Minima Cardiniana 397/2

Domenica 23 ottobre 2022, San Giovanni da Capestrano

DOSSIER AL CAPONE
Il titolo non v’inganni. Non si tratta di un Dossier relativo al celebre gangster, bensì di un Dossier che dedichiamo a Luciano Capone de “Il Foglio”, evidentemente troppo impegnato a confutare chiunque egli ritenga avversari del quotidiano al quale collabora al puto da non stimar troppo importante leggere con attenzione quello ch’essi affermano in quanto ansioso di etichettarli e di confutarli: stimando forse più opportuno e importante la prima cosa rispetto alla seconda.
Il presente Dossier si articola in una Tesi (breve presentazione degli intenti di un documento incentrato sull’urgenza di una pace immediata nel territorio russo-ucraino); un’Antitesi (articolo del Capone) e una Sintesi (breve replica al Capone).

La Tesi
L’appello di papa Francesco per una cessazione delle ostilità in Ucraina, già lanciato più volte e ora raccolto in un libro di prossima pubblicazione, non cade nel vuoto. Così come per l’enciclica Laudato si’, che parlava di ecologia e del rapporto fra l’umanità e la natura, incontra le preoccupazioni di una larga, maggioritaria parte della società rispetto a quanto sta avvenendo in questi giorni. La necessità di una tregua e di un ritorno al tavolo dei negoziati, immediatamente abbandonati poco dopo l’inizio della guerra in Ucraina, oggi s’impone come necessaria: e difatti insieme all’appello del pontefice ne giungono altri, come quello promosso da alcune personalità del mondo accademico, culturale e giornalistico italiano (Antonio Baldassarre, Pietrangelo Buttafuoco, Massimo Cacciari, Franco Cardini, Agostino Carrino, Francesca Izzo, Mauro Magatti, Eugenio Mazzarella, Giuseppe Vacca, Marcello Veneziani, Stefano Zamagni) ma sottoscritto già da molti riuniti sotto l’etichetta “fermare la guerra” (fermarelaguerra@avvenire.it). Al suo interno vi sono richieste chiare: la neutralità per l’Ucraina, che possa entrare nell’Unione Europea, ma non nella Nato, secondo l’impegno verbale degli Stati Uniti alla Russia di Gorbaciov dopo la caduta del muro di Berlino e lo scioglimento del Patto di Varsavia; il riconoscimento della Crimea russa, così com’è sempre stata; l’autonomia delle regioni russofone di Lugansk e Donetsk entro l’Ucraina con il ritorno ai Trattati di Minsk, a suo tempo garantiti da inglesi e francesi, ma di fatto mai rispettati; la definizione dello status amministrativo degli altri territori contesi del Donbass e delle sue ricchezze minerarie, per gestire il melting pot russo-ucraino che nella storia di quelle regioni è storicamente presente e che dev’essere garantito; una fine dell’impegno militare russo nella regione a fronte del ritiro delle sanzioni europee e internazionali; un piano internazionale di ricostruzione dell’Ucraina.
Si tratta di richieste perfettamente razionali che mirano a evitare il rischio, mai così reale come oggi, di una catastrofe nucleare. Certo, per farlo bisogna riconoscere anche alcune ragioni alla Russia, e non fermarsi alla dicotomia aggressore-aggredito. È un fatto che la guerra non è cominciata nel febbraio del 2022, ma nel 2014 e si è sviluppata con le vessazioni contro i russofoni d’Ucraina e con il mancato rispetto degli accordi di Minsk. È un casus belli sufficiente? Lo è di più o di meno delle armi di distruzioni di massa che in Iraq non c’erano, ma che hanno condotto all’invasione a guida anglo-americana del paese? Sarebbe poi opportuno mettere da parte i discorsi atti a leggere il conflitto come scontro fra due blocchi, democrazie da una parte, totalitarismi o autocrazie dall’altra. Questo modo manicheo di leggere i conflitti in atto altro non è che la stanca ripetizione del clash of civilization già ripetuto a proposito di Occidente e Islam, e adesso riproposto per leggere situazioni ben più complesse.
È evidente ormai la politica del “Brics” (Brasile, India, Russia, Cina, Sudafrica) sta acquistando nel mondo molti consensi; l’idea di una Russia condannata da tutti e ridotta a paria si scontra con la realtà dei tanti paesi che sono stanchi del gioco neocoloniale occidentale e che ormai riconoscono l’ipocrisia di quanti chiedono la fine della guerra in Ucraina, ma hanno seminato e seminano morte e distruzione altrove. Un discorso serio sulla pace avrebbe bisogno di uscire da facili moralismi e, in primo luogo, comprendere che l’Europa, non tanto quella degli Stati, quanto soprattutto quella dei popoli, è fra le vittime di questo conflitto, che ci porta verso una catastrofe economica, verso il rischio che non soltanto l’Ucraina avrà bisogno di un piano internazionale di ricostruzione: ne avremo presto bisogno anche noi. È evidente che sono gli Stati Uniti ad avere un vantaggio in questo conflitto: di recente, sia pure sottotono, i francesi e i tedeschi si sono lamentati del fatto che il gas americano costa quattro volte ciò che gli americani lo pagano in patria.
A fronte di tutto questo, la pace, o almeno una tregua e un negoziato, non sono soltanto una necessità morale, ma anche la condizione per poter uscire dall’impasse gravissima nella quale siamo finiti. Una riduzione delle forniture di armi, aumentando peraltro gli aiuti umanitari, è il primo passo per spingere l’Ucraina a trattare, mentre inebriarla con miliardi di forniture in armi, lasciando che i suoi uomini vadano a morire (e le perdite sono altissime anche se non se ne parla), è folle per loro quanto per noi stessi. Il pontefice ha una caratura morale importante, ma perché le sue parole non si perdano nel vento, bisogna che la società civile, nella quale il malcontento è forte, ma che sembra aver perso la capacità di esprimerlo, le faccia sue e le manifesti dinanzi a una classe politica accecata da altri interessi.

