Domenica 4 settembre 2022, San Mosè Profeta
QUELL’APPELLO DI TOGLIATTI DIMENTICATO PERCHÉ TROPPO SCOMODO
Pubblichiamo, qui di seguito, un articolo dell’economista neoliberista e monetarista Antonio Martino, già ministro nei governi di Berlusconi. L’articolo – che Martino siglò, a suo tempo, con il probabile intento di sostenere la tesi per cui i “totalitarismi” rossi e neri sono alleati contro il comune nemico liberale ed occidentale – ricostruisce, con dovizia di particolari storici degni di nota, un evento dimenticato, perché troppo scomodo, dalla sinistra nel dopoguerra ma anche imbarazzante per la destra neofascista, missina, in salsa conservatrice: l’appello “ai fratelli in camicia nera” che Palmiro Togliatti pubblicò nel 1936 sulla rivista parigina “Lo Stato operaio” facente capo all’ambiente degli esuli comunisti italiani. In quell’appello veniva invocato ed auspicato l’incontro tra comunisti e fascisti di sinistra sulla base del “programma di San Sepolcro” ovvero il manifesto programmatico del primo fascismo diciannovista ancora fortemente posizionato a sinistra, tanto che Emilio Gentile (Quando Mussolini non era il duce, Milano, 2020) non ha esitato a definirlo una forza politica legata alla tradizione riformista della sinistra nazionale, socialista, democratica, mazziniana, sindacalista.
I punti salienti di quel programma sarebbero stati ripresi nel Manifesto di Verona del 1943, durante l’esperienza della Repubblica Sociale Italiana e della socializzazione delle imprese. Nell’appello togliattiano possono intravvedersi due finalità. Da un lato la strategia “entrista” del Pci nel momento del massimo consenso di popolo che il regime fascista si era conquistato tra le masse. Dall’altro il ripensamento ideologico di Togliatti, anche sulla scorta delle riflessioni di Antonio Gramsci, sull’importanza della nazione quale fattore di coesione politica e sociale del popolo, e non del solo proletariato, allo scopo di realizzare il socialismo. Il togliattiano fascismo “regime reazionario di massa”, al di là del tributo retorico, ossia l’aggettivo “reazionario”, pagato all’ideologia marxista, sintetizzava concettualmente la natura di un regime inteso alla “nazionalizzazione” delle masse quale presupposto per la loro “socializzazione”. In altri termini, Togliatti intuì che l’unico luogo possibile del socialismo è la concretezza della nazione, non l’astrazione cosmopolita dell’umanità. Il ripensamento di Togliatti giungeva, con vent’anni di ritardo, alle stesse conclusioni alle quali era arrivato Mussolini, socialista e direttore de L’Avanti, sin dal 1914, ovvero quando la prima guerra mondiale dimostrò tutta l’inconsistenza della Seconda Internazionale. Togliatti avrebbe ripreso il filo di quella sua rielaborazione nazionale del socialismo nel dopoguerra, allorché tentò, anche per attirare nelle fila comuniste (con un certo parziale successo) i reduci di Salò, ossia quei fascisti di sinistra cui nel 1936 aveva rivolto il proprio appello, l’elaborazione di una via italiana ossia “nazionale” al socialismo.
