Domenica 13 novembre 2022, Avvento Ambrosiano
ARTE, ARTE E ANCORA ARTE
UNA MATTINATA CON VAN GOGH
di Eleonora Genovesi
“Sogno di dipingere e poi dipingo il mio sogno”.
(Vincent Van Gogh)
E questi sogni hanno accompagnato una più che tiepida mattinata romana di fine ottobre, prima che una tela venisse imbrattata in nome di una pseudo difesa dell’ambiente.
Mi si consenta di non aver afferrato la connessione esistente tra la tutela dell’ambiente e l’imbrattare con una zuppa di verdura una tela di Van Gogh… La tutela ambientale è ben altro, è una consapevolezza che dovrebbe essere parte integrante di ognuno di noi, partendo dal presupposto che l’ambiente è un bene di tutti e come tale va lasciato alle generazioni future. E mi chiedo se nel caos attuale, anche linguistico, forse il termine difesa ambientale abbia assunto un nuovo significato… Ma torniamo al protagonista di questa mattinata romana: Vincent Van Gogh l’uomo che dipinse i suoi sogni ma anche le sue paure. Le opere esposte, provenienti dal Kröller-Muller Museum di Otterlo (piccolo villaggio al centro dei Paesi Bassi), fanno parte della collezione dei coniugi Kröller-Müller, i quali, su consiglio del critico d’arte e mercante H.P. Bremmer, che considerava Van Gogh come uno dei “grandi geni dell’arte moderna”, acquistarono diverse opere dell’artista, realizzando tra il 1908 ed il 1929 la straordinaria collezione custodita oggi nel museo.
E da Otterlo sono giunte a Roma 50 opere di Van Gogh che, se da un lato ci raccontano di un colto e consapevole mecenatismo, dall’altro servono a sfatare dei luoghi comuni sull’artista, primo fra tutti quello che vede la pittura di Van Gogh come la diretta espressione di una mente disturbata e di una vita infausta. Le opere esposte, al contrario, sono la prova provata dell’inesauribile vivacità creativa di un uomo, che pur sommerso da paure, ansie e dolori, riesce a dare forma e colore alla sua anima, riesce, come afferma lui stesso a dipingere i suoi sogni. Eh sì perché ricordo molto bene quando diversi miei ex alunni, che per la tesina di maturità scelsero come tema quello delle problematiche mentali (il perché di questa scelta tematica non l’ho mai capito sinceramente), per Arte optarono per la figura di Van Gogh che, a loro dire, si associava bene alla follia… Beh mi auguro che questi ragazzi, ora neolaureati, abbiano visto o vedano questa mostra che è la dimostrazione dell’esatto contrario.
La mostra si snoda lungo un percorso espositivo di tipo cronologico in quanto strutturato sui periodi ed i luoghi dove visse il pittore. Si parte dalle opere realizzate da Van Gogh nel suo soggiorno olandese, per poi passare a quelle realizzate nella sua permanenza parigina e ancora a quelle del periodo di Arles fino a giungere alle ultime opere realizzate, dapprima, nel soggiorno a St. Remy e, infine a quello di Auvers-Sur-Oise, dove mise fine alla sua vita travagliata. Dunque i lavori esposti, tra cui diverse opere meno note al grande pubblico, ripercorrono attendibilmente le varie fasi della tormentata vita di Van Gogh.
Si parte dagli esordi olandesi in cui l’artista, inviato come missionario evangelista nella regione mineraria del Borinage (Belgio), visse da vicino il clima di povertà dei minatori e delle loro famiglie, ritraendo con un crudo realismo, accentuato dalla monocromia, la tribolazione di queste persone. Ed ecco allora scorrere sotto i miei occhi tutta la fatica delle Donne nella neve che portano sacchi di carbone, opera del 1882, realizzata con gessetto, acquerello opaco e inchiostro su carta velina, i cui corpi piegati sotto il peso dei sacchi trasudano una fatica indicibile. L’eroismo di queste donne, mogli dei minatori, è esaltata dai toni del marrone che costruiscono le forme curve dei loro corpi, marrone posto in netta contrapposizione con il bianco della neve. E che dire poi della Donna che pela le patate del 1881, uno dei numerosi disegni realizzati da Van Gogh negli interni delle case di Etten.
L’opera ci racconta una scena di vita quotidiana specchio dell’asprezza della vita dei contadini, asprezza resa con crudo realismo mediante la tecnica del gessetto nero, acquerello grigio e acquerello opaco su carta vergata. E ancora ecco la Contadina che raccoglie il frumento e la Contadina che lava una pentola, disegni del 1885, in cui Van Gogh fissa nella carta velina l’azione delle due donne, entrambe piegate, intente, una a raccogliere il frumento e l’altra a lavare una pentola.
