Domenica 31 luglio 2022, Sant’Ignazio di Loyola
ASPETTANDO GIORGIA
Riuscirà la nostra eroina, l’esile biondina della Garbatella, ad ascendere al Colle dopo le elezioni del 25 settembre prossimo? È questa l’Ora di Giorgia?
Non c’è dubbio se non altro – e non è poco – che Giorgia Meloni sia la personalità politica di maggiore e più incisivo peso di questo periodo. Non disporrà della (vera o supposta) autorevole esemplarità tecnica di Draghi, non sarà doctor subtilis come Amato, non avrà l’esperienza di Prodi e nemmeno la spregiudicata disinvoltura del “mostro” (?) Renzi, ma certo sotto un certo profilo dà l’impressione di mangiarseli tutti.
Ho molta stima e anche molto affetto personale per Giorgia. So bene – e lo sa anche lei; e sa che lo so – che attualmente a dividerci sono differenze di valutazione politica larghe come l’Atlantico (e il nome di tale oceano non è scelto a caso): dalla politica economica, che mi sembra da una parte troppo liberista dall’altra eccessivamente propensa a firmare il nonsenso (e la piramidale ingiustizia) della flat tax e a finger di prendere sul serio le istanze bassopopuliste dei suoi seguaci, attestati su parole d’ordine come il solito “meno tasse” ai problemi connessi con l’immigrazione, lo ius soli e lo ius scholae, fino alle istanze genericamente “antislamiste” (che dall’antislamismo sembrano giungere all’antislamicità, ch’è altra cosa) e soprattutto al suo sovranismo che confina – checché ne pensi e soprattutto ne dica lei – con l’antieuropeismo di fatto e (limite per me invalicabile, barriera per me inaggirabile) il suo inequivocabile e inammissibile atlantismo, tra l’altro in contraddittoria rotta obiettiva di collisione con il suo conclamato sovranismo.
Eppure, a proposito di tutto ciò la pratica politica – la politica è l’arte del possibile; in politica nulla è assoluto, e impronunziabili sono gli avverbi “sempre” e “mai” – potrebbe anche correggere molte storture e – dal mio punto di vista – ridurre molte distanze. È stata Giorgia Meloni, per prima e sostanzialmente unica, a dichiarare – molto abilmente – che al leader della formazione che risulterà prima quanto a numero di suffragi il 25 settembre spetterà non già il ruolo automatico di premier bensì il suggerire al presidente della repubblica il nome di una personalità da designare quale presidente del consiglio dei ministri. Certo, vista l’intensità cannibalistica e la proterva concordia discors con la quale tutte le formazioni politiche esclusi ovviamente i Fratelli d’Italia si sono avventati contro la sua immagine (con echi che sono giunti fino ai media esteri, e senza dubbio anche su indicazione interna al nostro paese), verrebbe da chiedere chi accetterebbe di coprire il ruolo di presidente del consiglio dietro sua indicazione, col rischio di proporsi come “suo uomo”. Ma già il diaframma interposto fra la funzione di leader e il ruolo di capo di governo rappresenta, da parte sua, un’abile mossa difensiva. E personalmente aggiungerei a tutto ciò – e stavolta a suo merito originale ed esclusivo – l’essere entrata esplicitamente anche se ohimè un po’ troppo superficialmente e senza immediate conseguenze visibili nell’ormai desueta questione dell’unità politica d’Europa sottolineando come il tema del futuro possibile (?) assetto istituzionale di un’Europa politicamente unita non sia adatto a venire risolto secondo la “spinelliana” forma federalistica, distrattamente circondata da unanime consenso come accade per le cose che si ritengono irrilevanti, ma come semmai una più articolata forma confederativa sarebbe adatta alla realtà storica e culturale dell’Europa, l’“arcipelago” caratterizzato da tante diversità che peraltro costituiscono un problema certo, ma anche un’insostituibile ricchezza. Che in fondo il sistema confederale potrebbe assicurare un respiro praticamente più vicino alla soluzione dell’“Europa delle patrie”, più volte avanzata – mai però davvero approfondita – dalle destre, è un fatto. Ma i veri europeisti senza dubbio oggi accetterebbero volentieri un realistico confederalismo piuttosto che un futuro e chissà-quando-chissà-come realizzabile federalismo: tutto, pur di uscire dall’equivoco della non-unita Unione Europea. Altro merito di Giorgia Meloni è quello di aver denunziato in modo forte e responsabile il rischio costituito dalla caduta demografica del nostro paese: problema politico, economico, sociale e morale. Chi ha creduto di poter replicare trincerandosi dietro l’ironica citazione della campagna demografica mussoliniana tra Anni Venti e Anni Trenta, e quindi rispolverando l’accusa stantìa di “nostalgismo”, qui ha commesso una gaffe grottesca. Il problema c’è eccome, e ha una radice morale, quindi culturale, immensa e paurosa.
