Domenica 6 novembre 2022, San Leonardo
A VOLTE RITORNANO…
Il Brasile torna a sinistra, con Lula; Israele a destra, con Netanyahu. Due notizie: una buona, una cattiva? Quale delle due appartiene alla prima categoria, quale alla seconda? Certo è che il mondo pare di nuovo polarizzarsi: NATO versus BRICS. Da noi, i governi sono allineati e coperti con la NATO: e la gente?
LE ELEZIONI IN ISRAELE
di Davide Assael
Il partito dell’ex primo ministro Benjamin Netanyahu (Likud) ha vinto le elezioni politiche di Israele del 1° novembre 2022. Grazie ai voti dell’estrema destra sionista, il blocco di Netanyahu è destinato a governare lo Stato ebraico contando su una maggioranza di 65 seggi su 120 alla Knesset.
Le elezioni del primo novembre, caratterizzate da una campagna elettorale sempre più polarizzante, hanno visto l’ennesima resurrezione di Benjamin Netanyahu, che potrà ritoccare il suo record di premier più longevo della storia del paese raggiunto il 20 luglio 2019 a discapito del padre della patria Ben Gurion.
Il prezzo da pagare non è stato, però, piccolo. “Re Bibi”, come lo chiamano i suoi sostenitori, dovrà anzitutto governare con una esigua maggioranza di cinque parlamentari, condizionato da una coalizione legata a doppio filo ai partiti ultra-ortodossi. La formazione sionista religiosa è divenuta la terza forza del paese. Per capire l’attitudine di questi partiti ostili a ogni compromesso con la componente araba e palestinese, considerata alla stregua di una razza inferiore, bisogna analizzare la campagna elettorale delle ultime settimane dominata dalla figura di Itamar ben Gvir, politico uso a farsi riprendere munito di pistola durante le sue escursioni nei quartieri arabi di Gerusalemme.
Si aprirà ora uno dei più classici giochi politici: chi usa chi. Sarà l’esperienza parlamentare e governativa di Netanyahu a domare gli istinti religiosi-identitari dei partiti di coalizione Shas (partito religioso sefardita), Partito Sionista Religioso (HaTzionut HaDatit) ed Ebraismo della Torah Unito oppure saranno questi a servirsi di lui? Bibi, assediato dai processi e obbligato a proteggersi tramite uno scudo politico, si cala nella parte dell’apprendista stregone, col rischio che le forze da lui stesso evocate gli si ritorcano contro.
L’esito elettorale potrà avere conseguenze anche sul posizionamento dello Stato ebraico nello scenario internazionale. Anzitutto minacciando gli accordi col mondo arabo da lui stesso firmati. Per quanto la causa palestinese sia passata da un pezzo di moda, i paesi arabi non potranno ignorare la presenza di una matrice kahanista nel nuovo governo. Non fosse altro per renderne conto alle proprie opinioni pubbliche, sempre nel mirino del fronte fondamentalista interno.
In secondo luogo, rischiano di aprirsi problemi con l’alleato americano. Il nuovo quadro internazionale determinato dalla crisi ucraina, dopo una serie di sali-scendi, ha riportato in auge l’accordo sul nucleare iraniano voluto dal presidente degli Stati Uniti Biden fin dall’inizio del suo mandato. L’ultimo governo sembrava ormai rassegnato alla nuova firma, optando per una linea di riduzione del danno. Bibi, che ha utilizzato l’argomento in campagna elettorale, vorrà mostrarsi inflessibile, mettendo i bastoni fra le ruote all’inquilino della Casa Bianca. Vorrà dire uno spostamento d’asse verso la Russia dopo le recenti aperture all’Ucraina? Chi vivrà vedrà. Per Netanyahu valgono le parole del suo ex alleato Lieberman, al netto delle offese personali: “È la feccia del genere umano. Non ha linee rosse”.
