Domenica 16 ottobre 2022, Santa Edvige
IL MITO E L’USO DELLA STORIA
“L’Espresso” del 9 ottobre scorso è in gran parte dedicato alla sconfitta e alla rabbia del presidente Putin e del suo governo: e le esamina entrambe dal suo punto di vista. Non abbiamo trovato il tempo per commentare puntualmente i vari articoli pubblicati dal noto settimanale, non tutti di eccelso valore. L’amico e collega Antonio Musarra, che nel volume Ucraina 2022. La storia in pericolo (Lucca, La Vela) ha esaminato la crisi russo-ucraina alla luce di una prospettiva profonda, sino dal decollo medievale della Rus’, leggendo criticamente un articolo edito appunto da “L’Espresso” sull’argomento. E ha potuto osservare che…
QUALCHE PAROLA SULLA RUS’ DI KIEV
di Antonio Musarra
“La terra nostra è grande e fertile, ma ordine in essa non v’è. Venite a governarci e a comandarci”. Con queste parole, la Cronaca degli anni passati – la più antica cronaca slava, redatta al principio del XII secolo sulla base di frammenti di cronache precedenti, attribuibili ad autori diversi – spiegava l’origine della Rus’ di Kiev, fornendo il destro allo sviluppo, in pieno XVIII secolo, della cosiddetta “tesi normannista”, avanzata per la prima volta dallo storico tedesco Friedrich Müller per cui l’origine del primo “stato” slavo sarebbe da addebitarsi ai Variaghi provenienti dalla Scandinavia. Secondo il racconto – attribuito, talvolta, a un certo Nestore, monaco delle Grotte di Kiev –, attorno all’859, alcuni uomini provenienti dal nord sarebbero riusciti a sottomettere diverse tribù della pianura sarmatica. Tre anni dopo, gli abitanti della regione sarebbero riusciti a liberarsi dal giogo straniero; tuttavia, non riuscendo ad autogovernarsi, avrebbero richiamato indietro i Variaghi, sottomettendosi loro spontaneamente. Tre nobili fratelli “rus’”, Rurik, Sineus e Truvor, avrebbero accettato l’invito, stanziandosi nella “slavia orientale”. Sarebbe toccato a Rurik, morti i fratelli, unificare la regione, stabilendo a Novgorod la “capitale” della terra che, da quel momento in poi, sarebbe stata nota come Rus’.
La vicenda ha costituito, a lungo, la base dell’autocoscienza dei popoli slavi, prima d’essere contestata dalla storiografia zarista, prima, sovietica, poi; Stalin la riteneva menomante rispetto all’identità slava, favorendo la tesi opposta per cui la Rus’ non sarebbe stata altro che un prodotto autoctono. Come spesso avviene, che la verità stia nel mezzo è, senz’altro, possibile, benché pochi siano gl’indizi al riguardo. A quanto pare, il nome “rus’” non proverrebbe dalle lingue slave ma dal balto-finnico, indicando verosimilmente la regione corrispondente, oggi, alla svedese Ruotsi, termine derivato – così sembra – dal norreno rôdhr, da cui rods-menn, “gli uomini che remano”. Ebbene: a fronte dell’espansionismo normanno nel Meridione italico così come in Inghilterra si può dire che la possibilità d’una parziale soggezione delle tribù finniche e slave da parte dei guerrieri del nord non sia poi del tutto peregrina, benché non si abbiano elementi per stabilirne i termini e i modi, financo la realtà. Certo, il problema è stato lungamente avvertito, alimentando un dibattito fortemente politico ancora oggi vivo e vegeto.
Che il conflitto russo-ucraino si nutra di propaganda, spingendo, da entrambe le parti, a piegare la storia secondo la convenienza politica – talvolta, sino ad abusarne –, è un dato di fatto. Meno comprensibile è la volontà da parte di popoli etnicamente e culturalmente affini di sostituire alla comune radice slava un bieco nazionalismo, che sembra riportare indietro le lancette dell’orologio.