Il 1936 fu l’anno del massimo consenso al regime fascista. In quello stesso anno – dopo aver già dato alle stampe tre anni prima, in un clima epocale sempre più autarchico, “Autosufficienza nazionale” – John Maynard Keynes pubblicava la sua “Teoria generale dell’occupazione, dell’interesse e della moneta”, opera che cambiò per sempre la scienza economica dimostrando il necessario ruolo dello Stato nell’economia moderna. Una coincidenza significativa perché spiega quali dinamiche culturali erano in atto in tutto il mondo occidentale nel tentativo, amplificato dalle conseguenze del Crack di Wall Street del 1929, di superare il vecchio liberismo ottocentesco. Nel 1936 il regime fascista raggiunse l’apice del suo successo e del consenso di massa non solo per la vittoriosa conquista militare dell’Etiopia, ma anche per la politica di modernizzazione sociale ed economica del Paese che esso praticava ormai in modo sempre più deciso. Se, senza dubbio, la conquista dell’Etiopia costituì in sé una ingiusta guerra di aggressione (nella quale furono usati da parte italiana anche i gas), essa tuttavia venne vissuta, non a torto, dalle masse, grate al regime, come il trionfo nazionale dell’“Italia proletaria” sulle due maggiori potenze capitaliste coloniali, Francia ed Inghilterra, le quali, mentre opprimevano e sfruttavano tre interi continenti, volevano negare al nostro Paese un “posto al sole” ergendosi, nell’ambito della Società delle Nazioni, a difesa dell’Etiopia invasa. La “vendetta di Adua” (nel 1896 in detta località etiope l’esercito italiano fu sconfitto da Menelik imperatore d’Etiopia) e il “risorgere dell’Impero sui sette colli di Roma” galvanizzarono il popolo italiano che tributò a Mussolini ed al fascismo un plauso plebiscitario mai così unanime fino a quel momento. Persino antifascisti come Benedetto Croce applaudirono al successo dell’impresa africana.
Il successo raggiunto nel 1936, tuttavia, era soltanto il punto apicale, di massima intensità, del percorso politico del regime avviatosi con la svolta conseguente alla crisi mondiale del 1929. Infatti, negli anni ’30 il regime passò dalla precedente, ed iniziale, politica “liberista” di risanamento deflattivo (la famosa “quota 90”) alla nuova politica dirigista, più consona con la sua ideologia corporativista, impiantando le basi dello Stato imprenditore e del Welfare che la Repubblica antifascista avrebbe ereditato, persino in Costituzione, e poi ulteriormente sviluppato. L’esperimento sindacale e corporativo in atto, durante gli anni ’30, in Italia ebbe le più notevoli attenzioni, sia culturali, sia politiche. Da quella di un Pio XI, che lo apprezzò criticamente nella Quadragesimo Anno (1931), a quella Emmanuel Mounier, che partecipò nel 1935 ad uno dei congressi di studi corporativi che il ministro intellettuale Giuseppe Bottai organizzava periodicamente, fino a Gilbert Keith Chesterton, Thomas Stearns Eliot, George Bernard Shaw, Ezra Pound e molti altri famosi intellettuali dell’epoca. Contemporaneamente nascevano in tutt’Europa, ma anche in Asia e in Sud America, movimenti che a titolo più o meno legittimo, più o meno genuino, si ispiravano al modello italiano. Negli stessi anni, il Presidente statunitense Franklin Delano Roosevelt non nascondeva la sua ammirazione per il dirigismo corporativo italiano ed inviava i tecnici del “New Deal” americano a studiare in Italia la politica interventista fascista. Ovunque, anche nelle più prestigiose università del mondo, si studiava con attenzione l’esperimento di “terza via” inaugurato dal fascismo italiano.