Le elezioni israeliane riflettono anche tendenze di fondo dell’attuale crisi democratica, rilevata a ogni latitudine. La vittoria di Netanyahu è stata anche determinata dalla frantumazione del centro-sinistra, che negli ultimi anni ha visto la nascita di una serie di sigle che si sono alternate nel favore di un elettorato un tempo orientato verso il partito laburista. In primis Yesh Atid (C’è futuro) del premier uscente Yair Lapid e Kachol Lavan (Azzurro e Bianco) di Benny Gantz. Si tratta di formazioni personali, a volte stimolate dagli apparati, prive di radicamento territoriale e soggette agli umori del momento. La strategia di restare divisi per ampliare l’arco di rappresentanza è fallita di fronte a uno schieramento opposto che è apparso compatto grazie al talento da equilibrista di Netanyahu. Uno schema copiato anche dalle liste arabe, che, presentandosi divise, hanno dimostrato di aver introiettato il principio cardine della cultura del loro Stato: due ebrei, tre opinioni. Il mancato raggiungimento della soglia di sbarramento del 3,25% da parte di due delle tre liste è stata decisiva per il meccanismo di distribuzione dei seggi che ha riaperto il regno di “re Bibi”.
(www.limesonline.com, 3 novembre 2022)
LULA PRESIDENTE DEL BRASILE
di Carlo Cauti
Luiz Inacio Lula da Silva il 30 ottobre 2022 è stato eletto di nuovo presidente del Brasile, battendo per un soffio il suo avversario Jair Messias Bolsonaro.
La vittoria di Lula alle elezioni brasiliane conferma che il Brasile è un paese profondamente diviso in due.
L’ex presidente ha vinto con il 50,90% dei voti validi. Una differenza irrisoria, di circa due milioni di voti su 156 milioni di aventi diritto, che diviene prima ipoteca sul suo terzo mandato. Il nuovo Congresso sarà il più a destra della storia del Brasile. Lula non avrà vita facile, e qualsiasi scivolone (o caso di corruzione) potrebbe essere motivo di impeachment immediato. Per fare un parallelismo, Dilma Rousseff vinse nel 2014 con solo tre milioni di voti di scarto e dopo due anni venne rimossa dal potere legislativo.
Bolsonaro ha mantenuto il suo elettorato, aumentando il numero di voti rispetto al 2018 nonostante quattro anni difficili e con la stampa contro. La vittoria era a portata di mano e se non avesse commesso errori durante la campagna elettorale avrebbe potuto riconfermarsi presidente.
Ma ciò che è più importante sotto un profilo geopolitico è la divisione geografica e demografica del voto. Il sud del Brasile, ricco e produttivo, ha votato compatto per Bolsonaro. Il nord-est, più povero e dipendente da sussidi pubblici, per Lula. Una partizione territoriale che si conferma in tutte le elezioni degli ultimi vent’anni. Pessima per una Repubblica Federale in quanto seme di retorica separatista.
Inoltre la popolazione evangelica, gli imprenditori, i liberi professionisti, gli agricoltori, le forze di sicurezza hanno votato in massa per Bolsonaro. Professori, giornalisti, intellettuali, disoccupati, popolazione carceraria e abitanti delle favelas hanno votato per Lula. Due Brasili che stentano a riconoscersi e hanno sempre più difficoltà a convivere pacificamente. Questo risultato porta l’animosità nel paese è alle stelle, con proteste che iniziano a registrarsi in diverse regioni. I camionisti hanno bloccato alcune arterie di comunicazione chiedendo un intervento delle Forze Armate per impedire un nuovo governo Lula.
Il rischio di una guerra civile, tuttavia, è praticamente nullo. Sia per lo spirito dei brasiliani, poco incline alla violenza, sia per il completo disinteresse dei militari per qualsiasi avventura. E per l’impossibilità tecnica di controllare un paese così vasto in preda a una convulsione sociale. Il Brasile del 2022 non è lo stesso del 1964.
(www.limesonline.com, 31 ottobre 2022)