Ancora una volta l’artista conferisce alle immagini un forte realismo esaltato dalla tecnica del gessetto nero e gouache grigia. Mi sembra quasi di percepire il mal di schiena di queste due contadine… Il filo conduttore delle prime sale è quello della sofferenza. Che dire poi del Vecchio che soffre, opera dal punto di vista ravvicinato, tanto che per un attimo mi fa pensare di essere nella stessa stanza di questo anziano, di essere davanti a lui che siede con la testa china coperta da mani callose. Il vecchio contadino di cui Van Gogh coglie perfettamente la stanchezza e la sofferenza definendone l’immagine con l’acquerello marrone chiaro e bianco opaco.
E poi la fatica dei Taglialegna, acquerello del 1883, che ritrae 4 uomini che stanno tagliando un grosso tronco. I corpi e i volti sono semplificati, schematizzati come il paesaggio circostante.
Van Gogh ritrae uomini immersi nella natura esattamente come lo sono i tronchi degli alberi, quasi a voler sottolineare l’inscindibile legame tra uomo e natura.
Ma il clou di questa sofferenza lo percepisco nelle Teste di Donna, olii su tela, che ritraggono donne dai tratti fisiognomici duri, donne provate dalle difficoltà della vita… Sono volti penetranti, intensi la cui asprezza è data dalla luminosità del volto che si stacca dallo sfondo scuro. Nella Testa di donna con cuffia bianca in cui Van Gogh ritrae Sien, figlia di una delle famiglie contadine che lo accolgono spesso a cena, la stessa Sien che troveremo nei Mangiatori di patate, la raffinatezza della cuffia bianca della ragazza, bianco che risalta fortemente dai toni terrosi dello sfondo, non basta ad eliminare dal ritratto quel non so che di asprezza. E a chiudere il cerchio ecco I Mangiatori di patate, litografia su carta velina che precede la versione definitiva dell’opera, costituendo in qualche modo la summa di tutti quei volti di donne ed uomini, già presi a modello dall’artista per opere che li rappresentano singolarmente.
Una lampada al centro della stanza illumina la povera cena di questa famiglia contadina del Borinage. L’asprezza dei volti dei commensali, la serietà dei loro sguardi è esemplificativa della loro fatica nel mettere insieme il pranzo con la cena. Quest’opera è l’antitesi dell’estetica del bello. Al contrario è il manifesto dei poveri, degli sfruttati. Ma era proprio questo che voleva Van Gogh. E lascio la parola a lui: “Ho voluto, lavorando, far capire che questa povera gente che alla luce di una lampada mangia patate servendosi dal piatto con le mani, ha zappato essa stessa quella terra dove le patate sono cresciute” (tratto da una lettera scritta nell’aprile del 1885 alla sorella).
E la mano impietosa con cui Van Gogh riesce a rendere il crudo realismo di questi corpi e volti segnati dall’enorme fatica, ritratti durante il lavoro, accartocciati su se stessi o chini sui campi, o durante la cena che chiude la giornata, ci dà la misura, non solo della bravura dell’artista, ma anche della sua partecipazione emotiva alla vita di ognuno di loro.
Dal periodo olandese si passa poi a quello parigino, dove Van Gogh arriva nel 1886. Nella Parigi impressionista e puntillista la tavolozza dell’artista si riempie di colori.
A Parigi Van Gogh amplia la scelta dei soggetti da rappresentare, acquisendo un linguaggio più diretto e cromaticamente palpitante. E, dopo la Collina di Montmartre ecco balzare davanti ai miei occhi per il suo vivace cromatismo l’Interno di un ristorante, un olio su tela del 1887, in cui l’artista ritrae, appunto, l’interno di un ristorante parigino, uno dei tanti che all’epoca costituivano, insieme ai Cafè Chantant, il fulcro di quel tempo spensierato che fu la Belle Époque. La tecnica divisionista del quadro attesta quanto Van Gogh, affascinato dal Pointillisme di Seurat e di Signac, da quell’equilibrio tra colore e luce, sia riuscito a far proprie le teorie divisioniste personalizzandole.
Alla monocromia del periodo olandese si sostituisce la sperimentazione della potenza dei contrasti simultanei che accendono i gialli con i blu, i viola con l’arancio. Quindi l’Interno di un ristorante, sia per la tecnica adottata che per il taglio fotografico dato all’immagine ci dà la misura della modernizzazione di Van Gogh. Del resto siamo nella Parigi dell’Architettura degli Ingegneri, delle Affiche di Toulouse-Lautrec e dello studio fotografico dei fratelli Nadar: Parigi il nuovo che avanza. E Van Gogh non si ritrae affatto.