Inaugurato ma in quel momento non ancora portato a termine perché, in quegli anni ’30, era ancora in fieri. “Nelle more di sviluppo dell’idea” come più tardi disse Giovanni Gentile rivolto ai comunisti. Infatti il terzo decennio del XX secolo fu quello nel quale si registrò, come scrive Renzo De Felice, la comparsa di un “secondo fascismo”, molto radicato soprattutto nelle organizzazioni giovanili di massa del regime e presso l’intellettualità più rivoluzionaria. Questo “nuovo fascismo”, giovanile ed intellettuale, lamentava l’incompiutezza dell’esperimento corporativo, ancora troppo ipotecato dal freno dei fiancheggiatori di destra. Questi ultimi avevano opportunisticamente appoggiato il fascismo nel 1922 ma ne temevano la natura socialista benché non marxista. Questo secondo fascismo, che poi altro non era che il riemergere del primo fascismo diciannovista mai del tutto sopito durante la fase dei compromessi conservatori per la conquista del potere, spingeva per la radicalizzazione in senso anticapitalista del corporativismo e del sindacalismo del regime. Fino a mettere in discussione, con il gentiliano di sinistra Ugo Spirito, la proprietà privata attraverso la tesi della “corporazione proprietaria” – discussa, con l’avvallo di Mussolini, benché criticata dai sindacalisti della sinistra fascista, nel convegno di studi di Ferrara organizzato nel 1932 dal solito Bottai – ossia una sorta di corporativismo comunista o di “comunismo idealista”, che più tardi il suo maestro Giovanni Gentile, nell’ultima opera del 1943 (pubblicata postuma nel 1946), Genesi e struttura della società, avrebbe fatto suo. Nello stesso periodo molti cattolici, dallo storico dell’economia Amintore Fanfani al filosofo del diritto Aldo Moro, non escluso lo stesso Alcide De Gasperi esule in Vaticano, guardavano con critica attenzione all’esperimento del regime che, oltretutto, aveva fatto suo, benché in modo troppo statalistico, il corporativismo democratico dell’insegnamento sociale della Chiesa.
Insomma, questo è il quadro storico nel quale va inserito e letto l’appello del 1936 di Palmiro Togliatti ai fascisti veri, quelli di sinistra, con la duplice intenzione, entrista e di ripensamento ideologico, sopra già accennata. Quindi deve ritenersi del tutto infondata la tesi liberale, probabilmente sposata da Antonio Martino nell’articolo che proponiamo, della convergenza dei due “cattivi” totalitarismi all’insegna del “rosso-brunismo” nemico – sottinteso: anche oggi! – della civiltà occidentale e moderna. Il fatto che Stati assolutamente democratici come gli stessi Stati Uniti d’America, ma anche Francia ed Inghilterra, ammirassero le realizzazioni sociali in corso in Italia, e le imitassero pur in uno scenario democratico, smonta la tesi dell’inevitabilità totalitaria di quello che invece fu, nelle date circostanze dell’epoca, un tentativo di attuazione della filosofia sociale organicista. Una filosofia certamente opposta all’individualismo liberale ma del tutto declinabile secondo un personalismo comunitario tradizionale non refrattario alla “democrazia organica”, che risale all’alba dei tempi e che fu la linea ideale alla quale si ispirarono Platone, Aristotele, Tommaso d’Aquino e la stessa Chiesa la quale si è sempre definita, non a caso, “Corpo Mistico di Cristo”.
Nel 1936, l’anno dell’appello di Togliatti, Mussolini ed il fascismo erano all’apice del successo. Come spesso accade proprio nel momento del massimo successo ha inizio la discesa e la rovina. Mussolini, ebbro dell’idolatria delle masse (Bottai, il quale voleva convincerlo a liberalizzare il regime ormai consolidato dal consenso, scrisse nel suo Diario di non riconoscere più l’uomo ed il capo che aveva seguito ed amato perché al suo posto vi era una “statua”), non si rese conto che avrebbe dovuto giocare una ben diversa partita europea ed internazionale, avendone in quel momento tutte le possibilità dato che a passare le carte era solo lui. Certamente a sua parziale giustificazione va osservato che non è facile comprendere gli eventi mentre essi sono in corso e tuttavia, dopo il 1936, Mussolini iniziò a perdere il suo “fiuto politico” proprio perché si sentì troppo sicuro di sé sull’onda del consenso ottenuto. La cecità di Francia ed Inghilterra, nell’affare della guerra etiopica e delle relative sanzioni, lo spinsero a denunciare le alleanze ereditate dal primo conflitto mondiale per gettarsi nelle braccia del mai amato, ed anzi privatamente sempre disprezzato, Adolf Hitler (nel 1934, dopo l’assassino per mano nazista del cancelliere austriaco cattolico-nazionale Engelbert Dollfuss, suo alleato nonché amico personale, Mussolini aveva inviato quattro divisioni al Brennero per difendere Vienna dall’aggressività di Berlino). Hitler, da parte sua, al contrario di Londra e Parigi, aveva sostenuto la politica coloniale fascista e le pretese italiane in Africa. Non si rese conto, Mussolini, che si stava mettendo sulla strada di una sostanziale subordinazione al più forte ed ingombrante alleato tedesco, disposto per questo persino a pagare il triste prezzo delle leggi razziali. Queste ultime costituirono una infame pugnalata alle spalle dei tantissimi fascisti ebrei o di origine ebraica che avevano ingrossato i ranghi del movimento fascista sin dagli inizi. Chi cercò di metterlo sull’avviso – Gabriele D’Annunzio, Italo Balbo, Giuseppe Bottai, Dino Grandi, Galeazzo Ciano suo genero – non fu ascoltato.