L’Antitesi
LUCIANO CAPONE
STRAFALCIONI E OMISSIONI.
PERCHÉ LA PROPOSTA DI PACE CATTO-ROSSO-BRUNA È CREDIBILE SOLO PER PUTIN
L’appello degli intellettuali post-fascisti, post-comunisti e cattolici per un accordo tra Russia e Ucraina è pieno di strafalcioni storici, rilancia le falsità putiniane, concede quasi tutto all’aggressore e quasi nulla all’aggredito: più che una proposta di pace è una proposta di resa dell’Ucraina.
In contemporanea su Avvenire, il Fatto quotidiano e la Verità è uscito un appello di un gruppo di intellettuali postfascisti, postcomunisti e cattolici con una proposta di pace per la guerra in Ucraina. I firmatari catto-rosso-bruni sono undici tra scrittori, filosofi, giuristi, sociologi e storici: Antonio Baldassarre, Pietrangelo Buttafuoco, Massimo Cacciari, Franco Cardini, Agostino Carrino, Francesca Izzo, Mauro Magatti, Eugenio Mazzarella, Giuseppe Vacca, Marcello Veneziani e Stefano Zamagni. Il piano, presentato come “uno scenario credibile per chiudere questo conflitto” che “non può avere la vittoria tutta da una parte e la sconfitta tutta dall’altra”, non è affatto credibile. Nel senso che è poco realistico. Ma è interessante perché il suo contenuto, attraverso strafalcioni e omissioni, rivela molto dell’impostazione alla base del pacifismo trasversale che si sta facendo strada nel nostro paese.

La proposta di pace catto-rosso-bruna si articola in sei punti:
“1) Neutralità di un’Ucraina che entri nell’Unione Europea, ma non nella Nato, secondo l’impegno riconosciuto, anche se solo verbale, degli Stati Uniti alla Russia di Gorbaciov dopo la caduta del muro e lo scioglimento unilaterale del Patto di Varsavia.
2) Concordato riconoscimento dello status de facto della Crimea, tradizionalmente russa e illegalmente “donata” da Kruscev alla Repubblica Sovietica Ucraina.
3) Autonomia delle Regioni russofone di Lugansk e Donetsk entro l’Ucraina secondo i Trattati di Minsk, con reali garanzie europee o in alternativa referendum popolari sotto la supervisione dell’Onu.
4) Definizione dello status amministrativo degli altri territori contesi del Donbass per gestire il melting pot russo-ucraino che nella storia di quelle Regioni si è dato ed eventualmente con la creazione di un ente paritario russo-ucraino che gestisca le ricchezze minerarie di quelle zone nel loro reciproco interesse.
5) Simmetrica descalation delle sanzioni europee e internazionali e dell’impegno militare russo nella regione.
6) Piano internazionale di ricostruzione dell’Ucraina”.

