Domenica 13 novembre 2022, Avvento Ambrosiano
GIÀ, IL RAGAZZO DEL MAMIANI, UN “COME ERAVAMO”: E ADESSO?
La ripresa dell’inquietudine nella scuola, pur nella sua evidente pretestuosità, ci rimanda comunque al tempo della “rivoluzione che non c’è stata”… certo, il Joli Mai, il guevarismo (ce n’era uno anche “di destra”…), le ballate di Francesco Guccini e soprattutto l’Avvelenata, l’inno di una generazione. Che si stesse meglio quando si stava peggio?
GOODBYE LENIN, CON NOSTALGIA
di David Nieri
Se non altro, quel film di inizio millennio – Good Bye Lenin! appunto, rivelatosi uno dei maggiori successi in assoluto del cinema tedesco – coglieva in pieno quel sentimento che si sarebbe sviluppato negli ormai “ex” tedeschi dell’Est all’indomani della caduta del Muro, evento epocale del quale si è celebrato, nei giorni scorsi, il trentatreesimo anniversario. Una “celebrazione” che in Italia non ha mancato di suscitare polemiche “grazie” a una lettera indirizzata agli studenti da parte del neoministro dell’Istruzione (e del Merito, è bene ricordarlo), il professor Giuseppe Valditara, ordinario di Diritto romano presso il Dipartimento di Giurisprudenza dell’Università di Torino e l’Università Tor Vergata di Roma.
Nella lettera, come si addice ormai a un dibattito chiaroscurale, manicheo e di netta opposizione tra una “parte” e l’altra – negli ultimi tre anni, tra Covid e guerra in Ucraina, ne abbiamo avuto esempi evidenti –, il neoministro esordisce in questo modo: “Care ragazze e cari ragazzi, la sera del 9 novembre del 1989 decine di migliaia di abitanti di Berlino Est attraversano i valichi del Muro e si riversano nella parte occidentale della città: è l’evento simbolo del collasso del blocco sovietico, della fine della Guerra Fredda e della riunificazione della Germania e dell’Europa. La caduta del Muro dimostra l’esito drammaticamente fallimentare del Comunismo e ne determina l’espulsione dal Vecchio Continente”. E prosegue: “Gli storici hanno molto studiato il comunismo e continueranno a studiarlo, cercando di restituire con sempre maggiore precisione tutta la straordinaria complessità delle sue vicende. Ma da un punto di vista civile e culturale il 9 novembre resterà una ricorrenza di primaria importanza per l’Europa: il momento in cui finisce un tragico equivoco nel cui nome, per decenni, il continente è stato diviso e la sua metà orientale soffocata dal dispotismo. Questa consapevolezza è ancora più attuale oggi, di fronte al risorgere di aggressive nostalgie dell’impero sovietico e alle nuove minacce per la pace in Europa”. Per concludere: “Il crollo del Muro di Berlino segna il fallimento definitivo dell’utopia rivoluzionaria. E non può che essere, allora, una festa della nostra liberaldemocrazia. Un ordine politico e sociale imperfetto, pieno com’è di contraddizioni, bisognoso ogni giorno di essere reinventato e ricostruito. E tuttavia, l’unico ordine politico e sociale che possa dare ragionevoli garanzie che umanità, giustizia, libertà, verità non siano mai subordinate ad alcun altro scopo, sia esso nobile o ignobile. Per tutto questo il Parlamento italiano ha istituito il 9 novembre la ‘Giornata della libertà’. Su tutto questo io vi invito a riflettere e a discutere”.
Vorrei iniziare proprio dalla “Giornata della Libertà” – istituita dal Parlamento italiano per celebrare la caduta del Muro – per tentare di elaborare qualche considerazione. Non essendo uno storico di professione, ma un semplice “curioso” – e magari un “osservatore” –, le mie impressioni non potranno che essere suscettibili a pronta smentita, a confutazione immediata. Però, considerando che quel giorno l’ho vissuto nell’incertezza dei miei 18 anni, mi è capitato – e mi capita ancora oggi, a maggior ragione – di interrogarmi sulla reale “portata” di un avvenimento che dall’“altra parte” della barricata, per esempio ricordando la definizione che di quell’evento ci fornisce il presidente russo Vladimir Putin, è stato definito “la più grande catastrofe geopolitica del ventesimo secolo”.
Una cosa è certa: non ci rendevano conto – la giovane età ce lo impediva – del disastro che si stava compiendo in quei giorni sotto i nostri occhi. Ovvero, che insieme ai calcinacci del Muro stavano crollando le ultime difese contro l’occidentalizzazione selvaggia del globo, contro la finanziarizzazione dei “mercati”, contro la resistenza degli ultimi valori – secolari e comunitari – al cospetto di un benessere declinato sul paradigma della “crescita infinita” e del “non basta mai”, soprattutto in prospettiva individuale.