Mussolini, nell’anno dell’appello di Togliatti ai “fratelli in camicia nera”, era il più importante e apprezzato statista europeo e, forse, mondiale. Poteva per davvero trasformare l’Europa in senso anticapitalista nel solco della terza via italiana. Nel giro di un decennio si ridusse a fare la comparsa, di secondo piano, nel disegno politico di egemonia teutonica di Hitler sull’Europa. La cui sconfitta consegnò il nostro continente al dominio, ancora perdurante, degli Stati Uniti d’America, dietro l’ombrello della Nato.
Luigi Copertino
ANTONIO MARTINO
COMPAGNI E CAMERATI: L’APPELLO DI TOGLIATTI DEL 1936
Nell’immaginario collettivo, fascismo e comunismo occupano due posizioni opposte e inconciliabili. Eppure, ancora una volta, la storia sorprende i luoghi comuni con la forza dei documenti: è il caso dell’appello comunista del 1936 ai “fratelli in camicia nera”.
Nell’agosto del 1936 Mussolini poteva definirsi soddisfatto del proprio lavoro, dopo un anno veramente decisivo: da meno di due mesi, grazie alla conquista dell’Etiopia, aveva proclamato l’Impero, suscitando enorme entusiasmo nel popolo italiano, sinceramente convinto della bontà dell’impresa africana. La guerra, lungi dall’essere una semplice passeggiata in colonia, aveva finalmente vendicato l’onta sanguinosa di Adua del 1896 e dato agli italiani quel posto al sole a lungo agognato. Il consenso nei confronti del regime raggiunse il punto più alto, tanto che Italo Balbo, quadrumviro e trasvolatore oceanico, suggeriva addirittura al duce di indire libere elezioni il cui esito avrebbe legittimato la dittatura, mentre i gerarchi più intransigenti, come Roberto Farinacci, auspicavano di sfruttare il favore popolare per eliminare definitivamente la monarchia. Mussolini permetteva tali dicerie, forte del prestigio internazionale guadagnato in seguito all’esito trionfale di un conflitto che aveva visto l’Italia protagonista dello scenario mondiale, colpita dalle sanzioni economiche e decisa a imboccare il cammino autarchico e totalitario.