Resta però – e qui almeno a mio avviso gioca contro di lei – il problema della NATO. Bene, in teoria, la via indicata da Giorgia Meloni: alleanza sì, ma su un piano di assoluta parità sostanziale. Saremo tutti d’accordo, quando essa ci avrà rivelato quali e quante basi militari europee dotate di ordigni nucleari siano dislocate in territorio statunitense e quali e quante di esse siano del tutto libere da una qualunque possibile autorità USA. Fino ad allora, sarà necessaria la consapevolezza che il nostro europeo è un territorio soggetto all’occupazione militare e quindi politica di una potenza straniera, “amica” finché si voglia ma anzitutto e soprattutto padrona. E chi accetta una situazione del genere può dichiararsi sovranista finché vuole, ma è nella pratica un collaborazionista dello straniero e un servo della sua politica. La posizione dei Fratelli d’Italia a proposito della NATO è quella della servile subordinazione: tanto peggio se spontanea e addirittura entusiastica.
Sulle prospettive di Giorgia Meloni e sul “suo” momento, ritengo molto interessante il parere espresso in due distinte e complementari occasioni da uno studioso equilibrato, libero e competente come Marco Tarchi.
DUE INTERVISTE AL POLITOLOGO MARCO TARCHI
“ANCHE MELONI, COME TUTTI I PARTITI ANTI-SISTEMA, AL GOVERNO FARÀ ACCORDI COI POTERI FORTI”
Per il New York Times, con i “neofascisti” al governo, l’Italia rischia un “futuro tetro”. Altre testate hanno messo in guardia sui rischi nel caso di vittoria elettorale di Giorgia Meloni il prossimo 25 settembre. Si discute su come potrebbero cambiare i rapporti dell’Italia con l’Ue, con i mercati finanziari, con la Nato. Ne abbiamo parlato con Marco Tarchi, politologo, professore ordinario di Scienza politica all’Università di Firenze.
Professore, Giorgia Meloni ha commentato gli articoli parlando di macchina del fango. Ma ha un problema di credibilità internazionale?
L’articolo si pone all’interno di una dialettica politico-mediatica ormai abituale, in qualunque contesto democratico. Gli organi di stampa progressisti, largamente maggioritari, attaccano i partiti e i leader del fronte avverso. Quelli conservatori, nel loro piccolo, fanno lo stesso. Chi può più credere alla favola dell’obiettività giornalistica, quando in gioco ci sono questioni che attengono a elezioni e governi? Non c’è nessun complotto, c’è una scelta – peraltro scontata – di editori e redattori del maggiore quotidiano statunitense. Quanto alla credibilità a livello internazionale, il discorso non cambia granché. È ovvio che i governi di centrosinistra faranno, nei prossimi due mesi, filtrare ufficiosamente il loro disappunto per l’ipotesi Meloni a Palazzo Chigi. Quelli di centrodestra si comporteranno diversamente. La scena si è già vista nel 1994, nel 1998 e nel 2001 nei confronti di Alleanza nazionale. Ma alla fine, se sarà sul tavolo, il boccone sarà ingoiato anche da Biden, da Macron, da Scholz e via dicendo. Magari compensando la sconfitta con qualche gesto di freddezza o qualche smorfia nei vari incontri al vertice, almeno nei primi tempi. Ovviamente, i giornali progressisti torneranno periodicamente a punzecchiare questo o quell’esponente di Fratelli d’Italia per il passato missino e a enfatizzare eventuali post “inadeguati” di qualche ingenuo esponente locale del partito che si lasciasse andare a elogi di qualche aspetto del Ventennio. Agli elettori potenziali di Giorgia Meloni tutto questo non fa, e non farà, né caldo né freddo.
Meloni ieri e La Russa oggi, in due interviste, usano toni pacati, danno rassicurazioni sull’atlantismo. Basteranno le loro parole?