Ed io, come tanti miei coetanei, cresciuto con il mito della libertà contro l’oppressione, dell’Ovest buono contro l’Est cattivo, imbevuto di soft power a stelle e strisce (musica, cinema, oggetti di consumo), salutai ingenuamente quei giorni come l’alba di una nuova epoca. Inconsapevole, come del resto tanti colleghi “adulti” molto meno ingenui di me, che ci stavamo addentrando nella notte più buia.
E qui, badate bene, non si tratta di assolvere il comunismo, che, nelle sue realizzazioni “pratiche”, non può essere assolto. Si tratta di capire come mai, da quel 9 novembre 1989, sia iniziata, soprattutto per la “vecchia” Europa, la discesa verso il baratro, specie – e questo è un paradosso – da quando si è “unita”. Mancando il contraltare all’espansione violenta dei sistemi liberali, non c’è stato alcun limite in grado di arginare la tirannia globalista che ha gradualmente mercificato i diritti sociali rendendo ancor più accentuate le diseguaglianze. Un totalitarismo “mascherato” che ha sacrificato al profitto la nostra salute, la nostra istruzione, il nostro lavoro, la nostra “libertà”, pure la nostra religione.
L’esempio più calzante a questo proposito ce lo fornisce il paese che di quella “divisione del mondo” è stato l’emblema: la Germania Est, ovvero la Repubblica Democratica Tedesca, o DDR che dir si voglia. Tanto che risuonano ancora forti le parole di un gigante della politica di casa nostra, ovvero il Divo Giulio Andreotti, che amava talmente la Germania da preferirne due. Proprio al tempo della “riunificazione” – mi preme sottolinearlo – si gettarono le basi – “promesse” non mantenute, accordi mai rispettati – della guerra in corso che sta sconvolgendo l’Occidente e gli equilibri futuri del mondo intero. Sì, perché la riunificazione della Germania fu prodromica al collasso dell’Unione Sovietica e del Patto di Varsavia, senza che queste scosse telluriche a livello geopolitico riguardassero il Trattato dell’Atlantico del Nord, ovvero la NATO, organizzazione internazionale per la collaborazione nel settore della difesa (si noti bene: difesa) che a livello teorico non avrebbe avuto ragione di esistere dopo il crollo del Muro di Berlino, considerando le ragioni della sua costituzione (il Patto Atlantico fu firmato a Washington il 4 aprile 1949 ed entrò in vigore il 24 agosto dello stesso anno), dettata dalla percezione che il mondo cosiddetto “occidentale” (Stati Uniti, Canada, Regno Unito, Francia, Norvegia, Germania, Italia e altri Paesi dell’Europa versante ovest) dopo la seconda guerra mondiale stesse cominciando nutrire timori sul fatto che l’Unione Sovietica non volesse accontentarsi della spartizione concordata sui tavoli della pace e coltivasse mire espansionistiche per esportare altrove l’ideologia comunista. Abbiamo visto, in questi ultimi anni, com’è andata a finire: l’Unione Sovietica è implosa su se stessa, mentre è stata la NATO a espandersi fino ai confini della Federazione Russa, magari pure “abbaiando” (sono parole di papa Francesco).
Il “passaggio”, ovvero l’annessione della Repubblica Democratica Tedesca nella Repubblica Federale, fu traumatico. Le immagini che ritraggono la “caduta” del Muro e il riversarsi dei cittadini dell’Est nella Berlino “libera” sono ormai di dominio pubblico, ma corrispondono solo parzialmente alla reale “volontà” dei tedeschi dell’Est. Si ricordi che il 26 novembre successivo fu pubblicato l’appello Per il nostro Paese, firmato da numerosi personaggi pubblici della RDT e letto in televisione dalla scrittrice Christa Wolf. Il documento ribadiva l’intenzione di mantenere un’alternativa socialista alla Repubblica Federale per mezzo di una Repubblica Democratica indipendente. Nel gennaio del 1990 il documento risultava firmato da quasi 1.200.000 persone. E ancora il 28 novembre il cancelliere della Repubblica Federale Helmut Kohl propose al Bundestag un programma per il superamento della divisione della Germania e dell’Europa che non andava oltre la previsione di una confederazione tra i due Stati, mentre il 17 dicembre vennero pubblicati i risultati di un sondaggio commissionato da Der Spiegel, ove risultò che il 73% dei cittadini della RDT voleva mantenere la sovranità del Paese, mentre il 27% aspirava all’unificazione con la RFT (si veda, sulla questione, il bellissimo volume di Vladimiro Giacché, Anschluss. L’annessione: l’unificazione della Germania e il futuro dell’Europa, Reggio Emilia, Imprimatur, 2013).
Le cose, come sappiamo, andarono diversamente: la Germania fu ufficialmente riunificata il 3 ottobre 1990, ma molte ferite restano ancora aperte.
