Minima Cardiniana 390/7

Domenica 4 settembre 2022, San Mosè Profeta

LA DISSIDENZA DI FRANCESCO BENOZZO
GREEN PASS: “SE NECESSARIO A OTTOBRE LASCERÒ PER SEMPRE L’UNIVERSITÀ”
Il professore universitario modenese Francesco Benozzo, per mesi sospeso dal lavoro per la propria disobbedienza civile nei confronti della normativa relativa al Green Pass, è sicuro del ritorno del certificato verde e si dice pronto a iniziative drastiche per contrastarla.
Benozzo è professore di Filologia e Linguistica all’Università di Bologna, coordina il dottorato in Studi Letterari e Culturali, dirige tre riviste scientifiche internazionali ed è il responsabile di numerosi centri e gruppi di ricerca inter-universitari. Poeta e musicista di fama internazionale, Benozzo è stabilmente candidato al Premio Nobel per la Letteratura dal 2015, con candidature che sono state rese pubbliche dal Pen International.

Professore, lei ha sempre sostenuto che da settembre tornerà in vigore il Green Pass. La pensa ancora così?
La penso così ancora di più. Ma ci sarà uno slittamento cronologico, perché a settembre bisogna che il popolo-gregge si rechi alle urne al fine di continuare a consentire al dispositivo di soggiogamento di restare in vita. Quindi, non settembre ma ottobre, o al massimo novembre.

Come si comporterà in quel caso? È pronto a essere di nuovo sospeso per non mostrare la tessera verde?
Io credo che nei terreni difficoltosi sia sempre necessario inoltrarsi facendo ogni volta un piccolo o grande movimento che non sia uguale a quello che si è appena fatto. Essere sospeso per me non basterebbe più, perché sarebbe come accettare il meccanicismo di una legge che non riconoscerei e piegarmi alla sua logica discriminatoria. Se tornerà il Green Pass, molto più semplicemente la mia disobbedienza civile consisterà nel licenziarmi da un’Istituzione di cui personalmente non potrei più riconoscere alcun principio.

Dopo vent’anni di insegnamento, e una vita dedicata a questa attività universitaria (i lunghi anni di studio in Italia e all’estero, le riviste internazionali che dirige, i centri inter-universitari e il dottorato di cui è coordinatore, le sue quasi 800 pubblicazioni scientifiche, le tante collaborazioni con istituti di ricerca, le centinaia di convegni a cui è stato invitato), non ritiene sproporzionata una decisione così drastica? Le sue tante ricerche in corso che fine farebbero? E gli studenti? Non sarebbe almeno meglio attendere che il licenziamento arrivasse dall’Istituzione stessa?
La cosa che riterrei sproporzionata sarebbe quella di continuare a fingere di usare il mio pensiero facendo finta di niente, mentendo agli studenti di cui lei mi chiede e soprattutto mentendo a me stesso. E allo stesso modo riterrei una scelta di comodo quella di attendere, per qualche calcolo, di essere licenziato invece che farlo io se sento che quella è l’unica strada. Quanto alle mie ricerche, vi rinuncerei naturalmente a malincuore, ma per lo stesso motivo di coerenza: non potrei mai studiare un antico manoscritto o una leggenda orale di area periferica, o un poeta, o le strutture di una lingua o di un dialetto, come se io fossi un robot. Ho sempre sostenuto che nella ricerca scientifica, al di là di falsi miti legati all’obiettività e al rigore spersonalizzato, la prima cosa che entra in campo è proprio l’emotività, cioè un arcipelago di sensazioni e di risonanze tra ciò che si è e ciò che si studia.

Se questo fosse lo scenario, come camperebbe in alternativa?
La questione è certamente delicata, perché ho due figli e tante spese a cui a malapena riesco a far fronte in condizioni normali. Ma il punto è che il ricatto si basa proprio su questo: sul togliere la possibilità di vivere, sull’affamare. E se non si accetta il ricatto, ne consegue che si deve essere disposti ad affrontare la fame e l’impossibilità di vivere. Diversamente, sarebbe solo una scelta tra le tante. Qualcosa da fare, in ogni caso, penso che si possa trovare. Ci sono diversi lavori manuali o di altro tipo che penso di poter fare o di potere soprattutto imparare. La cosa importante resterà sempre un’altra: poter comporre poemi e suonare l’arpa.

Il suo recente rifiuto di una candidatura a senatore ha suscitato qualche mugugno: qualcuno ha detto che, in questo modo, proprio quando avrebbe potuto lottare veramente lei si è tirato indietro e cioè ha tradito quelli che avevano fiducia in lei.
La penso proprio in modo opposto. Credo che sia più efficace continuare a essere un sassolino nella scarpa che dà noia mentre chi calpesta i diritti sta camminando, che accettare l’invito-trabocchetto del sistema a diventare parte del dispositivo: un sassolino inglobato nella suola della scarpa non dà noia a nessuno, e rappresenta piuttosto un modo per essere addomesticato. Che è appunto ciò che la politica e la cosiddetta democrazia ha fatto da quando è stata inventata: mettere a tacere le opinioni dei singoli attraverso un perverso sistema di finta rappresentanza.

Non crede che l’astensionismo faccia il gioco di chi è al potere e continuerà ad esserci? Non sente in qualche modo che almeno in questo senso sia una rinuncia a combattere?
No. Come ho detto, per me è una forma di lotta molto chiara e concreta e molto poco teorica. Essere fagocitati nella diatriba dialettica tra questo e quel potere non ha per me alcun valore, se non quello di rinunciare alla propria lucidità. Nell’Italia degli anni Quaranta credo che non sarei stato fascista e non sarei stato partigiano: sarei stato probabilmente un disertore. Quella sarebbe stata la mia lucidità: non una fuga o una rinuncia, ma al contrario una testimonianza di consapevolezza. Poi sono il primo a sapere che per i disertori – come per i suicidi – non esiste alcuna pietà, perché non vanno bene né per una parte né per l’altra. La dissidenza ha dei prezzi molto chiari da pagare.