quale essa è patrona.
È un grande piacere per me salutarVi e augurarVi buona vacanza nel giorno consacrato al mio Ignazio di Loyola, che papa Francesco ha recentissimamente onorato con la sua splendida visita ai native Americans canadesi, così coerente rispetto ai fulgidi modelli del padre Matteo Ricci e dei padri delle reducciones del Guaraní.
In effetti, il pontefice si è mostrato ancora una volta all’altezza della situazione: anzi, superiore a qualunque aspettativa.
Qualche emerita testa di rapa (ma chiedo scusa alle rape, nobilissimi ortaggi: in realtà, se non fossi un signore penserei piuttosto ad altra meno educata ma più idonea definizione) ha trovato ancora una volta da ridire. Si è sostenuto che, così facendo, egli ha rinnegato lo splendido lavoro della Chiesa cattolica che ha portato alla verità tanti popoli fino allora offuscati dal “barbaro paganesimo”. Che i culti precristiani amerindi, con tutta la loro problematica (sacrifici umani compresi) fossero tutt’altro che “barbari paganesimi” ce lo avevano già insegnato “da destra” e “da sinistra”, da Bartolomé de las Casas a René Guénon, da Lévi-Strauss a Todorov. Quanto al padre Ricci e ai – come li avrebbe rievocati il grande Battiato – “gesuiti euclidei vestiti come dei bonzi per entrare a corte degli imperatori della dinastia dei Ming”, speravamo che ormai la sua straordinaria esperienza in Cina e dei “riti malabarici” in India fosse stata a sufficienza rivalutata. Per non parlare delle gesta della Compagnia di Gesù tra Brasile, Argentina e Paraguay, dell’edificazione delle colonie-modello (reducciones) indie, oasi di libertà e di lavoro, della lotta contro di loro organizzata dall’illuminista marchese di Pombal primo ministro di Giuseppe I re del Portogallo interessati entrambi ad appoggiare le razzie dei bandeirantes, cioè dei paulistas che assalivano le colonie indigene per prender prigionieri i loro abitanti e alimentare così il fiorente commercio schiavistico. Le massonerie europee plaudirono al Pombal; così il signor di Voltaire, che sul commercio degli schiavi e i proventi azionistici ch’esso fruttava aveva scommesso forti somme e che, in Candide, avrebbe fornito delle reducciones gesuitiche e delle infamie schiaviste una versione tanto letterariamente felice e fortunata quanto storicamente falsa e infame. Al Voltaire avrebbe ingenuamente (diciamo comunque, appunto, “candidamente”) prestato fede Italo Calvino, scrivendo nel 1957 il suo stralunato e storicamente falsissimo – ma letterariamente incantevole: va detto – Il barone rampante. Ma chi oggi vuol ricostruire decorosamente la vicenda, parta da Il cristianesimo felice del nostro Ludovico Antonio Muratori, e poi magari si riveda con adeguato spirito critico il film Mission di Roland Joffé, vincitore della “Palma d’Oro” al festival di Cannes del 1986.
Quanto al comportamento di papa Francesco nella sua recente visita americana, ho assunto informazioni dirette all’evento in quanto ho lavorato un po’ in Canada e conosco bene almeno la società hurona del Québec. Il papa ha parlato del genocidio di tutti quelli che in America vengono definiti “native Americans”, non dei soli “indocanadesi”; sa bene che il primo grande difensore della nazione indoamericana è stato l’imperatore Carlo V, che nel 1542 ha emesso le “Nuevas Leyes” ispirategli da Bartolomé de las Casas; è un gesuita argentino, la faccenda delle reducciones del Guaranì la conosce benissimo ed è materialmente impossibile che non sia stato informato dall’atteggiamento di huroni, irochesi e mohaws sia al tempo della guerra dei Sette Anni, sia a quello della Rivoluzione dei coloni del New England, assassini di nativi come di supposte streghe e traditori del loro sovrano legittimo.
Il contegno del pontefice è stato irreprensibile; e il diadema di piume d’aquila mediante il quale è stato incoronato è una perfetta corona cosmica, da paragonarsi alla Santa Corona di Enrico II custodita nella Schatzkammer di Vienna e degna quindi del capo della Chiesa universale. Che qualche dettaglio storico possa essergli sfuggito e su qualcun altro possa essere stato mal informato è possibile: ma è del tutto irrilevante dinanzi alla tragedia storica che il genocidio dei native Americans ha comportato e dinanzi al quale risulta vergognoso prima di essere ridicolo qualunque tentativo di minimizzazione. Non è certo la Chiesa responsabile di tutto ciò; ma lo sono alcuni che ad essa appartenevano. Lo spazio poi per ristabilire volta per volta la verità e scagionare con onore chi sia stato ingiustamente accusato è sempre aperto: nel genocidio indoamericano come in ogni altro. Ma è un’altra questione. E l’imputato non è la civiltà cristiana ed europea diffusa oltre gli oceani: è la cultura della rapina, della prevaricazione e dello sfruttamento sostenuta dall’Occidente moderno nei suoi ceti dirigenti e nella sua politica di conquista.
Riflettiamo su ciò. L’Occidente moderno è nato tra XV e XVI secolo sulla base non già di premesse deterministiche e “naturalmente” inevitabili, bensì di scelte precise: scaturito senza dubbio da una radice cristiana, è cresciuto col suo solido tronco individualista caratterizzato dall’emarginazione del cristianesimo (il “processo di secolarizzazione”) e la sua dura Volontà di Potenza sulle basi dell’economia, della finanza e della tecnologia. La storia profonda europea ha resistito, almeno in parte, all’assalto di quelle forze acristiane ed anticristiane, proponendo comunque in alternativa all’individualismo occidentale (quello che porta oggi gli USA a “non poter” rinunziare alla detenzione individuale delle armi da fuoco) le sue risorse solidaristiche e comunitarie. Che Occidente ed Europa si siano andati allontanando reciprocamente sulla linea del contrasto tra individualismo e comunitarismo, tra primato del denaro-profitto-consumo e primato della solidarietà e della reciprocità è oggi sempre più evidente. Siamo dinanzi a un bivio, a due differenti “scelte di civiltà”: che se ne rendano conto, oggi, tutti gli europei che incautamente si definiscono “occidentalisti” e “atlantisti” come se tutto ciò fosse coerente con il dirsi “europeisti”, mentre costituisce nella sostanza profonda una contraddizione e un tradimento. Che poi, sul piano storico, a questa contraddizione e a questo tradimento abbiano contribuito nella storia dell’ultimo mezzo millennio anche molti cristiani e addirittura cattolici, è vero. È nel loro nome, per la salute delle loro anime, che l’innocente Successore di Pietro ha compiuto un pellegrinaggio penitenziale in riparazione di colpe non sue.