È davvero impressionante che un gruppo di giuristi, filosofi e soprattutto storici abbia potuto infarcire un documento talmente importante di così tanti errori storici e fattuali. La frase sul non ingresso dell’Ucraina nella Nato “secondo l’impegno riconosciuto, anche se solo verbale, degli Stati Uniti alla Russia di Gorbaciov dopo la caduta del muro e lo scioglimento unilaterale del Patto di Varsavia” ne contiene tre, marchiani. Non c’è mai stato alcun impegno sul non allargamento a est della Nato (la frase del segretario di Stato James Baker fu pronunciata nel febbraio del 1990 durante le trattative sull’unificazione tedesca e fu superata già pochi mesi dopo dal Trattato sullo stato finale della Germania, con cui Gorbaciov acconsentì al primo allargamento a est della Nato); all’epoca non esisteva “la Russia di Gorbaciov” ma l’Unione Sovietica, di cui peraltro faceva parte l’Ucraina; e il Patto di Varsavia non era ancora stato sciolto (accadrà oltre un anno dopo). Da questi fatti si evince che la dichiarazione verbale – mai alcun accordo è stato firmato in tal senso – di un segretario di Stato dell’Amministrazione Bush, che due anni dopo ha perso le elezioni, fatta al capo di un’entità politica come l’Urss che un anno dopo ha cessato di esistere ha valore pari a zero. Non per Putin, però, che sul mito della “promessa tradita” dagli Usa sulla Nato ha costruito la giustificazione dei suoi interventi militari in Ucraina. E così i pacifisti catto-rosso-bruni italiani fanno propria la narrazione di Putin. Non è l’unico caso.
Anche quando parlano della “Crimea, tradizionalmente russa e illegalmente ‘donata’ da Kruscev alla Repubblica sovietica Ucraina”, riprendono l’infondata versione di Putin secondo cui la cessione della Crimea all’Ucraina del 1954 sarebbe stata incostituzionale. Ma non solo il trasferimento avvenne secondo le norme sovietiche del tempo, ma soprattutto è stato accettato dalla Russia in una lunga serie di accordi internazionali: l’accordo di Belaveža del 1991 tra Russia, Ucraina e Bielorussia che sancì la fine dell’Urss; il memorandum di Budapest del 1994 con cui Mosca si impegnò a rispettare l’integrità territoriale ucraina (Crimea inclusa) in cambio della cessione da parte di Kyiv del suo arsenale nucleare; il Trattato di amicizia russo-ucraino del 1997, in cui si riconosceva l’inviolabilità dei confini esistenti; il Trattato tra Russia e Ucraina sul confine di stato russo-ucraino del 2003, firmato da Vladimir Putin in persona, che riconosceva il confine amministrativo tra le Repubbliche sovietiche Russa e Ucraina al momento dello scioglimento dell’Urss (e quindi Putin ha riconosciuto la legalità della cessione della Crimea da parte di Krusciov). Ma, evidentemente, per i nostri filosofi, storici e giuristi nel diritto internazionale i trattati e gli accordi sottoscritti dagli stati valgono meno delle parole di un politico americano dette al capo di uno stato che non esiste più da oltre trent’anni: scripta volant, verba manent.
Anche nel resto delle proposte c’è un misto di fumosità, approssimazione e imprecisione. Ad esempio si parla di “autonomia delle regioni russofone di Lugansk e Donetsk entro l’Ucraina secondo i trattati di Minsk, con reali garanzia europee” e subito dopo di “definizione dello status amministrativo degli altri territori contesi del Donbass”. Ma di quali altri territori del Donbas si parla, se il Donbas sono Luhansk e Donetsk? Se il riferimento è ai territori ora occupati dai russi di Kherson e Zaporizhzhia, al limite fanno parte della regione storica della Novorossiya, che però includeva anche Odessa e Mykolaiv. Di quali territori e “melting-pot russo-ucraino” si parla? E come si fa a proporre l’istituzione di un “ente-paritario russo-ucraino che gestisca le ricchezze minerarie di quelle zone nel reciproco interesse”? Quei territori restano sotto la teorica sovranità dell’Ucraina ma le loro risorse naturali devono essere gestite paritariamente dalla Russia?
Alla fine della fiera la soluzione di pace è questa: la Russia porta a casa la legittimazione dell’annessione illegale della Crimea; il controllo delle risorse minerarie ucraine; il ritiro delle sanzioni europee e internazionali. L’Ucraina invece ottiene il ritiro dei russi da una parte dei territori occupati e un “piano internazionale per la ricostruzione”, cosa che è già prevista dai paesi occidentali, senza però specificare se alla Russia spetti pagare qualche risarcimento per i danni e crimini di guerra commessi. Il punto fondamentale su cui amabilmente si sorvola è: chi dovrebbe garantire in futuro il rispetto dell’integrità territoriale dell’Ucraina? Non la clausola di salvaguardia collettiva della Nato, perché per gli appellanti italiani Kyiv deve restare fuori dal Patto atlantico. Bisogna quindi fidarsi di Putin, del fatto cioè che chi ha violato e stracciato tutti gli accordi internazionali aggredendo e amputando l’Ucraina, prima nel 2014 e poi nel 2022, d’ora in poi rispetterà i patti.
Un documento che parte da presupposti storici falsi, che ricalcano la versione dell’aggressore, e che si conclude concedendo quasi tutto all’aggressore e quasi nulla all’aggredito più che una proposta di pace è una proposta di resa. Offre quindi uno “scenario credibile” per Putin, di cui vengono riconosciute le ragioni e gli obiettivi, ma non per l’Ucraina.
(Il Foglio, 18 ottobre 2022)

