Minima Cardiniana 393/2

Domenica 25 settembre 2022, Santa Aurelia

PERCHÉ L’EUROPA “VA A DESTRA” (AMMESSO CHE CI VADA…)? E VERSO CHE GENERE DI DESTRA?
L’“ONDA NERA” EUROPEA NON È SOLO IL FRUTTO DI NOSTALGIE AUTORITARIE
di Marco Tarchi
Era già accaduto quasi un quarto di secolo fa, ai tempi in cui l’onda dei successi di formazioni politiche etichettate come populiste era parsa assumere le proporzioni di una marea, soprattutto dopo che la Fpö di Jörg Haider nell’ottobre 1999 era assurta in Austria al rango di secondo partito con il 26,9 per cento dei voti, costringendo il Partito popolare di impronta democristiana a farne un partner di governo. Sta avvenendo di nuovo ora, alla luce di nuovi successi elettorali ottenuti o annunciati, con altri protagonisti – in questi giorni Fratelli d’Italia e i Democratici svedesi; non molto tempo fa la spagnola Vox – che si autodefiniscono conservatori. Ora come allora, di fronte all’imprevista (quantomeno nelle proporzioni) ascesa di questi partiti in precedenza marginali, buona parte delle forze politiche di sinistra, degli operatori dei media e degli intellettuali più in vista tende – a volte per pigrizia o per scarsa conoscenza dei soggetti di cui si occupa, spesso per riflesso condizionato da antipatie ideologiche – a rinchiudersi nell’esorcismo delle classificazioni squalificanti, infilando i nuovi venuti nel generico ambito dell’estrema destra, o a ricorrere al sensazionalismo del déjà vu, riconducendo gli scomodi outsider alle loro più o meno lontane origini brune o nere, lanciando l’allarme sul fascismo eternamente di ritorno. Alimentata dall’imminente centenario della marcia su Roma, questa scena si sta quotidianamente ripetendo, con effetti che per la comprensione delle reali caratteristiche – e, per chi tali le ritiene, delle insidie – degli scenari politici che questi successi delineano sono certamente deleteri.

L’onda nera?
Chi pensa infatti, per calcolo elettorale o suggestione emotiva, che l’affermazione di Giorgia Meloni, Jimmie Åkesson, Marine Le Pen, Santiago Abascal e soci possa essere spiegata, combattuta o limitata andando in cerca di incancellabili nostalgie per regimi autoritari rimaste incrostate nelle coscienze delle popolazioni dei paesi che li hanno vissuti, commette un grave errore di prospettiva.
L’anacronismo, nell’analisi scientifica delle dinamiche politiche, non giova. E conduce su sentieri scivolosi.
Pensare che sugli elettori del 2022 possano far colpo le rivelazioni sulle origini razziste, neonaziste e suprematiste di alcuni degli originali animatori dei Democratici svedesi, espulsi in blocco pochi anni dopo dal partito che avevano contribuito a fondare nel 1988, o sulla presenza di parafernalia mussoliniani sulla scrivania di una sede periferica di FdI, è un abbaglio. Che può avere conseguenze controproducenti per chi vi incorre, prima fra tutte il progressivo logoramento della stessa strategia del cordone sanitario grazie alla quale per decenni si è mirato a estromettere le formazioni definite di estrema destra dai luoghi in cui vengono assunte le decisioni politiche cruciali per un paese.
Quella strategia, basata sull’accordo di tutti gli altri partiti (di sinistra, di centro e di destra moderata) per sbarrare la strada a concorrenti ritenuti antisistema, di cui l’“arco costituzionale” voluto da Ciriaco De Mita per impedire al Msi di pesare su qualunque scelta di natura istituzionale è da considerarsi l’antesignano, sta infatti dimostrandosi sempre meno efficace nei confronti di formazioni che vengono raffigurate dal mainstream intellettuale e mediatico con tratti che non corrispondono più alla loro effettiva fisionomia politico-ideologica.
Lo si era già visto quest’anno con la crescita del Rassemblement National in Francia, e i casi svedese e italiano lo confermano.