Proseguendo il percorso i miei occhi sono catturati dall’Angolo di prato, bellissimo olio dell’estate 1887. In questo periodo Van Gogh si reca regolarmente in piccoli villaggi sulle rive della Senna per lavorare en plein air.
Ed è in uno di questi villaggi che realizza questo dipinto.
La bellezza dei fiori immersi nell’erba, il tocco delle pennellate che sfiorano velocemente e sommariamente la tela, la vivacità cromatica e vibrante, la luminosità della tavolozza, ci presentano un nuovo Van Gogh. E poi l’exploit: ecco apparire al centro della stanza l’Autoritratto del 1887 (uno dei 25 autoritratti eseguiti a Parigi). Questo bellissimo autoritratto, dal fondo azzurro con tocchi di verde, ci mostra il volto dell’artista di tre quarti, con uno sguardo fiero e al contempo penetrante rivolto verso lo spettatore.
Penso: “Perché Van Gogh mi fissa così? Mi sta scrutando? Vuole sapere se amo l’Arte per davvero o se sono davanti a lui solo per poi dire agli altri: io c’ero? Ma certo mio caro Vincent che amo l’Arte. La amo con tutta me stessa. Con l’Arte ogni volta mi rigenero”.
Le pennellate rapide, date radialmente conducono gli occhi dello spettatore dritto negli occhi dell’artista, quasi ad instaurare tra i due un dialogo muto, un dialogo fatto di sguardi. In quegli occhi e in quell’espressione pensierosa e fiera c’è tutto il tumulto dell’anima di Van Gogh.
Del resto ogni suo autoritratto ha una vita propria che si origina dall’anima del pittore e che nessuna macchina fotografica, tanto in voga all’epoca, avrebbe potuto mai catturare.
E nel mio percorso incontro poi Fiori in un vaso blu, un vaso di porcellana blu con margherite, girasoli, anemoni, lilla ed i non-ti-scordar-di-me. Mi colpiscono la pennellata rapida e sicura e le variazioni tonali, variazioni particolarmente evidenti nei fiori. E poi una Natura morta con statuetta in gesso caratterizzata da una forte nitidezza delle immagini ripresa dall’arte giapponese molto in voga in quel periodo.
Ed ora entriamo nel periodo di Arles con Cesto di limoni e bottiglia altra natura morta che risente dell’influsso dell’arte giapponese. Nel 1888, nel corso del suo soggiorno ad Arles, in un clima caldo come quello provenzale, Van Gogh realizza dei “soleggiati” capolavori come l’ormai celeberrimo il Seminatore al Tramonto. Sì sì si parliamo proprio di quel Seminatore, la bellissima opera imbrattata, anzi direi dissacrata da un delirante quanto insensato amore per l’ambiente. Quando un mio alunno qualche giorno fa mi ha chiesto: “Prof. ma mi dice cosa c’entra la difesa dell’ambiente con l’aver sporcato il quadro di Van Gogh?”, gli ho risposto che anch’io mi ero posta la sua stessa domanda, arrivando alla conclusione che: nulla, le due cose sono distanti anni luce e che, vivendo noi in un’epoca ahimè spesso demenziale, in fondo dovremo abituarci a insensatezze come questa smettendo di meravigliarci.
Credo che Van Gogh ed il seminatore ritratto si siano rigirati nella tomba dinanzi a tanta illogicità. Ma torniamo all’opera.
Siamo in giugno, il giugno del 1889 e tutto si colora di giallo.
Van Gogh, da poco arrivato ad Arles, incantato dalla bellezza della natura, torna a dipingere i temi della vita rurale.
Lascio la parola all’artista: “C’è adesso in tutte le cose l’oro antico”… Van Gogh è preso da una sorta di furore che lo spinge a lavorare incessantemente… Si sente un contadino della pittura. Il Seminatore al tramonto è ambientato in un paesaggio agreste di inizio estate. Il quadro è diviso in due parti: quella superiore in due diverse tonalità di giallo, una per il grano ed una per il bellissimo sole che sta scendendo all’orizzonte, la parte inferiore è viola con venature azzurre e blu. Sulla destra troviamo il contadino che sparge i semi a terra. Ma il vero protagonista di quest’opera non è il seminatore bensì il colore. L’occhio è infatti subito attirato dal bellissimo sole che campeggia al centro della tela, un sole che inonda tutto di una luce di oro puro.
Il periodo di Arles si chiude con una Natura Morta con un piatto di cipolle, un olio su tela realizzato nel gennaio del 1889, dopo essere tornato a casa dall’ospedale dove era stato ricoverato per il taglio dell’orecchio.