La Sintesi
Il titolo dell’articolo del Capone è perentorio e intimidatorio: questa gentaccia, questi “intellettuali” non a caso definiti (senza tuttavia meglio specificare) catto-rosso-bruni, avrebbero commesso ogni sorta di “strafalcioni storici” e di “falsità putiniane”. Urca. Bene: se ciò è vero, non siamo certo intellettuali (e diciamolo con chiarezza, infatti, al Capone: noi siamo docenti, scrittori, giornalisti ecc.; intellettuale sarà lui). Ma dopo un così possente tuonare, uno si aspetta un ragano di correzioni severe e di contestazioni rigorose. Viceversa, la caponiana reprimenda è una montagna che partorisce un povero paio di topolini. Ma le parole valgono pur qualcosa, sul che il Capone preferisce glissare. Si declinano vari accordi e trattati, fino al 2003: ma purtroppo ci si ferma a quel ch’è accaduto a partire da allora, e che cominciò a venir denunziato da Putin fino dal 2007, con l’episodio georgiano del 2008 (e tra Georgia e Ucraina i rapporti da allora furono tanto stretti quanto poco chiari) e i fatti di Crimea del 2014 seguiti dall’imperversare delle forze ucraine in Donbass fino al fatidico 24 febbraio del 2022. Altri “strafalcioni” rimproverati dal Capone riguardano l’aver chiamato per esempio “Russia” l’URSS prima dello scioglimento di quest’ultima: ma si trattava d’un uso un po’ confidenziale, molto spesso usato anche in sedi semiufficiali.
A questo punto, ci saremmo aspettarti una ben più approfondita e radicale reprimenda: che ad esempio coinvolgesse anche testi più sostanziosi dell’appello degli intellettuali che il Capone indica con quella perifrasi religioso-cromatica così pittoresca. È un fatto obiettivo che la cessione della Crimea da parte di Krushev all’Ucraina fu giuridicamente parlando un arbitrio ingiustificato, e ciò non è certo colpa nostra; com’è un fatto che tale cessione dette origine a un contenzioso “congelato”, mai però risolto. E ovviamente il Capone si guarda bene dall’esaminare gli eventi che spinsero Putin all’intervento del febbraio del 2022, sia esso o no stato un errore (quanto a “crimini”, sia chiaro che non accettiamo predica alcuna dai pulpiti che a suo tempo plaudirono all’aggressione all’Iraq sulla base di prove falsificate).
Ma il Capone, che ama accumulare vere o supposte prove con meticoloso puntiglio, poi si ferma sul più bello. Perché parla del fatto che Putin avrebbe fatto carta straccia dei trattati, guardandosi bene però da dirci che fine hanno fatto quelli, reiterati, di Minsk? Perché già che c’era non ha esaminato quel che il generale Mini ed io abbiamo scritto in La guerra e la storia (Roma, PaperFIRST 2022)? Perché si associa allo scandaloso silenzio-stampa bandito da tutti i media arcigni custodi del “pensiero unico” circa il libro Ucraina 2022. La storia in pericolo (Lucca, La Vela, 2022), nel quale una trentina di studiosi e giornalisti assolutamente bipartisan, da Luciano Canfora a Francesco Borgonovo, hanno scritto sulla questione russo-ucraina (o russo-occidentale?) una serie di cose sulle quali nessun fiero e specchiato democratico bianco-azzurro o bianco-rosa o altre delicate tinte pastello ha osato rispondere, limitandosi a quel delicato e democratico strumento ch’è la censura?
Il Capone, comunque, discute il documento “catto-rosso-bruno” anche contestando alcune soluzioni diplomatiche e politiche ch’esso propone con riguardo ad alcuni problemi che senza dubbio dovrebbero essere affrontati nelle future quanto meno da noi auspicate trattative; e tace a sua volta il fatto che nel discorso ufficiale tenuto dinanzi a tutto il mondo il 30 settembre 2022 purante la cerimonia di annessione delle nuove province russe del Donbass Putin si è detto esplicitamente pronto a intavolare trattative di pace. Per far questo, notoriamente bisogna essere in due. Perché né Zelensky né Biden hanno risposto? E, dal momento che non l’hanno fatto, chi è che vuole che la guerra continui? Invece di abbandonarsi audacemente al vortice d’inopportune ipotesi diplomatiche, cosa che non sta a lui formulare, il Capone avrebbe dovuto spiegarci il perché di questo silenzio. Ma tace anche lui: altro che “strafalcioni”…