Mi sembra difficile immaginare professioni di fedeltà atlantica più calorose di quelle che non da oggi danno i dirigenti di Fratelli d’Italia. L’allineamento ai desiderata di Washington e della Nato non potrebbe essere più assoluto, e il desiderio di acquistare ulteriore credibilità come forza di governo – e forse come guida del medesimo – certamente non spingerà a passi indietro. Che ci possano essere riserve mentali, rispetto a questo atteggiamento, fra i quadri intermedi del partito, e soprattutto fra i suoi elettori, non c’è dubbio: sul ruolo degli Usa in campo internazionale e sull’americanizzazione culturale c’è, nella tradizione missina e post-missina, un forte lascito critico. Ma, come in politica accade a tutti i partiti, se serve per raggiungere gli obiettivi fissati, questo tipo di giudizi si tengono per sé e si ingoia il rospo. Da Machiavelli in poi, l’importanza cruciale dell’ipocrisia – e/o della dissimulazione – in politica è un fatto assodato.
Fratelli d’Italia è stata anche molto chiara e netta sull’invio delle armi in Ucraina. Questa linea è sufficiente ad alleviare i timori degli interlocutori internazionali?
Io credo che molti degli interlocutori internazionali, rispetto alla questione ucraina, dopo il 25 settembre avranno ben altri interrogativi da porsi, e inizieranno a chiedersi – qualora non lo stiano già facendo – se la politica delle forniture d’armi e delle sanzioni alla Russia stia avendo più risultati positivi o più effetti-boomerang. E non escludo che, di fronte alla crescita del disagio sociale che non è difficile prevedere, saranno altri capi di governo, ben prima di una ipotetica Meloni presidente del Consiglio, a suggerire modifiche di rotta.
Alcune prese di posizione – pensiamo alla stima per Orban, ai rapporti con Bannon – non possono essere cancellate. Saranno un ostacolo?
I due casi che cita sono ben diversi. Bannon era ed è un avventuriero, in parte millantatore di crediti, nei cui progetti megalomani e inconsistenti alcuni partiti populisti si sono impigliati, dimostrando prima di tutto ingenuità. Orban è il primo ministro, largamente riconfermato dalle recenti elezioni, di un paese dell’Unione europea. È, e suppongo rimarrebbe nel caso di Meloni a capo del governo italiano, un interlocutore importante e un partner utile a rafforzare, su taluni punti comuni, un fronte di opposizione a talune decisioni dell’Ue che sono in contrasto con le posizioni dei conservatori e dei sovranisti. Sarebbe un grave errore sacrificare questo rapporto in nome del buon vicinato con governi come quello francese, spagnolo (per adesso) o tedesco, che sarebbero sempre pronti a mettere in difficoltà un esecutivo di centrodestra italiano qualora se ne presentasse l’opportunità.
Il discorso di Meloni al raduno di Vox ha fatto il giro del mondo. Ora lei riconosce che rivedrebbe i toni, non i contenuti. E quindi il “no” ai diritti lgbt, all’aborto, al fine vita e il “sì” alla chiusura delle frontiere. Quanto peso hanno esternazioni di questo genere per i nostri interlocutori internazionali, Ue in primis?
Se l’Unione europea continuerà a seguire, come fa da tempo, un’impostazione ideologica che ha nel politicamente corretto progressista il suo punto di riferimento, Meloni dovrà mantenere un’impostazione di forte critica, perché fra i motivi del suo successo il riferimento ai valori conservatori è fondamentale. Nello sbiadire del vecchio spartiacque sinistra/destra, il vero versante di conflitto politico oggi è questo, e se è vero che la sinistra è ormai egemone nel ceto politico-intellettuale, fra le classi popolari l’ostilità verso quel credo che, ad esempio, Ricolfi e Mastrocola hanno fustigato nel loro Manifesto per il libero pensiero – cancel culture, rivendicazioni woke, teoria del genere, esaltazione acritica dell’immigrazione ecc., – è sempre molto forte, se non crescente. Se Fratelli d’Italia rinunciasse a farsi interprete di questo rifiuto – in altre parole, se rinunciasse ad incarnare i valori conservatori contro quelli progressisti – per omologarsi all’establishment, perderebbe in breve buona parte dei consensi che pare abbia guadagnato negli ultimi due anni.
A proposito di Ue, Meloni esultava per una sentenza della Corte costituzionale polacca che sosteneva la primazia del diritto interno su quello europeo. Se diventasse premier, visioni come questa potrebbero compromettere i rapporti tra Roma e Bruxelles?
