Minima Cardiniana 390/1

Domenica 4 settembre 2022, San Mosè Profeta

IN MEMORIAM
MICHAIL GORBACIOV (1931-2022)
Chi scrive non è sicuramente la persona più adatta per ricordare uno dei grandi protagonisti di un secolo talmente breve – il Novecento – da non essere ancora terminato. Tante le parole che hanno accompagnato la scomparsa dell’ultimo segretario generale del Partito Comunista dell’Unione Sovietica (dal 1985 al 1991), avvenuta lo scorso 30 agosto, all’età di 91 anni. Infiniti i saggi, gli articoli e gli scritti a lui dedicati, nella consapevolezza che altrettanti ne seguiranno. Sì, perché gli anni che lo videro al timone dell’Unione Sovietica – in rotta verso l’ultima Thule – sono stati determinanti per gli equilibri geopolitici dell’intero pianeta: un terremoto, la dissoluzione dell’Urss, le cui scosse telluriche di assestamento minano ancora oggi le leggi di gravità di un mondo unipolare che sta implodendo su se stesso, confutando inesorabilmente quella fine della storia prematuramente preconizzata da Francis Fukuyama, il cui protagonista principale avrebbe potuto essere, appunto, Michail Gorbaciov.
Ho vissuto la seconda metà degli anni ottanta ancora adolescente, quando perestrojka e glasnost divennero i primi vocaboli in lingua russa dei quali imparammo il significato. Ci piaceva, quel tipo simpatico dall’aria bonaria e la voglia sulla fronte che, a detta di tutti i media mainstream – sì, esistevano già, anche se il livello di (dis)informazione non era neanche lontanamente paragonabile a quello di adesso – stava rivoluzionando, modernizzando e “liberando”, oltre alla Russia, i paesi “satelliti”, tanto da diventare un’icona pop celebrata da riviste, film e canzoni dell’epoca. Per noi, giovani di allora nel bel mezzo dell’ultimo decennio che prometteva promesse, Gorbaciov diventò l’eroe che affrancava dalla schiavitù e dalla dittatura l’altra metà del mondo, della quale poco conoscevamo ma che, imbevuti di americanismo e soft power a stelle e strisce, ci sembrava “la parte sbagliata”. L’alba, ci raccontavano gli adulti, di quello che non era riuscito alla primavera di Praga circa venti anni prima.
I tempi sembravano maturi. Le istanze di libertà e la volontà di emanciparsi dalle catene delle privazioni pressavano, da Occidente, un Muro che aveva bisogno della spallata decisiva, definitiva. Che arrivò, forse un po’ in anticipo rispetto all’orologio della Storia, nell’autunno del 1989. Da quel momento, il revanscismo delle repubbliche che gravitavano nell’orbita di Mosca fece sì che in poco più di due anni si compisse definitivamente “la più grande catastrofe geopolitica del XX secolo”, ovvero il crollo dell’Urss, come l’ha definita (forse pensando male ma azzeccandoci) un certo Vladimir Putin. Sì, perché ancora ci domandiamo se quella di Gorbaciov fu vera gloria, visto che i posteri, almeno per ora, l’ardua sentenza non l’hanno ancora emessa e continuano a dividersi. Certo, nessuno è profeta in patria, ma i russi, se non lo amano e non lo hanno mai amato, hanno ragioni da vendere. L’inizio delle privatizzazioni (selvagge) e il cambio repentino che vide il libero mercato imporsi velocemente rispetto a un’economia di stampo socialista portò la Russia, nel giro di un lustro, alla fame e alla miseria, un disastro ben alimentato dal suo successore Boris Eltsin, che sembrò, già allora, un funzionario di Washington. Gioì, invece, l’Occidente tutto declinato in chiave ameuropea, deciso a colonizzare i nuovi mercati e a esportare democrazie in chiave unipolare. Perché – ormai possiamo dirlo – il “Muro” non divideva semplicemente il mondo in due sfere di influenza. No. Rappresentava l’ultima resistenza alla globalizzazione e, di conseguenza, alla modernità individualista e autodistruttiva che ormai, anche grazie a una tecnologia sempre più “invasiva”, sembra non incontrare più alcun ostacolo sul cammino della sua definitiva “consacrazione”. Tra i calcinacci del Muro rimasero imprigionate molte delle tutele essenziali che pure nell’Occidente “liberale” riuscivano a resistere, ma che da allora cominciarono il loro processo di mercificazione. La grande crisi e il degrado imperante in cui è invischiata la “Vecchia Europa” al soldo dello zio Sam è iniziata proprio in quegli anni.
Forse Gorbaciov credeva – le “promesse” sono moltissime e documentate – che la “sua” Russia potesse dialogare “alla pari” con l’interlocutore d’oltreoceano nella prospettiva di un percorso di pace e di sviluppo “comunitario”. Degne di nota furono le sue iniziative per il compimento del processo di denuclearizzazione e disarmo delle due superpotenze – gli valsero il Nobel per la Pace nel 1990 –, in seguito, purtroppo, disatteso (ma non dalla Russia). Si sbagliava. Per compiere il “primo passo”, ovvero “favorire” il crollo del Muro e la riunificazione della Germania, a Gorbaciov servivano garanzie. Ovvero, che la Nato non si espandesse e non si spingesse fino ai confini russi. “Not one inch eastward”, dichiarò l’allora Segretario di Stato americano James Baker, il 9 febbraio 1990, durante il suo incontro con Gorbaciov. Abbiamo visto, negli ultimi trent’anni, come sono andate le cose. Quello che ha descritto molto bene l’ultimo presidente dell’Unione Sovietica in un’intervista del 6 maggio 2008 pubblicata dal Telegraph: “Gli americani ci promisero che la Nato non sarebbe mai andata oltre i confini della Germania dopo la sua riunificazione, ma ora che metà dell’Europa centrale e orientale ne sono membri, mi domando cos’è stato delle garanzie che ci erano state accordate. La loro slealtà è un fattore molto pericoloso per un futuro di pace perché ha dimostrato al popolo russo che di loro non ci si può fidare”.
Un protagonista, una vittima della Storia o entrambe le cose?
David Nieri