Domenica 13 novembre 2022, Avvento Ambrosiano
NOI E GLI ALTRI
Tornando infine – dulcis in fundo o in cauda venenum? – alla questione preoccupante dei migranti, vediamo di recuperarne il valore centrale in termini di politica e di etica mondiali.
LIBERTÀ E GIUSTIZIA
Riproponiamo al riguardo parte di un vecchio scritto di Franco Cardini risalente al 2009, ma oggi ancora attualissimo.
Mi è stato chiesto spesso, negli ultimi tempi, da che parte io stia: se “ancora” di destra, o “diventato” di sinistra. Una volta, durante un dibattito, una interlocutrice mi ha chiesto alquanto indispettita se io fossi “un fascista o un comunista”; le ho replicato, con la massima cortesia: “Gentile signora, faccia Lei”. Scherzi a parte (anche se la mia risposta non era affatto uno scherzo), rispondo qui una volta sola e per tutte: se volete far la storia del mio iter, accomodatevi pure. Da me non avrete né un segno di reticenza, né un no comment, né un’indignazione a comando. Ho raccolto in ben cinque libri (L’Intellettuale disorganico, Scheletri nell’armadio, Testimone a Coblenza, La fatica della libertà, Ritorno a Coblenza) gli scritti che chiariscono di che pasta sia fatto: se v’interessano, accomodatevi. Non ho nulla da rinnegare, nulla di cui vergognarmi. Se volete un mio giudizio sulla “destra” e la “sinistra” contemporanee, vi dirò che le parole pesano come pietre, ma solo quando sono parole vere, non disarticolati fonemi pronunziati con interesse demagogico: e se oggi il senso di quelle due parole è andato scivolando e perdendosi, e ha mutato profondamente di segno, la colpa non è mia; sono i significati dei termini che si sono spostati, non io. Io continuo a credere in ciò in cui ho sempre creduto. Essenzialmente, cioè, che sia possibile e comunque doveroso tentar di coniugare Libertà e Giustizia.
Ma che cos’è Libertà? Che cos’è Giustizia? Non m’illudo di saperlo in senso assoluto e totale. Credo umilmente di averne intravisto qualche tratto e di aver sentito prepotente il bisogno di conformarmi ad esso. Sentite come.
Anni fa, durante uno stage in Scozia, fui ospite con alcuni colleghi per un week end in un bel castello non lontano dal Loch Ness. Il padrone di casa ci condusse naturalmente in giro per le stanze in modo da consentirci di ammirare le vecchie glorie della sua famiglia. C’era tutto: perfino il fantasma, anche se in quell’occasione non si fece sentire.
Arrivammo così in una lunga sala, dinanzi a un bel quadro in una cornice dell’Ottocento. Era un grande ritratto che rappresentava, con straordinario realismo, una splendida signora dagli occhi verdi e dai capelli tra l’oro e il rame, abbigliata con la veste e l’ampio mantello nero del Saint John Order, l’equivalente anglicano dell’Ordine di Malta. La bisnonna del Lord locale, com’egli stesso ci disse: ne andava fiero. E ne aveva ragione. Sua Grazia Lady Ann Margareth era andata in India, negli anni Ottanta del xix secolo, a curare i lebbrosi: e ci era morta.
Il bisnipote di Sua Grazia raccontava commosso di come i poveri indigeni di Lahore baciassero quelle mani nobilissime e benedette. Davvero un’eroina, Lady Ann Margareth.
Eppure, i lebbrosi indiani di oggi non le avrebbero forse tributato altrettanta gratitudine. E avrebbero fatto male: essa ne aveva ogni diritto. Ma è così che va il mondo: e il mondo cambia. Milady lasciò il suo castello e il suo patrimonio per amor dei diseredati. Anche oggi molti lo fanno, e sia reso loro onore: sono dei santi e degli eroi, come Teresa di Calcutta.
Ma ai tempi di Lady Ann Margareth i disgraziati che alcuni eroici europei andavano a soccorrere, magari a costo delle loro stesse vite, non avevano neppur lontanamente idea di quanto la vita del nostro Occidente fosse distante dalla loro; né sapevano che i nostri immensi vantaggi riposavano e riposano, in gran parte, sul fatto che per secoli noi li abbiamo sfruttati; che abbiamo rubato loro (o acquistato sottocosto) materie prime e forza-lavoro per poi rivender loro prodotti finiti ai prezzi che volevamo noi; che abbiamo seminato guerre e carestie nei loro paesi perché questo ci avvantaggiava. Ora lo sanno: ed è per questo che ci amano meno, che sono meno disposti a baciarci le mani. Anche a quanti di noi (e sono molti) lo meriterebbero.