Se Meloni rinunciasse a contestare le interpretazioni dei trattati che la Commissione europea e le istituzioni ad essa collegate danno – tutte e sempre in linea con l’ideologia progressista – non solo tradirebbe i suoi elettori, ma dimostrerebbe di soffrire di un complesso d’inferiorità e di essere diversa da come ha sempre dichiarato di essere, di fatto, darebbe ragione ai suoi avversari, che sognano di vederla allineata alle scelte della von der Leyen e quindi omologata ai loro desiderata.
Scorrendo tra le dichiarazioni passate di Meloni, ce n’è una contro Goldman Sachs. Alla luce di esternazioni come queste, banche e mercati hanno ragione ad essere preoccupati?
Non credo proprio. I partiti che conquistano consensi con una retorica anti-establishment, non appena riescono (succede di rado, ma succede) a conquistarsi un ruolo di governo cercano di assicurarsi i migliori rapporti possibili con quei “poteri forti” contro cui tanto hanno tuonato e, nell’impossibilità di tagliar loro le unghie, si prodigano in rassicurazioni. In genere, non cambiano i dirigenti di settori-chiave dell’amministrazione, in primis quello economico, perché non hanno soggetti provvisti di adeguate competenze con cui sostituirli, e di conseguenza di politiche economiche alternative non si vede l’ombra. È uno dei loro punti di maggiore debolezza, da sempre, e lo si è già visto, in buona parte, con i vari governi diretti da Berlusconi, malgrado le precedenti dichiarazioni bellicose di esponenti della Lega o della stessa Alleanza nazionale. Stiamo parlando di ipotesi di governi nati dal verdetto delle urne, non da rivoluzioni…
Ricollegandoci alla domanda iniziale, il New York Times immagina un futuro tetro per l’Italia, con Giorgia Meloni premier. Lei, invece, come immagina il futuro del nostro Paese dopo le elezioni?
Non avendo una visione particolarmente rosea – sotto il profilo politico – della situazione italiana presente né di quella del passato più recente, non ho particolare preoccupazione per gli scenari futuri, né particolari aspettative. Forse anche perché, a differenza della grande maggioranza dei miei colleghi, non ho simpatie verso alcun partito, e cerco di limitarmi ad analizzare realisticamente la politica, senza fare sconti a nessuno.
(Intervista di Federica Olivo, Huffington Post, 25 luglio 2022)
“IL RISCHIO ‘NORMALIZZAZIONE’ È ALTO. LA MELONI DEVE AVERE LA FACCIA TOSTA”
Il politologo: “La leader di Fdi è sulla cresta dell’onda, se vuole puntare a Palazzo Chigi lo faccia ora o mai più. Pericolo fascismo? Chi a sinistra evoca spaventapasseri del passato non ha il polso di ciò che serve al Paese”.
Un politologo vecchia maniera. Un analista mai coinvolto nell’effimero mediatico. Marco Tarchi, docente alla facoltà di Scienze politiche di Firenze, studioso del populismo, già considerato ideologo della nuova destra ma ora persuaso che la dicotomia destra-sinistra sia superata, non usa il cellulare, non è presente nei social media, non guarda i talk show. Preserva così il suo sguardo di studioso.
Professore, è iniziata una tra le più anomale campagne elettorali della storia repubblicana. C’è chi la paragona a quella del 1948 quando era in gioco la nostra collocazione internazionale e la scelta tra Dc e Pci. Lei cosa vede nelle urne del 25 settembre?
Nessun esito sconvolgente. I binari delle politiche degli Stati occidentali oggi sono tracciati da istituzioni ed organismi sovranazionali – Unione europea e Nato in primis – e dagli Stati Uniti d’America, e nel contempo condizionati dai grandi poteri economici, quelli che si celano dietro la generica espressione “i mercati”. All’interno di questi confini, i margini di manovra sono stretti. Chiunque vinca un’elezione, prima di tutto cerca di ingraziarsi o rassicurare questi soggetti. Se vincerà il centrodestra, che ha rapporti assai peggiori del centrosinistra con i piani superiori dell’establishment, si normalizzerà immediatamente e, al di là di qualche concessione cosmetica alla retorica, metterà nel cassetto le parole d’ordine della campagna elettorale.
Prima di inoltrarci, che giudizio dà sulla crisi aperta in modo così inusuale?