Gli unici referenti
Di fronte al crescere delle preoccupazioni diffuse verso una serie di problemi che i partiti di sinistra e di centrosinistra minimizzano, riconducendole a “sensazioni” o “emozioni”, o direttamente negano (talune ricadute negative dell’immigrazione di massa, la crescita degli episodi di microcriminalità e l’insicurezza che ne deriva, ecc.), e che i partiti di centrodestra tendono a minimizzare per non essere a loro volta demonizzati, è ormai evidente che una parte dell’elettorato vede in questi movimenti gli unici referenti credibili per un’azione di contrasto ai fenomeni che la inquietano. E quando ascolta e vede in tv i suoi esponenti, si accorge di non avere di fronte quelle reincarnazioni di Hitler o di Mussolini che le erano state descritte da qualche giornalista, scrittore o conduttore di talk show. E non rinuncia più a votarli.
Nei casi in cui questo meccanismo psicologico di disinibizione dell’elettorato si traduce, per i partiti descritti come di estrema destra, in cifre di consenso che superano la soglia dell’irrilevanza e addirittura assegnano loro, per dirla con Giovanni Sartori, un potenziale di coalizione (se i loro voti in sede parlamentare possono essere decisivi per costituire un governo) o un potenziale di ricatto (qualora quei voti servano a ostacolare, in accordo con altre forze di opposizione, l’approvazione di provvedimenti avversati), è inevitabile che quanti possono beneficiare della loro collaborazione – di regola i partiti della destra moderata, ma si sono visti anche casi di altro segno, con l’inattesa convergenza di nazionalpopulisti e socialdemocratici su politiche migratorie restrittive, in Norvegia e Danimarca – non si astengono dal farlo. Rompendo, così, la conventio ad excludendum.

Il caso Svezia
Che questo sia accaduto ora in Svezia può stupire solo chi non aveva prestato alcuna attenzione agli sviluppi politici di quel paese. Già quattro anni fa, un rapporto di ricerca redatto da Johann Martinsson, docente di Scienza politica all’Università di Göteborg, pubblicato in italiano sul numero 62 della rivista Trasgressioni, aveva chiaramente indicato quale futuro si stesse prospettando agli Sverigedemokraterna.
Benché il partito fosse regolarmente accusato dagli avversari di avere “radici brune” e suscitasse sospetto nei media a causa della sua storia e delle sue origini ideologiche, scriveva il politologo, la questione “sembra non avere più altrettanta importanza oggi agli occhi del pubblico”, tanto che nel giugno 2018 un sondaggio dell’istituto Novus lo segnalava come “il partito più popolare, e di gran lunga, all’interno della popolazione maschile” del paese. Chiedendosi a cosa si dovesse un simile exploit, Martinsson, sulla base di un’ampia serie di indagini demoscopiche, rispondeva che alla sua base vi erano i seguenti fattori: “una visione fondamentalmente nazionalista, un marcato attaccamento alla coesione sociale e, per questo motivo, un’opposizione al multiculturalismo”.
Un mix programmatico che faceva propendere lo studioso per una definizione del partito, piuttosto che come di destra estrema o radicale, come una formazione “anti immigrazione e nazionalista”. Che, aggiungeva, aveva tratto forti benefici elettorali dall’aver progressivamente abbandonato i toni più critici verso l’establishment, moderato le critiche dirette all’Unione europea e “iniziato a ricostruire la propria immagine e a comportarsi come i partiti politici classici”.
Un processo che nel luglio 2018 si era significativamente accompagnato all’adesione, nel parlamento di Bruxelles, al gruppo dei Conservatori e riformisti europei, conseguente all’abbandono del gruppo euroscettico guidato dall’Ukip di Nigel Farage, e che, si potrebbe oggi aggiungere, si è ulteriormente accentuato con il drastico cambio di indirizzo in politica estera degli scorsi mesi, dalle simpatie neppur troppo velate per accordi di cooperazione con la Russia al parere favorevole all’adesione della Svezia alla Nato.

L’evoluzione di FdI
Non è difficile vedere, in questo percorso, chiarissime analogie con l’evoluzione che ha portato in due anni Fratelli d’Italia a cifre di consenso che i suoi stessi dirigenti avrebbero faticato a sperare. In entrambi i casi, a guidare i ripensamenti e le correzioni di rotta anche se non un vero dietrofront strategico, come quello sancito con il proclama del Papeete dalla Lega salviniana e giorgettiana, i cui esiti oggi si possono finalmente misurare è stata la scelta di scartare molti dei temi e dei toni populisti e puntare sul binomio nazionalismo-conservatorismo per contrastare un fronte avversario che va sempre più caratterizzandosi come progressista e cosmopolita. Sembra, per ora, che l’opzione paghi cospicui dividendi.
(Domani, 20 settembre 2022)