In questi casi, l’antidoto migliore è sempre la conoscenza del passato. La storia politica della Rus’ di Kiev ha attraversato fasi diverse. La sua ascesa può essere collocata sotto il regno di Oleg (879-912), succeduto a Rurik come reggente per il figlio Igor, cui si dovette il consolidamento dell’asse commerciale e viaria fra il Baltico e il mar Nero e, dunque, i primi contatti con l’Impero romano d’Oriente. Fu Oleg a conquistare Kiev, nell’882, e a farne la “madre” di tutta la Rus’. Di qui avrebbe avuto inizio la grande espansione, portata avanti da Igor (913-945), caratterizzata da scontri frequenti con popolazioni nomadiche come quella dei Peceneghi e, soprattutto, col tentativo, fallito, d’impadronirsi della stessa Costantinopoli, con cui si alterneranno, nel tempo, guerra e commercio. La moglie di Igor, Olga (945-962), reggente per il giovane Svjatoslav, avrebbe conosciuto un destino ambivalente, venendo descritta, ora, come santa ora come sovrana sanguinaria, segno della sua profonda influenza, Senz’altro, rivestì u ruolo importante nel consolidare un dominio in continua espansione reprimendo i più svariati oppositori. La conversione al Cristianesimo l’avrebbe portata a prodigarsi per la diffusione del nuovo credo presso il proprio popolo. Sarebbe stato Svjatoslav (962-972), in ogni caso, gran principe di Kiev, a estendere il controllo di quello che possiamo considerare, ormai, un aggregato “statuale” vero e proprio all’intero corso del Volga, contribuendo alla unificazione delle tribù slave. La sua morte sarebbe stata seguita da un’aspra guerra di successione, che avrebbe portato all’ascesa di Vladimir, soprannominato “il Grande” (980-1015), con cui avrebbe avuto inizio una nuova fase, caratterizzata dalla diffusione del Cristianesimo e dal rafforzamento del legame con Costantinopoli, cementato dal matrimonio con Anna Porfirogenita, figlia dell’imperatore Romano II. Nel 988, questi avrebbe ordinato a tutta la popolazione di battezzarsi nelle acque del Dnepr, a Kiev, eletta – per così dire – a città-santuario: culla della nuova fede. Un fatto su cui non è possibile soprassedere, se si vogliono comprendere le ragioni dell’importanza che la città ha per tutti i popoli slavi. L’avvento nella regione del clero greco, a seguito di Anna, avrebbe favorito la costruzione di chiese e la fissazione dell’alfabeto cirillico, ideato appositamente per la predicazione. Sotto il regno di Jaroslav il Saggio (1019-1054), figlio di Vladimir, la Rus’ di Kiev avrebbe raggiunto il culmine della propria potenza, elaborando una cultura originale. Il declino avrebbe avuto inizio poco dopo, grazie allo scoppio di rivolte interne, che avrebbero contribuito a rompere l’unità raggiunta favorendo la divisione del territorio in principati tesi a rendersi indipendenti. Tale frammentazione avrebbe favorito, nel corso del XIII secolo, la penetrazione mongola dalle steppe orientali, sancendo l’epilogo d’una storia centenaria. La conquista di Kiev, nel 1240, e la sua pressoché completa distruzione, avrebbero favorito il sorgere di numerosi centri di potere, spingendo la popolazione verso settentrione, attorno a Novgorod e al principato di Vladimir-Zuzdal’. Al contempo, avrebbe avuto inizio il processo di differenziazione fra “ruteni/ucraini” e “russi bianchi”, a occidente, e “grandi russi”, a oriente, costantemente memori, tuttavia, del passato comune. Nel 1317, il khan dell’Orda d’Oro avrebbe nominato a capo del principato di Vladimir-Zuzdal’ un principe di Mosca, Jurij. Bisognerà attendere, tuttavia, il 1451 perché il granducato moscovita riuscisse a rendersi indipendente e il 1480 perché Ivan III dichiari ufficialmente la fine dell’obbedienza all’Orda d’Oro. Dopo aver annesso quasi tutti gli altri principati, questi si sarebbe proclamato, al fine, “autocrate di tutta la Russia”, dando avvio a una nuova storia.
La vicenda così succintamente delineata mostra quanto sia illusorio separare i destini della Russia da quelli dell’Ucraina. Lasciatemelo dire: tanto la violenta campagna di derussificazione degli oblast’ orientali, causa immediata del conflitto attuale – giacché molto potremmo dire sulle cause profonde –, quanto l’aggressione militare a un paese a lungo amico, “padre”, “madre” del popolo russo, della sua cultura, della sua fede, delle sue tradizioni, hanno un ché d’anomalo, di montato ad arte, di pianificato – io credo, dall’esterno –, le cui ragioni vanno ricercate in almeno un settantennio di propaganda anti-slava e, in generale, anti-“orientale”, all’insegna del più bieco dei paradigmi: quello dello scontro di civiltà.
Viviamo i postumi del Novecento, questo lo sappiamo. Ed è naturale che sia così. Il problema – badate – riguarda l’Europa più di quanto si creda. Un’Europa che, da troppo tempo, ha voltato le spalle alla geografia (che – mi dicono – manco si studia più a scuola), immaginando di vivere altrove, tra burger e patatine fritte. Che ha smesso di guardare al mare che le è proprio in favore d’un Atlantico lontano. Che, sobillata da chi non smette di recitare la parte dei “buoni”, non ha fatto altro che erigere muri verso quell’Oriente con cui intratteneva relazioni millenarie e dal quale nulla e nessuno potrà mai staccarla. Quanto tempo dovrà ancora passare prima che le ragioni della geopolitica tornino a farsi sentire?