Se non ci fosse stata la guerra russo-ucraina, la rottura forse ci sarebbe stata prima. La coalizione era troppo eterogenea e nessuno dei suoi componenti voleva arrivare alle elezioni con la corresponsabilità in scelte economiche del governo Draghi, legge finanziaria in primis, che non avrebbero certo riscosso l’entusiasmo popolare.
La campagna elettorale è senza esclusione di colpi. Che cosa la colpisce nella lettura dei giornali e nei dibattiti televisivi?
Da tutto ciò che è politica in tv mi astengo da anni. Mi piange il cuore nel vedere ridotto a simili livelli di banalità e volgarità un campo al cui studio ho dedicato gran parte della mia vita. E in ogni caso, per capire la politica vera non serve ascoltare quello che i suoi esponenti dicono, men che meno quando sono davanti a una platea. Bisogna guardare a quello che fanno.
Quali saranno i temi decisivi per convincere gli italiani?
Quelli più concreti, che toccano il potere d’acquisto, l’inflazione, il carico fiscale, i servizi essenziali, le pensioni, la crescita continua dei flussi migratori, l’insicurezza – che per molti non è una sensazione, ma una realtà.
Le pare di vedere che le forze politiche siano attente a questi temi?
Almeno a parole, sì. Credo che anche chi oggi si dedica all’Ucraina, alla rivoluzione green e alla onnipresente tematica dei diritti – che sposta in secondo piano i lavoratori – presto cambierà registro.
Più di altre, questa campagna si gioca sullo sbarramento all’avversario anziché sui contenuti?
Ho un’età e una memoria che mi consentono di ricordare molte altre campagne impostate su questo spartito: dagli anni Settanta dell’ipotizzato, sperato e temuto sorpasso del Pci sulla Dc, agli anni Novanta, in cui tutto ruotava attorno al pericolo comunista, esorcizzato da Berlusconi, e al ritorno del fascismo paventato dai progressisti. C’è poco di nuovo sotto il sole.
Si sente più forte l’altolà alle destre o lo stop alla sinistra?
Il primo, almeno nei media.
Tornando ai media, si riparla del pericolo fascista. Si legge di nubi nere, di onde nere…
Chi evoca fantasmi, o spaventapasseri, di un passato che – è chiaro a tutti, fuorché a pattuglie sparute di fanatici di opposto segno – non può tornare, dà l’impressione di avere poche idee sul come affrontare e migliorare il presente. Gli ambienti più riflessivi della sinistra lo hanno capito; in altri prevale il richiamo della foresta. Che serve solo a radunare i già convinti.
Stando ai giornali più autorevoli, ai grandi imprenditori, agli analisti di moda, sembra che a Washington e a Bruxelles non abbiano altro pensiero che scongiurare la vittoria di Giorgia Meloni in Italia.
Sicuramente da quelle parti l’ipotesi un po’ di fastidio provoca. Ma sia gli Usa che l’Ue sanno di disporre di strumenti sufficienti a placare le velleità di un eventuale governo Meloni, qualora volesse provare a giocare un ruolo simile a quello dell’Ungheria o della Polonia. E la foga con cui Fratelli d’Italia ha sbandierato il suo atlantismo da febbraio in poi dimostra che le contromisure sono state prese in tempo.
Quanto peserà lo schieramento sulla guerra in Ucraina?
Poco e nulla. Sul tema, chi voleva schierarsi lo ha fatto da tempo.
A leggere certi giornali, adesso sembra che il governo Draghi sia caduto per volere di Matteo Salvini che avrebbe agito per conto del Cremlino.
È curioso, e significativo, come il complottismo, che viene sempre addebitato in esclusiva all’estrema destra, stia diventando, da alcuni anni, il pane quotidiano dei progressisti. Dall’elezione di Donald Trump in poi, il fantasma russo viene evocato ogni volta che un evento politico non va come si sperava. Siamo quasi alla paranoia. Sarebbe interessante sapere se spontanea o organizzata.
La preferenza pacifista degli italiani sarà ascoltata da qualcuno?
I pacifisti veri non credo siano molti. Ben più numerosi sono quelli che temono da una parte gli effetti economici della guerra e dall’altra le conseguenze boomerang delle sanzioni. E su questo ultimo punto i problemi veri esploderanno a elezioni fatte. Di sicuro, è uno dei motivi per cui Mattarella ha voluto affrettare i tempi. Dopo il prossimo “autunno freddo” il livello delle proteste, e della disponibilità al voto di protesta, potrebbe aumentare fortemente.