Van Gogh sentiva impellente il bisogno di riprendere i pennelli, perché impellente era il suo bisogno di accertarsi che l’incidente non avesse minato le sue capacità artistiche. Ancora una volta lascio la parola a Van Gogh che scrive al fratello Theo: “Domani torno a lavorare. Inizierò con fare due Nature Morte per riabituarmi a dipingere”. In quest’opera troviamo su un tavolo degli oggetti della vita quotidiana dell’artista come la bottiglia verde con l’assenzio, la caffettiera con il caffè, 2 cipolle, una pipa in primo piano, un libro dal titolo l’Annuaire de la Santé (l’Annuario della Salute, manuale di medicina naturale usato da Van Gogh per curare l’insonnia che lo tormentava) ed una lettera a simboleggiare il corposo carteggio fra lui ed il fratello Theo, ma anche quello con la sorella o con gli amici. Ognuno di questi oggetti ha un valore simbolico ed al contempo autobiografico.
La mostra si chiude con le opere del periodo di Saint -Remy e di Auvers-sur-Oise.
Con i Giardini del Manicomio a Saint -Remy, opera realizzata nel maggio del 1889 all’inizio della sua permanenza nell’ospedale psichiatrico del centro provenzale, Van Gogh sembra quasi accettare con consapevolezza il suo destino.
Tra una spessa vegetazione incolta si intravedono le mura del manicomio. L’edificio è fortemente schematizzato e reso con pennellate piatte, per esaltare la vegetazione selvaggia resa con rapidi tocchi e corposi di colore, vegetazione che è la vera protagonista del quadro.
E ancora Paesaggio con covoni e Luna nascente in cui i covoni sostituiscono il grano. Mentre la luna sorge dietro le montagne i covoni si tingono di arancione che si contrappone all’azzurro violaceo del cielo.
Dopo l’estate del 1889 Vincent Van Gogh ottiene il permesso di addentrarsi nella campagna circostante. Ed è qui che dipinge Pini al tramonto, titolo che ha un qualcosa di evocativo.
Troviamo poi il Burrone del dicembre 1889, titolo che la dice lunga sullo stato d’animo dell’artista. Van Gogh si serve di una prospettiva oserei dire allucinata. Le immagini realizzate con pennellate decisamente violente risultano agitate e straziate.
L’universo in tempesta rappresentato in questo dipinto è la proiezione dei tormenti interiori del pittore. Questo burrone sembra inghiottire una qualsivoglia speranza di guarigione.
Infine troviamo il dipinto dal titolo Vecchio Disperato (Alle porte dell’eternità) realizzato nel maggio del 1890, appena due mesi prima della sua morte. In una stanza spoglia vediamo un vecchio seduto su una sedia di paglia, piegato su se stesso con i pugni chiusi a nascondere il volto. La stanza nella sua essenzialità sembra amplificare la disperazione che pervade l’uomo. Quest’opera, a dispetto della scelta cromatica del blu e del giallo fatta da Van Gogh, ci restituisce l’immagine di un uomo inghiottito dal dolore, un uomo annientato dal peso soffocante della vita, l’uomo Vincent Van Gogh. Osservando le opere in mostra ci si rende conto di come le scelte cromatiche di Van Gogh siano la visualizzazione dei suoi stati d’animo. Infatti se il cromatismo del periodo olandese serviva a visualizzare le difficoltà della vita dei contadini e la vivacità coloristica del periodo parigino che si potenzierà nell’anno trascorso in Provenza, era l’effetto della speranza di una vita migliore, il cromatismo delle opere di Saint-Remy che si trasforma in un intrico di contrasti coloristici sono l’immagine di quella profonda disperazione che porterà Van Gogh alla morte.
Questa mattinata romana è stata molto istruttiva poiché la scelta di proporre un percorso strutturato sui luoghi in cui l’artista è vissuto, ha aiutato a capire molto meglio come le sue opere riflettessero profondamente il suo stato d’animo, uno stato d’animo che passa dalla compartecipazione della sofferenza dei minatori belgi, alla gioia contagiosa della Parigi della Belle Epoque, all’amore per la natura alimentato dal caldo clima provenzale, fino alle disillusioni dell’ultimo periodo. L’immagine che ne viene fuori è quella di un Van Gogh dall’animo eclettico, un animo che ha provato sensazioni ed emozioni diverse.
E ancora una volta l’Arte si riconferma essere un balsamo per l’anima… Quindi sì Arte Arte e ancora Arte
“Non vivo per me, ma per la generazione che verrà”.
(Vincent Van Gogh)