In questo scenario, gli antifascisti si maceravano nell’inedia: intellettuali e politici dissidenti, come Croce, Orlando, Albertini, Labriola, abbagliati dall’apparizione fatale dell’Impero, abbandonarono anni di lotte plaudendo, più o meno sinceramente, al fondatore dell’Impero. L’antifascismo militante, dopo aver sperato nel crollo del regime durante le fasi più incerte della guerra, viveva ora una delle ore più tragiche: era impossibilitato a operare in Italia e completamente inerme all’estero. Fallita l’esperienza dello scontro frontale con il fascismo, i comunisti decisero allora di elaborare una nuova strategia, basata sull’affinità che il movimento marxista poteva rintracciare con il programma sansepolcrista del 1919: si cercava un’inedita alleanza tra camerati e compagni per combattere insieme la borghesia e il capitalismo nazionale. Questo tentativo d’accordo, opportunamente taciuto e coperto nel dopoguerra dal PCI, verrà sostenuto da un documento programmatico, “L’appello ai fratelli in camicia nera”, di cui riportiamo uno stralcio:
“[…] La causa dei nostri mali e delle nostre miserie è nel fatto che l’Italia è dominata da un pugno di grandi capitalisti, parassiti del lavoro della Nazione, i quali non indietreggiano di fronte all’affamamento del popolo, pur di assicurarsi sempre più alti guadagni, e spingono il paese alla guerra, per estendere il campo delle loro speculazioni ed aumentare i loro profitti. Questo pugno di grandi capitalisti parassiti hanno fatto affari d’oro con la guerra abissina; ma adesso cacciano gli operai dalle fabbriche, vogliono far pagare al popolo italiano le spese della guerra e della colonizzazione, e minacciano di trascinarci in una guerra più grande. Solo la unione fraterna del popolo italiano, raggiunta attraverso alla riconciliazione tra fascisti e non fascisti, potrà abbattere la potenza dei pescicani nel nostro paese e potrà strappare le promesse che per molti anni sono state fatte alle masse popolari e che non sono state mantenute. (…) I comunisti fanno proprio il programma fascista del 1919, che è un programma di pace, di libertà, di difesa degli interessi dei lavoratori […] FASCISTI DELLA VECCHIA GUARDIA! GIOVANI FASCISTI! Noi proclamiamo che siamo disposti a combattere assieme a voi. LAVORATORE FASCISTA, noi ti diamo la mano perché con te vogliamo costruire l’Italia del lavoro e della pace, e ti diamo la mano perché noi siamo, come te, figli del popolo, siamo tuoi fratelli, abbiamo gli stessi interessi e gli stessi nemici, ti diamo la mano perché l’ora che viviamo è grave, e se non ci uniamo subito saremo trascinati tutti nella rovina […] ti diamo una mano perché vogliamo farla finita con la fame e con l’oppressione. È l’ora di prendere il manganello contro i capitalisti che ci hanno divisi, perché ci restituiscano quanto ci hanno tolto […]”.
Il testo fu firmato da oltre sessanta dirigenti del PCdI, tra cui Palmiro Togliatti, e si richiama al noto programma dei Fasci di Combattimento del 23 marzo del 1919, elaborato da Mussolini insieme a sindacalisti rivoluzionari, socialisti interventisti, anarchici, futuristi. L’appello dei comunisti cercava di risolvere idealmente la dolorosa spaccatura che, nell’ottobre del 1914, l’uscita di Benito Mussolini dal Partito Socialista aveva provocato nel mondo della sinistra italiana, unendo finalmente gli italiani in un unico blocco proletario opposto al grande capitale e alla borghesia.
Togliatti, come già Antonio Gramsci nel 1926, aveva intuito che il fascismo mussoliniano non era solo reazione capitalistica: la rivoluzione delle camicie nere era legittimata da una base sociale, essenzialmente proletaria e piccolo borghese, che metteva in discussione le fondamenta stesse dell’ordine sociale ed economico, rivendicando il ruolo dello Stato, tramite il sistema corporativo, nell’economia e nei rapporti sociali. Per questo, i “fratelli in camicia nera” potevano rappresentare una sponda possibile per il processo rivoluzionario.
L’utopia comunista dell’agosto 1936, seppur animata da una necessaria dose di opportunismo politico, non era del tutto campata in aria. Gli anni successivi all’Impero saranno caratterizzati dal terzo tempo dell’azione mussoliniana: il periodo 1937-1943 sarà caratterizzato da un susseguirsi di attacchi alla borghesia, al capitalismo italiano, mentre si diffonderà sempre più l’esigenza di andare verso e per il popolo, fino ai provvedimenti relativi alla socializzazione delle imprese nella Repubblica Sociale Italiana.
Fonte www.lintellettualedissidente.it e https://versoilfuturo.org/compagni-e-camerati-lappello-di-togliatti-del-1936