Cosa pensa dell’aut aut lanciato da Enrico Letta: o noi o la Meloni; accompagnato dalla sottolineatura che si vince con le idee?
È un modo per dire “solo noi e loro siamo di prima categoria; i voti per altre liste sono sprecati”. Un ritornello non troppo originale. Le idee? La politica italiana le diserta da vari decenni.
Perché sconfinano nell’ideologia più che nei fatti?
Di ideologia se ne respira molta, camuffata però con il vocabolario ipocrita dei diritti, in nome dei quali il progressismo ha affermato da decenni, e sta consolidando, la sua egemonia culturale. Non parlo dei soli ceti intellettuali, ma di cultura diffusa, modi di pensare, stili di vita, abitudini. In questo senso, un vero spartiacque ideale ci sarebbe: progressismo contro conservatorismo. Non so però se sarà interpretato seriamente, soprattutto dal centrodestra, dove di infiltrazioni progressiste ce ne sono a iosa. Per esempio in Forza Italia, anche se le recenti scissioni ne hanno un po’ attenuato il peso.
Se vincesse il centrosinistra dovremmo aspettarci ddl Zan, cannabis libera, adozioni per le coppie gay e legge patrimoniale?
I primi tre provvedimenti mi sembrano ipotesi plausibili. La patrimoniale no. A sostenere elettoralmente il Pd sono, come è noto e comprovato dagli studi, le fasce medio-alte, e anche molto alte, della popolazione, che non gradirebbero certamente una simile scelta. Le altre, invece, vanno nella direzione del modello di società che i progressisti vorrebbero imporre e, di fatto, stanno già imponendo, in cui il rifiuto delle identità definite – etniche, sessuali, culturali, nazionali – è l’asse portante. L’obiettivo di fondo è l’omologazione del corpo sociale, salvo che in ambito economico, dove le gerarchie sarebbero preservate. Non differenziandosi, in questo modo, dai conservatori.
Il centrodestra sembra aver imparato la lezione proveniente dalla sconfitta di Verona. Pensa che l’accordo trovato sul criterio di scelta del premier in base al partito che avrà i maggiori consensi e anche di suddivisione dei collegi uninominali reggerà?
Sarebbe stato difficile negare a Fratelli d’Italia una quota maggiore di collegi, che comunque è minore di quella che, sulla base dei sondaggi, gli sarebbe spettata. E ancora più arduo mettersi fin d’ora di traverso a una candidatura al ruolo di Presidente del consiglio a chi guida la formazione di gran lunga maggiore all’interno della coalizione. Ma dietro l’unità di facciata, gelosie e antipatie permangono. Aver concesso ai centristi uno spazio esagerato rispetto al loro esiguo peso elettorale espone a ricatti e fastidi futuri. Uno scenario già visto e di cui prevedo repliche più o meno frequenti.
Giorgia Meloni ha davvero buone possibilità di salire a Palazzo Chigi?
Un dato mi pare certo: o adesso, che è sulla cresta dell’onda, o mai più. O riesce ad uscire dalla trappola, che gli alleati le tenderanno più degli avversari, del “rischio di scarsa legittimazione sulla scena internazionale”, o si preclude occasioni future. Rinunciando, darebbe un segnale di debolezza che mal si concilia con l’immagine aggressiva e intransigente che tanto tiene a darsi.
In caso di vittoria le consiglierebbe di indicare un politico con maggiore esperienza internazionale? Uno come Giulio Tremonti, per esempio?
Si parla molto anche di Guido Crosetto, la cui nomina potrebbe apparire un successo di Giorgia Meloni ma, per ciò che ho appena detto, rischierebbe di essere di fatto un azzoppamento. Nei momenti cruciali, in politica, occorre spregiudicatezza e faccia tosta per riuscire. Quelle doti che Salvini ha dimostrato di non possedere quando si è fatto imporre da Giorgetti e governatori la disastrosa svolta del Papeete.
Questo centrodestra dato per favorito ha le carte giuste per fronteggiare i poteri forti interni e internazionali?