Badate, questo non è il piagnisteo del solito pacifista. Io sono piuttosto guerrafondaio, e per giunta fiero di essere occidentale. Ma ciò non m’impedisce affatto di aver profonda coscienza di appartenere a una civiltà di pirati e di negrieri, oltre che di santi e di eroi; e di aver piena consapevolezza del fatto che il nostro benessere deriva dagli avi del primo tipo, non da quelli del secondo. Le responsabilità del colonialismo, i frutti del quale sono ancor oggi alla base della nostra superiorità socioeconomica (e della loro miseria, della loro arretratezza, sovente anche della loro schiavitù perché noi sosteniamo i regimi tirannici dell’ex terzo e quarto mondo quando ci fanno comodo: faccio un caso tipico di oggi, la Guinea Equatoriale), sono ormai dinanzi non solo ai nostri occhi, ma anche ai loro. Lady Ann Margareth sapeva bene tutto questo, i suoi lebbrosi indiani no; ma ora tutti sappiamo tutto, compresi i miserabili che dall’America latina all’Asia all’Africa e perfino all’interno dell’Australia muoiono di fame, di mancanza di cure, di aids e d’altro, ma che dispongono di paraboliche e vedono come viviamo e come sprechiamo.
E allora, ormai non ci sono più scuse, come recitava il titolo della campagna dell’onu No Excuse 2015, molto arretrata nei suoi scopi. Che comunque sono otto: eliminare la povertà esterna, la fame e la sete; raggiungere l’istruzione elementare universale; promuovere la parità della donna; diminuire la mortalità infantile; migliorare la salute materna; combattere aids, malaria e tutte le malattie ad alta pericolosità infettiva; assicurare la sostenibilità ambientale; sviluppare la collaborazione globale per la difesa della vivibilità del mondo e della dignità umana.
Perché questi non sono traguardi di libertà e di uguaglianza, ma qualcosa di molto più profondo ed essenziale: sono traguardi di dignità. È la dignità che costituisce la base di un’autentica e non retorica libertà, che sia non solo “libertà di” (parola, pensiero, proprietà ecc.), ma anche e anzitutto “libertà da” (dalla fame, dalla miseria, dal bisogno, dalla paura, dalla violenza, dallo sfruttamento). I quattro quinti del mondo, cioè quasi cinque miliardi di persone, non dispongono di questa piena “libertà da” e non hanno più voglia di aspettare, hanno perso la pazienza. È la dignità che costituisce la base di un’autentica e non astratta uguaglianza: un’uguaglianza possibile e concreta, dal momento che quella assoluta e perfetta non esiste e se esistesse sarebbe orribile. Non l’“uguaglianza dinanzi alla legge”, ch’è una ridicola beffa quando non sia accompagnata da altre forme di uguaglianza. Ma appunto, e semplicemente, uguaglianza o almeno equità nelle opportunità, nelle condizioni di base. Condizioni dignitose, cioè degne di esseri umani. La disuguaglianza all’arrivo di un processo di civilizzazione non mi spaventa, né mi preoccupa, né mi scandalizza. Sono un reazionario: Vive la difference! è quella di base, quella di partenza, che è un’infamia da cancellare. Non chiedo livellamento. Chiedo un minimo di dignità minima per tutti. Una dignità possibile e sostenibile.
Questa sarà la vera, unica e sacrosanta battaglia del xxi secolo. Se la vinceremo, l’avremo vinta tutti: noi occidentali riducendo per forza e senza dubbio (di ciò bisogna esser e ben consapevoli) il nostro benessere e i nostri privilegi, abbassando forse decisamente il nostro tenore medio e la nostra media qualità della vita, ma in cambio guadagnando in sicurezza perché non saremo più minacciati dal loro sentimento di frustrazione e di rivalsa che sta alla base del terrorismo e che è fame e sete di giustizia negata per secoli; gli altri accettando una crescita e un miglioramento ragionevolmente graduali e in cambio rinunziando al risentimento e all’aggressività. Perché il terrorismo nasce da questa profonda ingiustizia: e chi lo nega sta soltanto facendo (lo sappia o no) il gioco dei privilegiati. E sta lavorando alle tragedie future, che si abbatteranno senza dubbio sull’umanità intera se un minimo di giustizia non sarà instaurata. Ormai, non abbiamo più scuse. Non possiamo più dire né che non sapevamo, né che non credevamo che gli altri sapessero.
Questa, oggi, è la mia battaglia. Tutto il resto è un equivoco che non m’interessa. E credo fermamente che il primato sostanziale di questa battaglia, il suo senso intimo, sia metafisico e metastorico, non storico né politico.