Domenica 25 settembre 2022, Santa Aurelia
EDITORIALE
ASPETTANDO CHE COSA?
Nel precedente numero dei nostri MC avevo prospettato l’ipotesi di un’alta astensione dalle urne, tale da configurare (da sola o magari sommata alle schede nulle o bianche di chi pur a votare ci è andato) la vittoria di quelli che, nella più favorevole delle ipotesi, si potrebbero definire gli “indecisi-scontenti”. Che, attenzione!, non potrebbero mai costituire comunque un partito, dal momento che i motivi per l’indecisione o per lo scontento tali da indurre a disertare le urne (a parte i casi di “forza maggiore”) possono essere millanta, e opposti fra loro.
Ribadisco pertanto che la mia impressione è che i non-votanti saranno molti: tanti comunque da preoccupare legittimamente tutti (il non-voto non è mai un buon sintomo) e da porre molti interrogativi ai politici, anzitutto a coloro che usciranno dalla competizione come eletti nelle due Camere. Un’alta astensione è in qualche modo sempre e comunque una sconfessione degli eletti.
Ma così dicendo mi metto in causa. Ove gli astenuti fossero un numero modesto non esiterei, nel prossimo MC, ad associarmi a Renzo Tramaglino nel “posso aver fallato”: anche perché so da molto tempo di sbagliarmi molto spesso.
Allo stesso modo, mi verrebbe da mettermi in causa anche nel caso di una “vittoria” di Giorgia Meloni: nel caso cioè – non improbabile – che essa risulti la più votata tra i premier. È ovvio – ed è stata la Meloni stessa a precisarlo – che non è affatto automatico che il premier più votato venga chiamato dal presidente a provare a formare un governo; e tanto meno che ci riesca. L’ipotesi che m’inquieta – e spero sinceramente di sbagliarmi – è che il suo stesso successo provochi una serie di contromosse (“spontanee”, ovviamente…) all’insegna di un antifascismo grossolano, irragionevole, inopportuno e tutto quel che volete, ma tale ma aggiungere un altro elemento di crisi a quelli che già caratterizzano questo momento.
Comunque, è molto probabile che il quadro dei risultati elettorali sia talmente frammentario da obbligare i “vincitori” a intraprendere la via delle “larghe intese”, magari uscendo anche in qualche modo dalle loro rispettive aree di riferimento. Pur scartando quindi l’ipotesi di un’intesa “di unità nazionale”, che durerebbe probabilmente lo spazio di un mattino, c’è da chiedersi su quali basi tale intesa si costituirebbe. Eppure, paradossalmente, nella sostanza un’intesa sarebbe facile. Posso capire che Letta e la Meloni non si accorderanno mai. Avrei però difficoltà a spiegare a un estraneo alla politica italiana le ragioni serie e concrete di tale impossibilità, che a noialtri appaiono così ovvie e che pure sono tanto fragili e labili nella sostanza quanto sono evidenti e insormontabili nella psicostoria di quella che pomposamente chiamiamo politica (la quale sarebbe forse altra e più seria cosa). La geocromatica non ci aiuta granché: che cosa significa rispondere che l’uno è di sinistra e l’altra di destra, che l’uno è “rosso” e l’altra è “nera”? A parte che si tratta di colori entrambi molto sbiaditi, trovo posizioni molto simili fra loro nel campo di quella che eufemisticamente si potrebbe definire la “politica estera” – sono entrambi atlantisti, con alcune divergenze semmai a proposito della UE –, mentre non riesco bene a capire in che senso e fino a che punto si oppongano in politica sociale, dato che nessuno dei due esce nella realtà concreta dal quadro liberistico collegato alla subordinazione ai poteri forti internazionali e alle lobbies che dominano l’Occidente. Abbiamo sentito da parte di entrambi, e anche degli altri leader, qualche proposta su come affrontare concretamente le sanzioni comminate per volontà di USA e NATO formalmente alla Russia, sostanzialmente all’Europa: ma non si tratta certo di proposte né convincenti, né risolutive. I due grossi problemi italiani ed europei restano irrilevati dai nostri leader politici: la prona sudditanza ai diktat USA-NATO (a parte Conte e qualche gruppuscolo iperminoritario, che se non altro hanno protestato a proposito dall’invio di armi all’Ucraina) in politica estera, il silenzio quasi assordante sulle misure da prendere nei confronti del gigantesco fenomeno dell’evasione fiscale in politica economica e interna.
Fin qui non ci sarebbe nulla di nuovo: l’Italia resta ingovernabile; si combina qualche altro governo “di tecnici” o si mette in campo una qualche improbabile più o meno larga e rabberciata politica di alleanze di governo, destinata prima o poi a fallire. Tutto ciò, in ordinaria amministrazione, condurrebbe al consueto vivacchiare, con una politica che conta sempre meno rispetto alle problematiche effettivamente da affrontare e con il “paese reale” (“la gente”) che conta ancora meno della politica: e, per parafrasare il vecchio caro Battisti, tu chiamala, se vuoi, democrazia.
Ma siamo ancora in tempi di ordinaria amministrazione? Quanto varrà tutto ciò, nei prossimi mesi? Come reagirà l’opinione pubblica, come reagiremo noi tutti, nel caso tutt’altro che improbabile di un perdurare e magari di un allargarsi e aggravarsi del conflitto? Che cosa succederà nel caso di un inverno imprevedibilmente rigido: ci limiteremo davvero ad addossare tutte le colpe a Putin e alla Russia? O basterà ipotizzare qualche rivolta tipo quelle contro la “tassa sul macinato”? Davvero nessuno presenterà il conto a una classe politica che, con sostanziale unanimismo, ci ha guidati a seguire la Danza Macabra sulle note soffiate nei pifferi di “Mad” Joe Biden e di quello Stoltenberg il cui nomen è straordinariamente in linea con l’omen che maccheronicamente il suo cognome suggerisce? FC