Se non pensasse di averle, farebbe meglio a rinunciare a proclamare grandi cambiamenti in caso di successo e a imbastire sottobanco trattative per riedizioni rivedute e corrette dell’esperienza-Draghi come, mi pare, alcuni suoi esponenti, soprattutto leghisti, che oggi si lamentano della caduta dell’esecutivo tecnico, preferirebbero. Ammesso che non stia già muovendosi in questa direzione – leggo di campagne acquisti di FdI fra manager di alto livello buoni per tutte le stagioni – lo scontro con quei poteri dovrà provare a sostenerlo.
(Intervista di Maurizio Caverzan, La Verità, 30 luglio 2022)
Largamente d’accordo con Tarchi, resto tuttavia inquieto su un punto: l’effettiva fragilità psicoculturale di un paese nel quale nulla o quasi contano le ide serie, ma molto le immagini, le parole, i pregiudizi, i conformismi inveterati. Torno a una mia fantasia spero smentita dia fatti. La Meloni vince e si appresta a salire al Colle. Quella notte, qualcuno traccia con lo spray una svastica sulla parete della Grande Sinagoga di Roma. Mobilitazione dei centri sociali, appelli alti e disperati alla coscienza antifascista, magari cortei con vetrine sfasciate e auto incendiate. Come risponderebbero il governo, i partiti, l’opinione pubblica inclusa magari quella “moderata”? E lei accetterebbe di fungere, sia pure senza sua responsabilità, da pietra dello scandalo? Come resisterebbe alle accuse di chi griderebbe che la sua vittoria sta spingendo il paese sull’orlo di una guerra civile, per grottesca che possa sembrare una voce del genere? Quale sarebbe una sconfitta peggiore della democrazia, una repressione dura nel nome del responso delle urne o il cedimento delle istituzioni (e dei politici interessati) dinanzi alla “piazza”, magari a sua volta obiettivamente molto minoritaria rispetto al paese reale? Siamo sicuri che da qualche parte qualcuno non stia già preparando uno scenario del genere, nell’ipotesi che l’occasione si presenti?
E adesso siamo noi a proporre un mutato scenario. Dopo le attente osservazioni di Tarchi, diamo spazio al malumore e all’invincibile ostilità dell’estensore di una “lettera aperta” a Giorgia Meloni della quale – lo dico subito – condivido alcune osservazioni, non però il tono astioso e violento. D’altronde, il contenuto di questa missiva potrebbe servire a tranquillizzare paradossalmente qualcuno, finora convinto che con Giorgia a Palazzo Chigi possa in qualche modo riaffiorarsi (chissà dove, chissà come…) un nuovo “pericolo fascista”. Augusto Sinagra, autorevole studioso e mio vecchio amico, dà qui voce alle istanze di un “fascismo” plausibile, lontanissimo però dalla realtà italiana ed europea: e sottolinea quanto Giorgia Meloni ne sia lontana. Qui, intendiamoci, non v’è traccia di “apologia di fascismo”: Sinagra riapre semmai la mai esaurita questione di una visione storica del fascismo scevra da presupposti sia apologetici, sia demonizzanti. Un testo duro, difficile, a tratti sgradevole, ma animato da un’intima coerenza. Sinagra è un oppositore minoritario e isolato d’una Meloni oggi leader autorevole, domani magari signora della vita politica italiana: la sua voce non può essere sottovalutata, pesi quel che può pesare nella realtà effettiva.
AUGUSTO SINAGRA
LETTERA APERTA ALL’ON. GIORGIA MELONI
Egregia Signora, non essendo né un supponente né un saccente, mi lasci dire che mai avrei pensato di darle la confidenza di rivolgerle pubblicamente alcune considerazioni riguardanti il suo ruolo.
Parto dall’ultima notizia: lei sta facendo cancellare dai social tutte le sue esternazioni a favore dei sieri genici che hanno provocato sofferenze e morte. Di questo lei era ed è consapevole. Così pure sono scomparsi i suoi post di sostegno all’infame green pass.
Ovviamente, lei ha dato queste disposizioni in vista delle prossime consultazioni politiche per poter continuare a gabellare gli elettori e acquisire voti. Già questo dà la misura della sua consistenza etica e politica. Ma è da tempo che lei fa politica con l’inganno.
Lei è la stessa persona che è corsa ad inserirsi nell’Aspen Institute che è la fogna del peggiore globalismo e della peggiore finanza internazionale speculativa. Non ha esitato ad assumere la presidenza, nel Parlamento europeo, del Partito dei Conservatori.