Mollati gli ormeggi, il transatlantico liberale era finalmente in grado di procedere sulla sua rotta apparentemente senza ostacoli, tanto che qualcuno, all’epoca, prospettò (ingenuamente) la “fine della storia”. La NATO, in quest’ottica, costituì il braccio armato di un’economia di mercato che nel giro di pochi mesi travolse – facendo a pezzi – la competitività delle industrie dell’Est. In quell’Est dove gradualmente un sentimento chiamato “Ostalgie” (da Osten, “est”, riferito alla Germania Orientale; e “Nostalgie”, “nostalgia”) prese a far capolino in una popolazione ancora frastornata che cominciò a sentire la mancanza dei simboli, dei prodotti e dei riferimenti culturali ormai morti e sepolti dalle insegne della Coca-Cola e dei McDonald’s. Dopo l’abbuffata consumistica, rimaneva forse il rimpianto di ciò che avrebbe potuto essere e che non era stato. Un sentimento ben tratteggiato dal film che abbiamo citato all’inizio, Good Bye Lenin!, un piccolo capolavoro su pellicola che, grazie a una buona dose di ironia e a una sceneggiatura azzeccatissima, riesce a trasmettere perfettamente il senso di una sorta di “rivoluzione” al contrario.
C’è da dire che la “nostalgia” non si limita al ricordo di simboli e oggetti del passato che fu, ma va ben oltre. Perché tutto sommato, se la Germania Orientale non era proprio quel “paradiso in terra” che il socialismo agognava, non si riduceva neanche all’inferno che il caro Occidente (anche grazie alle lettere di un ministro) ha sempre prospettato. Riporto alcune citazioni, che possono essere utili a farci riflettere.
“Quando il Muro di Berlino è caduto, i tedeschi dell’Est immaginavano una vita di libertà in cui i beni di consumo sarebbero stati abbondanti e i disagi sarebbero svaniti. Dieci anni più tardi, oltre il 51% degli abitanti sostengono che erano più felici con il comunismo” (USA Today, 11 ottobre 1999).
“In 40 anni, malgrado le peggiori previsioni, la piccola RDT è stata in grado di risolvere molti problemi che ora affliggono così tante nazioni. Pagando una piccola tassa si coprivano completamente tutte le cure mediche, e così anche la pianificazione familiare compresi aborti, servizi per l’infanzia, campi estivi, attività culturali e sportive per giovani e anziani. Tutta l’istruzione era gratuita, le borse di studio coprivano gli essenziali costi della vita, in modo che non era necessario chiedere prestiti, ed erano garantiti posti di lavoro dopo la laurea. Le donne erano in grado di lavorare con salari uguali, oltre il 90% lavorava. Non esisteva disoccupazione, gli sfratti erano severamente proibiti, nessuno doveva avere paura dell’indomani o dell’anno successivo” (Victor Grossman, Se si ravviva la Ostalgie (nostalgia) per la DDR qualche ragione c’è, in The Berlin89, 21 giugno 2019).
Certo, per avere una Trabant si potevano aspettare anche dieci anni. Ma i mezzi pubblici funzionavano a meraviglia e costavano pochissimo, mentre gli sprechi, soprattutto quelli alimentari, erano pressoché pari a zero. Un’austerità che oggi potremmo definire “decrescita”, quella che i “grandi della Terra” magari propugnano per salvare il pianeta, dopo averlo abbondantemente depauperato nel nome del profitto.
“Fino al 1961 [l’anno di edificazione del muro] qualunque berlinese della generazione precedente conosceva lo sporco segreto delle società consumiste contemporanee. Muovendosi più o meno liberamente attraverso le due aree, toccava con mano la fluttuazione dei prezzi dei beni di consumo famigliari, sapeva che un chilo di salsicce aveva un prezzo a Berlino Ovest e un altro a Berlino Est […] Viveva sulla sua pelle, nel vero senso della parola, l’Impero della Libertà, gli Stati Uniti, e l’Impero della Giustizia, l’URSS. Mentre in molti punti del globo, come scrive lo storico Arne Westad, si combattevano guerre per procura che uccidevano milioni di persone, nel loro piccolo regno era in atto un’intensa competizione su come calcolare il valore dei mercati, sulla pianificazione e sull’equilibrio tra bisogni sociali e individuali” (Victoria De Grazia, Prefazione a Marcello Anselmo, Il consumatore realsocialista. Dispositivi, pratiche e immaginario del consumo di massa in DDR (1950-1989), Quaderni di Storia, Firenze, Le Monnier, 2020).
Certo, in un particolare momento storico durante il quale nel nostro paese quasi cinque giovani su dieci non studiano, non lavorano e un lavoro neanche lo cercano; dove oltre il 10% della popolazione vive in condizioni di povertà assoluta; dove la popolazione gradualmente invecchia perché non si fanno (né si vogliono) più figli; dove oltre tre persone al giorno muoiono sul posto di lavoro; dove le infrastrutture, a partire dalle scuole, sono fatiscenti e a rischio collasso; bene, se tali condizioni ci permettono di osannare una “liberaldemocrazia” che questo inverno ci costringerà a guardare con terrore i termosifoni, posso tranquillamente sostenere con cognizione di causa che, al di qua del Muro e nel migliore dei mondi possibili, probabilmente qualcosa è andato storto.