Ogni suo atteggiamento, condotta, azione politica, posizionamento partitico è stato sempre funzionale ai suoi personali interessi anche a livello familiare, facendo eleggere Deputato pure suo cognato.
Io la conosco da tempo e lei lo sa, e mi ricordo le sue dichiarazioni di fedeltà alle idee fasciste, i suoi sgambettanti saluti romani, i suoi scimmiottamenti di quella che possiamo definire la liturgia fascista. Questo ai tempi del Fronte della Gioventù.
Si possono conservare le idee anche partecipando ad altre formazioni partitiche non rappresentative di quelle idee ma lei ha fatto di più e ha superato ogni misura pur di acquisire consensi e appoggi per la sua carriera politica perché, egregia Signora Meloni, è così che lei intende la politica e cioè come strumento attraverso il quale fare “carriera”.
Lei oggi aspira legittimamente, come chiunque altro, alla Presidenza del Consiglio dei Ministri ma se dovesse conseguire anche questo risultato di “carriera”, questo avverrà all’esito di un lungo percorso lastricato di opportunismo, contraddittorietà, tradimenti politici e ideali.
E anche abiure: lei è la stessa persona che dichiarò pubblicamente di non volere fascisti nel suo Partito. Ne sia assolutamente sicura: i fascisti veri se ne tengono alla larga perché sono ben consapevoli che il pericolo viene da destra e il nemico è la borghesia parassitaria. E lei interpreta perfettamente la peggiore destra e la peggiore borghesia.
Sono consapevole che accreditandola ora come una antifascista, contribuisco alla sua “carriera” politica. Non mi aspetto un ringraziamento, ma dovrebbe farlo sempre per il suo innato senso dell’opportunismo.
Lei è la stessa persona che votò la fiducia al governo Monti, che votò l’infame legge Fornero, il pareggio di bilancio inserito addirittura nel testo costituzionale. Non votò il “fiscal compact” solo perché, come lei ebbe a dire, quel giorno non era in Parlamento. Forse attendeva ad altri impegni per lei più convenienti.
Poi abbiamo avuto la pantomima della finta opposizione al governo di Mario Draghi che ha tormentato il Popolo italiano anche per merito suo e del suo Partito che abusivamente porta il nome creato da Goffredo Mameli.
Lei si dichiara “atlantista”, sostenitrice fedele della NATO e favorevole all’invio di armi e Soldati italiani in Ucraina. Capisco che per la sua “carriera” ha bisogno dell’appoggio del deep State USA che ha insanguinato e insanguina il mondo ma, accecata dalle sue ambizioni, ha perso il senso dell’etica politica e della cura degli interessi nazionali.
La strada che lei percorre è anche intrisa di sangue.
Lei è tra i personaggi politici che più si sono impegnati negli ultimi due anni e mezzo, attraverso lo strumento della asserita epidemia, a devastare non solo l’economia e la politica intesa in senso alto, ma soprattutto a devastare le coscienze dei cittadini.
Non ho e non ho mai coltivato aspirazioni elettorali ed è con riguardo a questo mio personale posizionamento apparentemente solitario (ma non è così perché di Camerati veri e di Cittadini onesti ce ne sono molti di più di quanto lei immagini) e questo mi dà “titolo” per marcare, per mia fortuna, le differenze fra me e lei.
Io ho sempre vissuto del mio lavoro, come molti altri. Lei non può dire lo stesso perché lei non ha mai lavorato e non conosce la fatica e la gioia del lavoro.
Io non ho mai tradito le mie idee, lei lo ha fatto già da tempo e continua a farlo.
Mediti sulle parole dell’Autore dei “Canti pisani”: “Se uno non è capace di sostenere le proprie idee, o non valgono niente le idee o non vale niente lui”.
Lei ovviamente non avrà il mio voto ma stia pur tranquilla che da tanti e tanti altri non avrà sostegno elettorale poiché tra le tante altre cose ce n’è una in particolare che lei e i suoi palafrenieri non avete capito: gli Italiani non sono stupidi.
In chiusura di una lettera, dovrei rivolgerle i saluti ma non lo faccio. Non sono un ipocrita.
Questa è una testimonianza che sento di non condividere nell’insieme, ma nemmeno di censurare arbitrariamente. Anche su questo tema è aperto il dibattito: ci risentiremo quando ormai la campagna elettorale sarà entrata nel vivo, e forse anche su ciò altre voci vorranno aggiungersi pro o contro quella, critica se non condannatoria, di Sinagra.